Acqua stagnante - Vikkius

Acqua stagnante, dappertutto. Galleggiavamo quasi sopra l’acqua. Il treno sembrava avere una chiglia e solcare l’acqua invece di correre sopra un tratto di palude. Il fumo che usciva dalla locomotiva a tratti si mischiava alla nebbia greve di esalazioni, odorante stantio, trasudando abbandono.
Un sole pallidissimo non riusciva a penetrare col suo soffio vitale i fluidi morti, impregnati di gas gorgogliante senza soste dalle viscere della terra, fuochi fatui e borborigmi d’inferi.
Un velo di umidità si formava incessantemente sui vetri del finestrino, colando in gocce sporche di fuliggine che sembravano sporcare ancor di più il mefitico paesaggio che ci circondava.
L’ansare della locomotiva, il brontolio stanco del vapore che si sprigionava dagli ugelli incrostati di ruggine, facevano temere che alla prima difficoltà, un pendio, una salita un po’ più ripida, i polmoni di metallo consunti dal tempo, potessero cedere di schianto lasciandoci nudi, a galleggiare in un limbo dove non si distingueva più il cielo dalla terra, il sotto dal sopra, l’oggi dal domani.
Nonostante il boccheggiare rumoroso delle caldaie a pressione, riuscivo a distinguere il richiamo stridente di qualche uccello di palude, cosa che mi parve invero strana, perché non conoscevo nessuna creatura delle paludi che avesse voci così stridule e potenti. Forse un intero stormo si era appollaiato sopra il tetto del nostro scompartimento e approfittava dell’occasione per procurarsi un passaggio verso altre zone di pesca senza spendere proprie energie.
Un sorrisetto mi venne alle labbra al pensiero di molti uccelli disposti ordinatamente in fila sopra le nostre teste, intenti a scrutare l’orizzonte alla ricerca della pozza adatta nel quale affondare i lunghi becchi.
In quel momento l’uomo di fronte, fino ad allora teso come me nell’inutile sforzo di penetrare con lo sguardo l’aria spessa, fece un lento movimento con gli occhi , girandoli verso di me.
Le sue sclere erano innaturalmente giallastre, come se soffrisse di qualche malattia di fegato, e anche il suo colorito non era dei più sani. Un grigiore diffuso sulle guance e sulla fronte, del tutto simile alla nebbia che ci circondava, tanto che pensai che fosse egli stesso parte di essa, testimoniava, credevo, la precarietà della sua salute. Il resto del viso era coperto da una lunga barba nera, qua e là spruzzata di rame, che gli dava un aspetto ben più vecchio di quanto il resto del corpo, lungo e magro, non tradisse.
Nel suo sguardo lessi un barlume di interesse, subito però fugato da chissà quale contrasto interno che pareva mortificargli ogni accesso di vitalità. Ebbi l’impressione che avesse paura, o timore di manifestare qualche interesse per alcunché, come se la sua mente si fosse inaridita e il cuore fosse incapace di battere per qualsiasi cosa che non fosse il semplice battere.
La lunga palandrana nera, il cilindro anch’esso nero e i guanti di capretto che indossava anche mentre scriveva su un quaderno, facevano di lui una macchia d’inchiostro a volte intonata col colore plumbeo circostante, altre volte violentemente in contrasto con i toni suffusi di luce proiettati dallo sfondo del vetro.
Ben presto l’uomo ritornò ai suoi appunti, senza dire una parola.
Non aveva aperto bocca da quando era entrato nello scompartimento, parecchie miglia prima, e credo non lo avrebbe fatto se il treno, a un certo punto, non avesse avuto un brusco arresto.
Le valvole di sfiato degli stantuffi gemettero di un lamentoso e prolungato sospiro e le ganasce afferrarono le ruote in un inesorabile ed efficace abbraccio di metallo.
Il treno sobbalzò due o tre volte e poi si arrestò.
L’uomo sospirò. Depose il quaderno sulle ginocchia, si tolse il cilindro e appoggiò la nuca alla consunta imbottitura di velluto rosso del sedile.
Sospirò:- E’ lui.
Lo scrutai da sopra gli occhiali rotondi. – Mi scusi se mi permetto – dissi. – Lui chi?
Stranamente mi parve che l’uomo non si aspettasse quella domanda, eppure era naturale che mi avrebbe incuriosito un’affermazione del genere. Forse non si era reso conto di aver parlato ad alta voce, di aver espresso qualcosa che credeva di tenere per sé e si era stupito che qualcuno potesse essere penetrato così, da un momento all’altro, nel suo intimo.
