La donna a tempo - di Lisa

 
 
 

 

 

 

Racconti

Arc en ciel

di Maria Laura Platania

Arc en ciel era il bordello più seducente di Parigi.
Violetto, indaco, blu, verde, giallo, arancione, rosso: sette carrozze nuove di zecca e una locomotrice di lucido oro zecchino.
I binari nitidi d’acciaio aspettavano, con sensualità animale, d’essere attraversati da quella eccitante, divertita, umanità, strabordante denaro.
Proprio una grande idea quella di Madame Radiguet, liscia e piacente, una quarantina ben portata, l’investimento migliore per l’eredità noiosa di un marito noioso che l’aveva relegata per diciotto dei suoi anni migliori tra soffocanti agi e lussi.
Aveva deciso, si diceva, di farlo fruttare al meglio quel capitale e s’era messa in affari con un gentiluomo italiano: non solo in affari, a dirla tutta.
Ma, per Madame - come d’uso la chiamavano le sette ragazze - ne valeva la pena.
Arc en ciel, in meno d’un lustro, era diventato l’indirizzo sicuro nella capitale francese di un mucchio di facoltosi: discreto, efficiente, il vero centro operativo della borsa di Parigi, il luogo in cui, le soffiate e i pettegolezzi, unica regola e efficienza del mercato azionario, trovavano la prima valvola di sfogo.
Un bordello nel bordello: broker, agenti di cambio, operatori di borsa, pronti a prostituirsi per un tiro di coca, una coppa di champagne, una sveltina.
In cambio di poche frasi si poteva usufruire del paradiso artificiale che questo impero dei sensi offriva, il conto dei loquaci clienti veniva pagato da un generoso e anonimo benefattore. Non c’era persona importante in qualsivoglia parte del mondo che non fosse passata, passasse o sarebbe passata di là.
Il socio di madame Radiguet, affascinante, sui sessant'anni, completo gessato, gardenia all'occhiello e sigaro tra le labbra accoglieva con fare frivolo e mondano la creme della clientela, suggerendo con studiato disincanto questa o quella tra le sette magnifiche ragazze svestite di tutto punto, arrampicate, le lunghe gambe a pendere sensualità e desiderio, dai letti preziosi delle carozze o sdraiate lascive su divanetti della sala restaurant, disposti attorno a una fontana a forma di putto dalla quale champagne pregiato fingeva sgorgare.
Giorgio Sammartino sembrava aver impegnato molti dei suoi anni a raffinare ragazze di lusso per una clientela di tipo tutto particolare, clientela disposta a spendere mille franchi solo per parlare con una delle sue veneri in mostra, cinquecento per una bottiglia di champagne, altrettanti per un po' di caviale e salmone, unico cibo in vendita sul treno dell’amore.
Theo Hoft, maturo uomo d’affari, era l’ultimo dei clienti preziosi, quelli per cui Madame Radiguet preparava accuratamente sempre una nuova ragazza: ora stava attraversando i vagoni, lasciava che la capace tasca del barman inghiottisse una buona mancia si confondeva nelle danze eloquenti delle ragazze, nel gioco malizioso degli arazzi che rivestivano ogni ambiente, tra le statue vermiglie, sottraendosi con disinvoltura agli sguardi sospettosi di Monika Mefrouf, un tempo efficiente segretaria-amante di Giorgio, ibrido mascolino tuttofare, posta all'ingresso a controllare con un metaldetector gli ospiti della singolare maison.
Violet, biondissima, un corpo tutto raccontato da un minuscolo vestito in seta, era destinata a Theo.
Trenta anni di seducente malizia, età limite per l’Arc en Ciel, una bambina di quattro anni, un olandese perfetto appreso in un suo soggiorno ad Amsterdam au pair, quando era ancora una studentessa.
Un soggiorno singolare, conoscenze maschili e non solo, poi era riuscita a salire al volo sull’ Arc en ciel, l’ultima carrozza certo, del bordello più esclusivo, senza perdere mai di vista lo scopo di quegli incontri con preziosi amici che le forniva Madame: acquistare una casa di quattro piani nel centro storico della città, decidere con chi alzarsi al mattino e dove andare a dormire la sera.
E il modo l’aveva intuito: qualche informazione graziosamente pagata cash, sicuramente meglio di una delle sue richieste performance amorose. Violet.
