Io odio il Treno - di Paolo Paganetto

Io odio il treno.
Prendo il treno solo quando non posso fare diversamente come in questo caso: patente di guida ritirata, troppo macchinoso l’aereo con atterraggio a Bruxelles, trasferimento alla stazione ferroviaria e treno per Charleroi.
Tanti dicono che il treno è riposante, che puoi guardare il paesaggio… stronzate. Tra te e il paesaggio c’è una lastra di vetro spesso e sempre sporco che non ti permette di ascoltarne i suoni né di sentirne i profumi. Ascolti solo il tu-tun tu-tun, senti solo odore di ferro umidore e vetro freddo. Hai mai avvicinato il naso al finestrino di un treno in corsa? Odore di vetro freddo. E poi, secondo dove ti siedi, il paesaggio ti arriva addosso con la violenza di un intercity o fugge via sferragliando. In entrambi i casi non te lo puoi godere. Un po’ come la vita.
Per questo odio il treno.
Siamo in tre nello scompartimento: io, un cieco seduto di fronte a me e la ragazza che l’accompagna accanto a lui. Classico stereotipo di volontaria lei, jeans e zainetto. Tipico cieco lui. Almeno secondo i miei modelli. Porta un cappello nero a tesa piuttosto larga, occhiali scuri e cappotto nero tipo spolverino, un fazzoletto rosso attorno al collo come una gola squarciata, una risata sgangherata. Un plaid gli copre le gambe. Probabilmente ha fatto il bagno nel profumo, un profumo dolce-amaro, “Fahrenheit”, direi. Ma sento anche la puzza della sua anima, puzza di prefica di montaliana memoria.
Entriamo in galleria e il buio ci precipita addosso pesantemente. Probabilmente c’è un guasto che coinvolge tutto il vagone. Non c’è cosa opprimente come il silenzio nel buio. E forse approfittando del buio, per la prima volta sento la voce del cieco.
“Signorinella pallida dolce dirimpettaia...” Anna! Maledetta sgualdrina! Anna!... Voglio raccontarti una favola... Anna!... Ti ucciderò un giorno. L’avrei già fatto, ma poi sarei rimasto solo come un cane... cane? Ecco cosa ci vorrebbe!: un cane. Lo accarezzerei, gli darei da mangiare gli avanzi del mio pasto, da buoni fratelli. Lo laverei due volte al giorno. Non sopporto la puzza dei cani. E poi lo farei dormire accanto a me. E in cambio lui mi terrà compagnia, al mattino mi sveglierà e io gli dirò con voce tonante e imperiosa: cane!... anzi no, lo chiamerò Flic. Flic! vammi a comprare il giornale!, e poi: Flic! prendimi le pantofole!, Flic! ho freddo, dammi la coperta!, Flic! portami a fare pipì!... Certo, dovrà farmi tutti questi piccoli favori. D’altra parte io lo tratterò molto bene, non si potrà lamentare. E se si lamenterà... una buona sculacciata!... No, niente sculacciate, ci soffrirebbe troppo, gli animali sono sensibili, più degli umani. Indubbiamente dovrei comprarmi un cane, anzi, comprerò subito un cane. Anna!, puoi andartene!, non ho più bisogno di te. No, aspetta: devo ancora decidere che cane comprare. Anna!, non andartene. Capito? Anna, dove sei? Non mi avrai abbandonato proprio adesso!? Ah, eccoti finalmente. Io so come si trattano i cani, ne ho avuto uno da bambino. Spingeva la mia carrozzina e faceva arf arf: era tutto contento di spingere. Però non agitava la coda... anche perché era un cane lupo... il cane lupo non agita la coda? Anna non dire idiozie! ma resta qui. Quando avevo tre anni gli montavo in groppa, ricordo perfettamente... cosa?: che mio padre mi sgridava. Che diceva?... dunque... “Berto! – diceva - non si trattano così le bestie!”. Certo, proprio così diceva. Ricordo perfettamente. Era vecchio già allora, sai Anna? Era già vecchio. Vecchissimo. Il cane, dico. Io avevo tre anni e lui era già vecchio. Sono le vicende della vita. Quando scopri di star bene con qualcuno, trovi sempre che in realtà c’è qualcosa che non quadra. Settemiladuecentocinquantasei miliardi saremmo se non fosse così! Questo è il principio della vita! Questo dimostra che la matematica è un’opinione! Sono malato, dici? Io sto benissimo! Sto benissimo, ti dico. Vattene. No, aspetta! Non sto proprio bene. Ma è solo un po’ di tosse, niente di grave, non è vero? Speriamo. Sperare?... bah, quel cane mi è morto. No, non di vecchiaia. È morto sotto i miei occhi... cioè, sotto un treno, davanti ai miei occhi. Sì, ti dico, davanti ai miei occhi... Come “sei cieco”? Cieco, sì, ma da poco, da pochissimo tempo Cieco dalla nascita?! Ma che dici? È poco che son cieco... Mi fai piangere... Davanti ai miei occhi è morto! Ricordo perfettamente. Ascolta, ti racconto come andò... mi ascolti? Il mio paese. Hai presente il mio paese? Non ci sei mai stata? Allora non puoi averlo presente. Non importa, te lo descrivo. Come “lascia perdere”? Perché? È importante, lo ricordo perfettamente. Chi dice che non l’ho mai visto? Non dire idiozie, ci sono nato... Ma non è vero che son nato cieco. Ti dico che lo ricordo perfettamente. Mi hai seccato, puoi andare. No!, aspetta! Prima ti racconto. Ci sei? Toccami, sennò non ci credo... bene, proseguo: tetti... come dire?, rossi e grigi... no, non va bene. Rossastri e grigiastri... no, brutto. Oh Anna, perché è così difficile dire di che colore erano? Erano fatti di tegole, più o meno... C’era lo strato di tegole, rossastre, e sopra delle pietre, grigiastre, per tener ferme le tegole: quindi rossastri e grigiastri. E verdastri-marcio. Sì, verdastri-marcio! Il tempo!: questo eterno orologio aveva permesso al muschio e alla muffa di nascere fra le commessure delle tegole! Come “non si può dire verdastri-marcio”! E perché no?: è un ottimo neologismo. Vuol dire: di colore verde-marcio ma non proprio verde-marcio. Come dire “rosso” e “rossastro”, “grigio” e “grigiastro”, non proprio rosso e non proprio grigio. Proseguiamo. Dunque: tetti rossastri grigiastri e verdastri-marcio. Le case in pietra tenute su con l’argilla. Fatte dai contadini, col loro sudore... e io la sentivo la puzza di sudore che emanavano, impastata con l’argilla. Le pietre venivano trasportate su dal fiume... no, non era proprio un fiume. Comunque venivano trasportate sui muli e sugli asini per sentieri poco battuti, e le bestie, ad ogni passo, rischiavano di fracassarsi laggiù nel greto del torrente... torrente? No, non era proprio un torrente. Comunque rischiavano grosso. Anna! Anna, ci sei? Anna. Anna!...

Il silenzio si distende nuovamente sul buio, oppressivo, insistente.
Penso che anche Berto, lentamente, trascina a stento la sua vita, una pesante palla di ferro incatenata alle caviglie.
Con voluttà mi passo le dita tra collo e fazzoletto, mi calo il cappello sugli occhi, tiro su il plaid e mi ci avvolgo.
Tenterò di dormire.