In ogni caso, qualunque fosse il motivo della sua sorpresa, ormai il dado era tratto ed egli dovette giudicare estremamente scortese ignorare la domanda e risolvere tutto con una scrollata di spalle. Perciò stavolta si voltò decisamente verso di me, dandomi modo di osservare anche lo sguardo profondo e malinconico delle iridi marroni. In quel corpo sembravano l’unica cosa veramente viva .
- Permettete allora che mi presenti – disse. – Mi chiamo Rodenbach.
Si sfilò il guanto destro e si protese in avanti, tendendomi la mano. La strinsi. Era asciutta e fredda, e non presentava la minima callosità. Era una di quelle mani da artista, pittore forse, che non avevano mai sopportato altro che pesi molto leggeri. La stretta era comunque cordiale, un po’ di più da quanto ci si potesse attendere da una conoscenza casuale.
- Graf - dissi a mia volta. – Deduco che non sia la prima volta che viaggiate su questo treno.
- No, in realtà è la seconda; e per la seconda volta la locomotiva si arresta su questo tratto di palude.
Si lasciò ricadere sullo schienale, mormorando:- Temo che dovrò rivederlo ancora. Ma già, voi vi starete chiedendo chi…
- Non vorrei sembrarvi invadente o troppo curioso, signore. Se credete che io sia stato indiscreto o se temete che la mia domanda possa essere causa di affanni, allora vi prego di dimenticare l’incidente. Io tornerò senz’altro al giornale che stavo leggendo fino a poco fa, e non vi chiederò più nulla.
- Le parole a volte escono di bocca fuori dalla nostra volontà – replicò, - ma di questo non bisogna certo farne colpa agli altri. La verità è che, nel mio intimo, forse cercavo una persona alla quale rivelare una storia che ha dell’incredibile.
Fuori si era fatto silenzio. Gli uccelli palustri, che fino a poco prima si erano scambiati segnali e richiami, d’improvviso tacevano, come se si fosse avvicinato uno spietato predatore ed essi avessero cercato scampo sugli alberi più alti e lontani.
Perfino i sibili di vapore che avrebbero dovuto soffiare dai pistoni in attesa di rimettersi in moto rimanevano inerti, in attesa di chissà quale nuovo impulso vitale.
La nebbia era una coltre continua di spesso cotone.
L’uomo si torse nervosamente le mani e poi le affondò fra le cosce, come per nasconderle.
- Sono passati più di cinque anni. All’epoca parte di questa che ora è palude sorgeva dall’acquitrino, lasciando scoperte ampie zone d’asciutto. E’ stata colpa di alcuni lavori del Genio Militare sull’argine del fiume ad avere innalzato il livello dell’acqua e causato l’affondamento di esse. In quel tempo io e il mio amico Wolfgang Moer abitavamo in una città a poche miglia da qui. Lui faceva il pittore…
- Ah! – Esclamai. – Pittore?
- Sì, dipingeva. Io mi reputo invece un poeta, e tutti e due venivamo da queste parti in cerca di ispirazione, lui per le sue tele, io per i miei versi.
“L’acqua degli antichi canali è debole
e di mente così tetra, tra le città morte…
Acqua così dolente, al punto da sembrare mortale.
Perché così nuda e già così nulla? E cos’ha,
preda della sua sonnolenza, dei suoi sogni inaciditi,
per ridursi così a uno specchio di brina traditore
dove la stessa luna fatica a vivere?”
Venivamo in questa palude preferibilmente nelle ore del pomeriggio, in vicinanza del tramonto, e trascorrevamo qui anche una parte della notte, a volte fino al mattino, a osservare i fuochi fatui e a sentire i rumori del buio.

L’uomo sembrava ormai parlare a se stesso.
- Un giorno, salendo su un piccolo colle, trovammo i ruderi di un palazzo costruito là chissà da chi. Non vi era nulla intorno che potesse giustificare una tale costruzione: non un paesaggio allettante, non una fonte d’acqua salubre, non una cava di materiale vicino che potesse far pensare a un basso costo delle pietre e della manodopera. Rovesciate per terra vi erano due alte colonne di marmo bianco, scanalate e montate con perizia antica, mentre qui e là si intravedevano vecchi pezzi di muro grondanti edera, mattoni, spezzoni di travi consunte. Wolfgang fu certo di aver trovato il posto adatto per dipingere ciò che aveva in mente, ossia la degradazione di tutte le umane faccende, l’imputridirsi di ogni attività, l’eterno incancrenirsi dell’opera dell’uomo. Tutto diventava acqua morta.