Theo, però, non voleva informazioni di borsa ma qualche dettaglio in più su Bluette e Orange - così si chiamavano le ragazze, come i colori dell’arcobaleno, nessun altro nome là poteva essere usato - due amiche arrivate un anno prima e immediatamente inserite nella lavagna luminosa, bizzarro arrivi e partenze di quel treno apparentemente senza meta.
Due ragazze che, diceva, aveva sognato.
E Violet non si faceva certo pregare.
Theo ascoltava l'argentina cascata di parole pagate che l'amica riferiva con dovizia di particolari, date, nomi, clienti, ma era Bluette che lo interessava.
"Prudence, mi pare si chiamasse così, non saprei di preciso, intorno ai venticinque forse meno, altissima, mani lunghe nervose. Bella. Strana. Sembrava volersi distinguere dalle altre, fingeva scioltezza ma si capiva sentiva sporco questo nostro eccitante mestiere - raccontava Violet assorta - ha sempre detto d'essere francese, qui del resto il capo non prende nessuna ragazza che non sia francese per non avere problemi con l'emigrazione, ma io sono sicura che non fosse così. Straniera, Americana, forse. Australiana. Diceva che mille franchi l'ora erano troppi per poter fare la difficile, che con quelli avrebbe completato la sua opera, perché lei in realtà era, mi pare di ricordare, un’artista e quella un'esperienza estrema che presto avrebbe dimenticato. Sai? Io sospetto che né lei, né la sua amica si prostituissero davvero. Giorgio e Monika ci avevano lasciato intendere che si nascondessero qui, sul treno dell’amore… Perché? Biches, le cerbiatte, tutti abbiamo sempre pensato che fossero lesbiche… Il fattaccio, poi, è capitato quando è arrivato il ginecologo, doveva sottoporle a visita periodica, sai, le malattie veneree e tutte quelle balle, come se fossimo così stupide da non proteggerci da tutti quegli uomini che bazzicano qui. Bè, Bluette e Orange avevano evitato la visita per un sacco di tempo, credo per tutti i mesi che sono state qui, ma quel giorno le ragazze avevano deciso che non avrebbero più lavorato se quelle due non avessero avuto il cartellino sanitario aggiornato. Vuoi sapere come è andata a finire? Sono sparite, così, all'improvviso. La cosa più strana è che nessuno dei clienti ha più chiesto di loro, del resto chi le avvicinava pagava anticipatamente, si dichiarava soddisfatto, ma non le richiedeva più. Tu sei il primo a chiedere ancora di loro."
Theo Hoft provava un sentimento diviso, misto a una confusa eccitazione per quel chiaroscuro in ritratto: due ragazze torbide, affascinanti, giuste.
Due ragazze che, per quanto fuggissero, loro malgrado, lasciavano ovunque l'odore intenso del loro passaggio. Odore da seguire come segugi la selvaggina.
Bella storia d’almanacco fin du siecle: una vedova piacente e compiacente, il suo maturo amante, un ibrido femminino a nome Monika, sette colori, sette carrozze lucide, sette demivierges e, tra loro, le biches,: due spicchi d’arcobaleno in fuga su di un treno fissato a un binario. Morto.
Il pensiero, quello inquieto e torbido della morte, aveva disturbato Theo, insieme alla paura per una vicenda, sepolta tanti anni prima e che ora, vigliaccamente, si presentava a chiedere la riscossione di un credito con tanto di interessi.
E la cassiera non era più una, né sola: misteriosa e viva appariva una donna che - adesso lo intuiva con fastidio - recava segni di un passato che lui aveva conosciuto.
Adesso, Violet lo respingeva fuori dalla stanza, come stanca delle chiacchiere, insoddisfatta della parcella o del suo avere detto troppo.
La porta dell’elegante carrozza foderata di seta, morbida di voluttuose pellicce abbandonate su tappeti di pregiato oriente, si era aperta su di un corridoio carico di profumi complici: una compita cameriera chiedeva, con formalismo rigido e in perfetto olandese, a Theo cosa desiderasse, mentre dalla sinuosità di un divano di morbida pelle gialla, nel divisorio arabescato tra una carrozza e l’altra, una voce di donna che mostrava di sé solo un cascata di morbidi ricci scuri insisteva: "E’ lì, Dominique?"