Rodenbach si interruppe e scrutò fuori, protetto dal vetro, nell’impossibile impresa di perforare la bruma.
- Il mio amico, come scoprii successivamente, aveva preso l’abitudine di recarsi laggiù anche da solo, non attendendomi quando ero occupato in altre faccende, e a poco a poco la sua sembrò diventare una vera e propria ossessione. Trascorreva più tempo in quelle rovine di quanto non ne trascorresse in città con me o altri amici. A volte scompariva per giorni interi, altre volte dava appuntamenti ai quali non si presentava e per i quali non dava alcuna giustificazione. Ma il suo quadro non giungeva mai a termine. A me sembrava che il paesaggio fosse completo e che non vi fosse più nulla da aggiungere, ma lui asseriva sempre che mancava un’ultima pennellata, un estremo sbuffo di colore, una piccola sfumatura che ponesse il suggello all’opera. Un giorno venne da me, in preda a una strana agitazione. Tirava profonde boccate di fumo dalla pipa e sbuffava quasi come questa locomotiva. Parlando si bilanciava su un piede e poi sull’altro, mentre tutto il suo corpo fremeva di apprensione mal repressa. Si tormentava coi denti il labbro inferiore e poi vi passava continuamente la lingua sopra, in un gesto che non gli avevo mai visto fare prima. Pensai anche che avesse cominciato a fare uso di laudano o altre sostanze chimiche che gli avessero eccitato il cervello, ma mi sbagliavo.
Una folata di vento improvviso investì il treno, facendo ondeggiare lievemente i vagoni. Rodenbach ruotò la testa verso l’alto, chiudendo gli occhi, come per annusare meglio, senza l’impaccio della vista, l’aria stagnante ora mossa dal vento.
- Lo sento – mormorò. Poi, aprendo di scatto gli occhi:-Vi sto annoiando?
- Tutt’altro – risposi. – Continuate, vi prego.
- Wolfgang mi disse che finalmente aveva scoperto che cosa mancava al suo quadro: mancavano le voci. Sì, è così, mancavano le voci della palude, quelle di coloro che erano diventati fango nel fango, liquidi che soltanto in apparenza non avevano vita, acque che custodivano segreti immensi ed antichi. Mancavano i sospiri di mille e mille persone che avevano vissuto in quella casa, le vibrazioni dei loro fluidi biologici, sangue, urine, sperma, sudore che erano fluiti nella palude e che avevano fecondato il fango, gli insetti, i topi, le nutrie, gli uccelli. Il suo quadro non aveva questi suoni e fin quando non l’avesse avuti non si poteva dire che fosse completo. Non sapevo se protestare o assecondarlo, se tentare di dissuaderlo da quello che mi sembrava un parto folle della sua mente o se lasciar correre e sperare che rinsavisse dal suo proposito bislacco. Mentre ancora ero indeciso sul da farsi, lui strizzò un occhio e mi disse: << Vieni a sentire>>.
Mi accorsi che era molto tempo che non andavo con lui nella palude, anzi si può dire che avevo come la sensazione di un qualcosa che, a un certo punto, avesse stabilito di tenermi lontano da lì, non sapevo per quale ragione. Una sensazione di pericolo, forse, e certamente di disagio, silente, non udibile dalla volontà, ma certamente presente nelle sua impalpabile ma massiccia leggerezza.
Volevo quindi protestare, ma a Wolfgang era impossibile negarsi quando aveva preso una decisione. Mi prese sottobraccio e quasi mi condusse di peso per strada, fino alla stalla dove tenevamo i cavalli. Partimmo di gran carriera. Non lo avevo mai visto prima di allora frustare in quel modo la sua bestia. Non era cattivo nei colpi, ma frenetico, come se ogni istante e ogni miglio che lo separasse dalla meta fosse per lui un insopportabile intermezzo di inutilità in una missione peraltro imprescindibile e urgentissima. Più cercavo di parlargli e consigliargli di andare a passo lento invece che al galoppo e più lui accelerava l’andatura. Non mi restò che corrergli dietro e stargli vicino, perché un senso di paura aveva cominciato a opprimermi il petto. Avevo il timore che anche la sua personalità, intossicata dai miasmi mefitici dell’acqua immota, avesse iniziato a sgretolarsi e marcire come un’esile pianta strappata dalle radici e abbandonata al ribollire dei gas e all’aggressione della muffa.