La cameriera aveva escluso la donna dalla vista di Theo che, adesso, osservava con curiosità la sequenza di porte chiuse appena visibili nella penombra del lungo corridoio che gli stava davanti indicato da un a stuoia di uno strano colore metallico che ricordava quei sentieri luminosi che negli aerei indicano le uscite di sicurezza.
Inutili nell'uno e nell'altro caso s'era sorpreso a pensare.
Ma chi era quella donna che sinuosa e lenta sprofondava sempre più nella poltrona? Theo si sentiva costretto a guardarla.
La pelle di pregiato velluto bruno: esotico capriccio per Giorgio, il macchinista di quel bizzarro treno senza meta, s’era trovato a pensare, rimaneva ostinatamente di spalle, mostrando di sé solo quel tanto che scopriva lo specchio di fronte: la metà chiara di un volto in ombra, labbra carnose serrate, l'occhio uno solo, duro.
Sospinto verso il vagon- restaurant e incatenato dalla sottile malia di quella apparizione, Theo aveva la sensazione del deja vu, tutto, intorno a quella donna sembrava costruito. Costumi, scenografia, attrezzeria apparivano l'ingombro di una scena di cui non ci si poteva liberare. La donna, dalla pelle d'ambra e di seta, messa in mostra da un vestito di seducenti strappi, raccontava, nella sua ferma volontà a non mostrarsi, una storia immortale.
D’harem, di lascivia: eccitante invito a abbandonare il sobborgo placentare per nascere, finalmente, donna.
Quegli oggetti, quei costumi, quell'ambiente suggerito dal corridoio in fuga non cedevano, ma trovavano solido appoggio nel peso storicamente sedimentato dell'approccio al vero di Theo, che bloccava in modo disperante ogni slancio verso una sapienza o una coscienza condannate a apparire solo in filigrana.
La donna appariva a Theo come una minaccia, inquinata da una perversa arte dissimulatoria. Bella e seducente, medusa capace di impetrare anche attraverso il solo riflesso di uno specchio.
Cos'era che difendeva? Il privilegio di un posto conquistato a fatica, attraversando ad uno ad uno tutti i vagoni di quel treno, o piuttosto la paura di essere riconosciuta. Ma riconosciuta da chi? Un cliente forse. Ancora una domanda aperta. Cliente: quale la merce che la donna aveva venduto?
Ora quel viso d’ebano, senza sorriso, si affacciava dolente dallo stretto del vetro obliquo e istoriato di un vagone che- ora se ne avvedeva – era assolutamente bianco. Colore non colore, improprio per l’Arc en ciel.
Lo sguardo di lei si incollava sulle spalle di Theo sembrava volerlo trattenere. Chi era quella donna?
Era andato là a cercare le septieme ciel dell’Arc en Ciel, come gli avevano suggerito, ora, invece, avvertiva un viluppo tentacolare assalirlo d’ogni dove: preda della bellezza, schiavo della voluttà.
Adesso, come sempre nella vita, come quando – ma perché adesso era costretto a quello scomodo ricordo? - aveva tentato di pagare l’amore e il silenzio d’una giovinetta immacolata.
Una giovinetta che non aveva accettato né l’uno né l’altro e, violata, s’era gettata sotto un treno, in un’alba lattescente, poco prima che l’arancio del sole sfidasse l’azzurro del cielo. Violet, Blanche,Orange, Bluette.
Era stanco, stanco e turbato.
Aveva pagato Violet abbastanza per potersi permettere qualcosa di più delle sue chiacchiere e così s'era rifugiato nella sua carrozza, steso sul letto, aveva allentato la cravatta e allungato la mano per arrivare al tavolino dove un calice di vino rosso dal gambo sottile era pronto per lui.
Strana mistura di speziata sapienza, costruiva fantasie malate: Madame Radiguet in pianto per una sua figlia morta, Giorgio amante fedele, Monika, la sorella, dura d’acciaio indaco e poi lei, la Signora Nera, con il suo corteggio fedele di ancelle, alla guida dell’Arc en ciel: destinazione l’Inferno.
Coraggio Theo, coraggio. Il treno sferraglia, per te, la sua ultima destinazione.
Un sorso, solo un sorso era bastato per regalargli il sonno che non dura una sola notte.


Cronaca del sabato sera
di Luca

Per sabato sera era stata organizzata la prima uscita del 2005 con Franco e Roberta, due amici degli anni universitari. Meglio: ai tempi Roberta era una mia amica, cofondatrice con me di una rivista di pungente opinionismo politico (erano gli anni di Tangentopoli) e prodiga organizzatrice di feste alcoliche nelle quali la quadriglia non era la danza piu' danzata. Franco era pure un suo amico (si sono messi insieme da soli cinque anni), ai tempi nobile della Golia Confraternita con il nome di Giulietta, e lui ed io ci conoscemmo ad una di queste feste alcoliche durante la quale io fui l'unico a non cadere in un suo astutissimo scherzo.Da un paio d'anni, e' tradizione che Grazia ed io, con Franco e Roberta, si vada cenare in una trattoria ai margini della citta', di quelle poco note e defilate dove si mangia tanto e bene in un ambiente robusto e genuino e si paga poco, e poi si vada a fare un giro alla scoperta della Milano sconosciuta delle periferie, a bere il bicchiere della staffa alle due di notte tra casermoni che crescono in mezzo ai campi in bar dal nome curiosamente spiritoso del tipo "Bim Bum Bar", in cooperative socialiste ai margini del Gallaratese, all'Old Station Pub che fronteggia la stazione ferroviaria di Bruzzano e, insomma, in posti cosi'.
Durante questi tour, mentre Grazia e Roberta si confrontano sulla salute delle madri, i resoconti delle ginecologhe, i datori di lavoro, le spese per la casa e tutti questi argomenti di cui ha la fortuna di poter parlare chi non e' afflitto dalla sindrome di Peter Pan, Franco ed io ricordiamo bottiglie e gesta amorose di 15 anni fa, intoniamo un paio di gaudeamus, conveniamo che la borghesia e la vita dopo i 30 anni sono abbastanza esecrande e, ultimamente, ci consultiamo sugli aspetti formali e le tradizioni dell'Ordo Phallucae di Rocca del Monte.
Ultimamente le nostre uscite vedono una guest star, fortunatissima sorte che sabato e' toccata a Cristina, un'amica mia e di Grazia, e al suo compagno.
Come al solito, a me viene affidata la scelta dei luoghi in cui muoverci, sia la trattoria che il quartiere del dopocena, che io comunico solo all'ultimo momento.Cosi' per questo sabato avevo prenotato alla trattoria "Alla grande" di Baggio dove, stando ad una recensione trovata in un forum su internet, ci si ritrovava in un ambiente da vecchia trattoria milanese, a gestione famigliare, per niente alla moda, dove un individuo noto come "il Tristezza" intratteneva musicalmente gli avventori. Baggio tra l'altro... la vecchia Baggio, quella delle case di ringhiera da paese con i tetti che ricordano i tetti di Heidelberg... e' un quartiere al quale sono molto attaccato sentimentalmente, dove mi sono innamorato negli anni verdi e dove tengo le mie conferenze su Leopardi.
Sabato mezzogiorno, pero', mi telefona Franco: ha la febbre e non se la sente di uscire la sera, mi chiede di rinviare l'uscita a settima prossima.