Una nebbia fitta era intanto scesa nella palude e io desideravo che finalmente si arrestasse la nostra corsa, perché temevo di precipitare dentro un fosso o una scolina; ma lui accelerava ancora, non curandosi di nulla. Sembrava che in tutto quel periodo di frequentazione avesse acquistato la facoltà di una vista supplementare, che gli consentiva di giungere dove occhi comuni non giungevano, e un nuovo e più potente senso di orientamento, simile a quello degli uccelli migratori che vedevamo passare a frotte da quelle parti.
Non so come riuscii a stargli dietro e a giungere al piccolo rialzo di terreno, dove ci fermammo in prossimità delle colonne cadute.
Wolfgang legò il suo cavallo a un arbusto. Io lo imitai.
Ormai si era fatto buio fitto e la nebbia, che sentivamo sulla nostra pelle invece che vederla, era una cappa più spessa del solito. Ovattava i rumori e i suoni, gli sciabordii giungevano sommessi e i richiami degli animali notturni lontani, estranei, lunari. Sì, da qualche parte era d’improvviso sorta la luna, ma non riuscivo a vederla. La immaginavo piuttosto, e in qualche modo quel pensiero mi rassicurava un po’.
<< Ascolta>>, disse Wolfgang. Tesi le orecchie; anzi, si può dire tesi tutto il mio essere affinché non perdesse un frammento di realtà, un brandello di suono, un alito di vento umido e rarefatto. Nulla, non udivo nulla oltre i soliti rumori.
Il mio amico, invece, sembrava stesse ascoltando il più bel concerto mai scritto nell’universo. Immaginavo, più che vedere, che avesse gli occhi chiusi, il busto eretto e il capo lievemente gettato all’indietro, e che stesse dondolando, seguendo note a lui soltanto note e armonie mute ad orecchie non esercitate. Forse è proprio questo ciò che fanno i musicisti quando immaginano un pezzo d’opera, una suonata d’archi, un pizzicare di corde. Rimasi in attesa non so per quanto tempo, immobile, temendo in qualche modo di disturbare la melodia che assaporava e non pensando ad altro che a ripararmi dall’umidità, infagottandomi ancor di più nel cappotto. Non so quanto tempo trascorse prima che lui si riscuotesse e mi toccasse un braccio.
<< Ci sei?>>, mi domandò.
Io c’ero, ma avevo il bruciante presentimento che fosse toccato a lui perdersi.

Rodenbach si arrestò, inseguendo pensieri remoti ma non fiaccati dal tempo. Percepivo un’intensa malinconia trasparire dalle sue parole e intuivo che il dramma del suo amico non si fosse esaurito nel rincorrere le impossibili sonorità di una tela.
Un nuovo rumore si era aggiunto ai sibili che il vento evocava scivolando sui vagoni, sulle ruote, sui respingenti e i cavi del treno. Un tonfo sordo e cadenzato, come una serie di passi sul tetto del nostro scompartimento. I rumori di sopra, lenti e attutiti dal metallo, andavano e venivano, con estrema lentezza, come se chi o cosa li provocasse non fosse del tutto sicuro del proprio equilibrio. Forse si trattava di gru che erano ritornate a occupare quella posizione privilegiata, oppure di altri animali palustri che, spinti dalla curiosità o dalla fame, si aggiravano dove sentivano calore o annusavano il cibo.
Rodenbach continuava a tenere gli occhi chiusi, come se fosse in ansiosa attesa di qualcosa che non poteva essere percepito con la vista ma che non era muto agli altri sensi, così massimamente all’erta. Caracollava la testa da un lato all’altro, seguendo quei rumori misteriosi e di tanto in tanto annuiva, seguendo chissà quale remoto filo di pensieri.
Io rimasi immobile al mio posto, respirando piano, avendo timore che perfino il rumore del mio fiato potesse essere di disturbo. Rodenbach forse stava componendo, in quel preciso momento, qualche altra sua poesia e non volevo essere io a spezzare quel magico incanto che a volte prende l’artista e che si tramuta, ipso facto, in opera d’arte se lasciato esprimersi pienamente.
Il mio compagno di viaggio parve riscuotersi. Abbozzò un sorriso di scusa e riprese:
- Wolfgang era sempre più lontano, più estraneo. Se prima di quella sera qualche volta mi cercava, da allora non lo fece più. Ogni tanto lo vedevo passare sotto casa mia, smagrito, sciatto nel vestire e coi capelli in disordine, lui che era stato sempre molto attento alla sua persona e che non sarebbe mai uscito per strada se non accuratamente sbarbato. A volte aveva il suo quadro sotto braccio, altre volte no: una tela che non aveva mai la dignità della firma finale. Quelle volte che mi risolvevo ad andare a fargli visita, o non lo trovavo a casa oppure faceva finta di non esserci e non apriva l’uscio. Finché un giorno non conclusi che dovevo farlo vedere da un medico. Convinsi il dottor Heinrich a seguirmi a casa di lui ed ero fermamente intenzionato a non andare via e rinunciare anche se Wolfgang avesse protestato e dato di testa. Ma non ce ne fu bisogno perché lui a casa non c’era, come potei vedere una volta forzata la serratura della porta. Dentro regnava un disordine inverosimile e un odore di chiuso e di stantio, che mi ricordò quello della palude. I miei occhi corsero immediatamente al cavalletto che teneva vicino alla finestra. Il quadro era stato ridotto quasi a brandelli. Lunghe fenditure impresse da un coltello tagliente avevano ridotto la tela a una serie di strisce colorate che pendevano inerti dalla cornice. Ero certo che si trattasse del quadro oggetto della sua ossessione ma, avvicinandomi meglio, potei vedere che non si trattava di quello, bensì di un autoritratto dipinto con colori tetri e per nulla naturali. Allora la mia preoccupazione aumentò fortemente, perché percepii in quell’atto un messaggio di annichilamento, di auto-distruzione, e dentro di me cominciai a sentire un impulso a correre, fare presto, perché sentivo il terreno franarmi sotto i piedi e il tempo scorrere via portando con sé ciò che rimaneva del mio povero amico. Passai di corsa davanti a un inebetito dottor Heinrich e inforcai la mia cavalcatura, non ponendo esitazioni in mezzo e non risparmiando colpi di frustino. Era l’imbrunire quando raggiunsi le rovine. Il suo cavallo era lì, libero da pastoie, che pascolava tranquillo. Mi aggirai tra le rovine in preda a un’agitazione crescente, frugando ogni anfratto con gli occhi, chiamandolo a gran voce. Inutilmente. Infine mi accasciai, la schiena a una colonna, mentre fiotti di sudore gelato mi scendevano dal collo dentro la camicia, inzuppando perfino i pantaloni e le scarpe. Cercavo di riprendere fiato… quando lo udii. Dapprima lontano, remoto, una voce portata dalle ali del vento; poi un po’ più forte. Saltai di nuovo in piedi e mi inoltrai in una macchia di canne che delimitavano un angolo di acquitrino. La scostai con una furia tale da scorticarmi le mani. Lui era dentro l’acqua, fino alla gola, lontanissimo da me. Teneva il quadro con le due mani sopra la testa, e cantava. Cantava a voce alta una nenia che non conoscevo, o che forse non riuscivo a riconoscere a causa della distanza e del vento che spingeva verso di me soltanto spezzoni di strofe. Urlai con quanto fiato avevo in corpo, scongiurandolo di fermarsi, di attendermi ché presto sarei andato a prenderlo e lo avrei riportato a riva. Gli dissi che avevo scoperto una locanda dove avevano del meraviglioso vino cotto, che avevo composto un’ode in suo onore, che una signora bellissima mi aveva insistentemente chiesto di lui. Fu inutile. Non mi udiva. E dopo poco non lo udii più neppure io. Vidi scomparire sott’acqua prima la sua testa, poi le sue mani, infine il quadro.
Rodenbach tacque e rimase immobile, come se ascoltasse l’eco delle sue stesse parole che vibravano ancora nello scompartimento.
Il mio compagno di viaggio si era definito un aspirante poeta e tale lo era veramente, almeno per quel che riguardava l’abilità nel maneggiare le parole, le pause, l’inflessione della voce. Forse il suo era nient’altro che un esercizio di stile, scaturitogli dentro dalla situazione contingente che l’aveva ispirato. Chi può sapere che cosa passa nella mente di un poeta?
Forte dello scetticismo che non mi aveva mai abbandonato in ogni occasione della vita, e intimamente convinto della superiorità psicologica del dubitare, mi limitai a commentare con un laconico:- Una storia interessante di follia.
Ma Rodenbach fece un gesto nervoso con la mano, dicendo:- Tacete… ascoltate.
Tesi l’orecchio sul nulla. Oltre al sibilo del vento non sentivo più niente. I tonfi sul tetto erano scomparsi, nessun rumore vivo disturbava la quiete del treno che sembrava sospeso sul vuoto.