Grazia ed io, fermo restando che sabato prossimo usciremo con Franco e Roberta, decidiamo di andare comunque a cena alla trattoria "Alla Grande" di Baggio. L'ambiente e' rustico come descritto, la sala da pranzo si trova al piano superiore tutta in legno e arte povera, mentre al livello stradale si trovano i banco delle mescite ed i tavoli per i clienti piu' abitue' che chiaccherano con il gestore, mentre la figlia ventenne e molto graziosa serve ai tavoli.
Prendo un antipasto di salumi piacentini, un risotto alla monzese (con zafferano e salsiccia), un ossobuco con polenta, un sorbetto, un paio di bottiglie di vino della casa (divise in quattro) ed un fernet, tutto buonissimo per la cifra di trenta Euro.
Il Tristezza e' un uomo sull'ottantina, che con una voce bassa e timida ti chiede cosa puo' suonare. "Per non sbagliare", dice, attacca con "O mia bella Madonina" seguita da un pezzo napoletano di cui non ricordo il titolo, poi sicocme non gli veniva il mio Aznavour mi fa Yves Montand e poi suona "My way" per Cristina. Io sono un pochino triste, perche' sento la mancanza di Franco e la valanga di cazzate e di scherzi che rotolano a ruota libera gli uni dietro le altre. Cristina ha una chiaccherata un po' troppo normale e da donna matura per i miei gusti. L'atmosfera di Baggio e gli occhi della cameriera, inoltre, mi portano ricordi che preferisco non raccontare a Grazia.
Alla fine andiamo. La cameriera ci dice di pagare giu' alla cassa. Ed e' qui, alla cassa mentre aspetto il gestore per pagare, che la vedo appoggiata su un tavolo: l'edizione Bietti del 1833 di "Jill, ragazza bizzarra" di Wodehouse.
Prendo il libro in mano, lo sfoglio e lo risfoglio e, quando arriva il gestore, gli chiedo se e' suo.
"Certo che e' mio!" mi risponde "Io sono un appassionato di Wodehouse. Piace anche a lei?" "Si', lo sto scoprendo in questo periodo"... rispondo. "Eh! Siamo in pochi a capire il suo umorismo. Oggi non lo considera piu' nessuno.
Guardi qua!" E mi mostra, dietro la cassa, un'intera collezione di prime edizioni italiane di Wodehouse. Cosi', ci mettiamo a chiaccherare dell'umorista inglese e delle traduzioni di una volta (che lui preferisce e va a cercare sulle bancarelle) rispetto a quelle di oggi. Una scena degna di Sterne, con tanto di Grazia e Cristina che attendevano pazientemente sulla soglia. Alla fine, il gestore mi mette in mano l'edizione Guanda di "Una damigella in pericolo" e mi chiede: questo l'ha letto? "Non ancora" gli rispondo.
"Me l'ha regalato un mese fa mia figlia. Non e' dei migliori, ma e' sempre forte. Lo prenda, lo legga. Si ricordi di riportarmelo, pero' (concetto, questo, che mi ripete tre o quattro volte)".
Cosi', con il mio Wodehouse sottobraccio, sono tornato raggiante, felice alla macchina. Ho sospeso tutte le letture della settimana per dedicarmi a "Una damigella in pericolo", perche' ho deciso che sabato con Franco e Roberta torneremo in quella fantastica trattoria ai margini della citta' e dei miei ricordi, in modo che io possa restituire il libro al ge store e farmi nuovamente, con lui, una sana chiaccherata sui vecchi buoni libri.


Almost Blue
di Lisa

Se ne sta là, seduta. La penna, il foglio, la scrivania e l’oscurità facile in cui stare. Persa nell’assenza dei contorni e degli spazi, con l’unica certezza del suo respiro.