Stavo per scuotere la testa e ritornare al mio giornale, quando sentii un gorgoglio lontano, sulle prime appena percettibile. Era come se innumerevoli bollicine di gas avessero deciso di librarsi in aria tutte nello stesso momento, e subito altre e altre ancora ne avessero preso il posto per perpetuare il ciclo. Le sentivo crepitare come foglie secche sotto uno stivale, ma il loro non era un rumore fastidioso, bensì una successione di suoni ordinati in frequenze di alti e bassi, come se una mano sapiente dalle dita infinite le spingesse delicatamente ad una ad una e le facesse esplodere a pelo d’acqua in minuscole note musicali.
Non sapevo cosa stesse ascoltando Rodenbach in quell’istante, ma indubbiamente qualcosa di inconsueto giungeva anche alle sue orecchie. Ondeggiava con tutto il corpo avanti e indietro, inseguendo chissà quali misteriosi percorsi acustici.
Avevo bisogno della mia pipa, in quel momento, e del mio buon tabacco Minerville, ma l’avevo dimenticati a casa e non mi restò che immaginarne l’aroma.
L’odore della palude, che fino a poco tempo prima aveva oppresso lo scompartimento, non era più lo stesso. L’aria sembrava più leggera e fragrante, satura di odori che ricordavano le pagode della Birmania, i fumi dei bracieri d’incenso o i grani di mirra. Era come se ogni effluvio avesse una propria scia particolare, caratteristica e distinguibile dalle altre, ma facente parte di un tutto armonico. Sembravano… pennellate di odori.
Intanto altri suoni si erano aggiunti al concerto dell’acqua.
Non sapevo che le paludi da quelle parti ospitassero grilli, eppure dovevano esservene a migliaia, se tutti insieme avevano deciso di sfregare le loro zampette all’unisono, con un pizzicare leggero di piccole corde d’arpa.
E gli uccelli, gli insetti, le carpe del fondo melmoso; e gli uomini e le donne persi dentro sabbie mobili o risucchiati da infidi flutti, tutti univano le voci al coro sommesso degli acquitrini.
Ebbi la sensazione che il treno si stesse staccando dai binari e veleggiasse in un plumbeo limbo, come il veliero fantasma di un corsaro schiantatosi a Capo di Buona Speranza. Mi sentivo leggero anch’io. I movimenti delle braccia e delle gambe erano rallentati, impacciati, come se fossi stato immerso nell’acqua fino al collo. Ma gli occhi sembravano aver acquistato facoltà fino ad allora negate. La nebbia scomparve e potei vedere finalmente il paesaggio di fuori.
Il pianoro più volte nominato da Rodenbach era a pochi passi da noi. Vedevo molto bene i muri soffocati dall’edera e da ciuffi di erba che vi avevano posto radici ed erano cresciuti rigogliosi; vedevo le colonne di marmo bianco, spezzate e abbandonate; le cime confuse del canneto. Un cavallo brucava tranquillo l’erba fresca e umida, dondolando pigramente la coda.
Poi vidi due mani tenere i bordi della scena, e piano piano allontanarsi da noi, mentre attorno alla cornice si addensava di nuovo la nebbia.
E oltre le mani, le braccia; e oltre le braccia un uomo che teneva alto il quadro sopra la sua testa grondante piccoli rivoli d’acqua dai lunghi capelli.
Le canne si agitavano al vento. Il cavallo aveva di colpo rialzato la testa, come se un rumore lo avesse incuriosito e allarmato, ma poi, rassicurato, era tornato a pasteggiare tranquillo.
E più il quadro si allontanava più diventava un punto di luce e colore, stagliandosi netto contro lo sfondo opaco dell’aria umida e densa, mentre l’uomo diventava nebbia nella nebbia.
Distante udivo una voce cantare in una lingua che non capivo, trasportata a sprazzi dal vento.
Poi anche la voce divenne un gorgoglio nel ribollire dei suoni, nota di un concerto accorato, vibrazione unisona alle altre.
Il cavallo, laggiù, alzò la testa al cielo e lanciò un ultimo, sommesso nitrito, prima di essere accolto nel grembo dell’acqua stagnante.
Mi addossai al sedile, aspirando a pieni polmoni boccate di aria pesante che non si decideva a scendere in gola.
Davanti a noi un fischio poderoso risuonò, lacerando le coltre fittissima.
Sbuffi di vapore, sospinti con forza nei pistoni, urlarono la loro potenza.
E il treno tornò a muoversi ancora.