Si strappa a fatica da quell’abbraccio muto e incolore, e accende la luce.

Mio caro, scrive curvando le o in cerchi perfetti, due vite chiuse a recintare spazi bianchi, due margini da cui è possibile cadere nel niente.

Mio. Prendersi come due capi usati, scovati fra i banchi di un mercatino di paese, abbagliati dall’acquisto da non vedere il bottone sul punto di cadere o l’orlo usurato della tasca. Già logori di vita e di amori altrui. Sradicati, portati altrove da vortici di vento come vecchi tronchi sterili. Rami secchi per brevi fuochi, effimeri come il bagliore di una scintilla che t’inganna di luce, ma non ritorna.

Lei pensa che si torna verso qualcuno, qualcosa che ti appartiene, a cui si appartiene.

Mio caro, e sente quell’affetto, asciutto di odore e sapore, abbandonarla come un’aura, lo vede incastrarsi in filigrana fragile nelle due parole, la svuota e la lascia come una specie estinta, incapace di riprodursi, forse stanca di lottare. È lì, come un’impronta fossile e lei non può seguirla. Lei è troppo lontana di corpo e carne, solida di solitudine.

Mio caro, e non c’è più niente oltre quella sottile catena di lettere.

Non sempre si conclude quello che s’inizia. Ad un tratto la fine si riavvolge sul suo stesso filo, come un gomitolo che si gonfia sulle dita, e ad ogni giro imprigiona il suo inizio in un disordine interno che attende di essere dipanato, liberato, per potersi poi disperdere, forse, in un nuovo inizio.

Lei, ripercorre lentamente con un’unghia le due parole, accartoccia il foglio e spegne la luce. Lo scintillio di una stella buca la massa compatta del cielo, lei rimane a lungo a guardarla.


Pranzo d'autunno
di Giorgio Maimone

Strana luce. Giornata che tende all'autunno. Tende all'autunno anche l'umor mio. Tende color autunno anche sulle finestre di casa mia, in sintonia con i miei anni di castagna.

Il mio mood e' variabile e mutevole
esattamente come il vento e le stagioni.
E' un mood autunnale,
simile alla stagione della vita mia.
Alcune giornate radiose, altre grigie,
altre decisamente brutte.
Ogni tanto cadono le foglie
e il vento le porta via in gioiosi mulinelli,
filtra il sole tra la polvere
e le colora di arancione, di rosso, di marrone.
Color mattone, color bosco, castagna-foglia.
Cosi' gli anni miei.
Anni di castagna.
Col gusto dolce della marronita.
Col senso legaccioso della polpa.
Con gli spilli, infingardi, invisibili e bastardi
del riccio.

Ricordi, ricordi vaghi e imprecisi che corrono sui fili della luce. Luce poca. Luce che potrebbe anche essere invernale. Ma freddo non c'e' ancora. Foglie che cadono si'. Foglie rosse, gialle, vermiglie, ocra. Turbinano un po' per aria e si depongono e dispongono ai miei piedi. Cerco di prenderle con le mani. Per ogni foglia afferrata un desiderio che si avvera. Ho desideri? Che importa, tanto di foglie non ne afferro. Puo' avvenire solo per caso. Fingendo di distrarsi. Cosi' la vita. Non l'afferri se la cerchi. Puo' capitare solo di sfroso. Facendo finta. Facendo finta che ...
Facendo finta che non te ne interessi molto.
"Scusi lei ... anzi scusa tu. Facciamo un po' di strada insieme?"
"Non so. Io vado altrove"
"Perfetto! La stessa rotta mia!"
"Se e' rotta perche' non ti fermi un giro a ripararla?"
"Uh! Questo e' quella cosa che chiamano sarcasmo? Era un po' che non ne assaggiavo..:"
"Ne ho scorte ampie ... e di tutti i gusti. Al lampone, alla mandorla, alle cozze ..."
"Alle cozze?"
"E' un tipo di sarcasmo ... un po' chiuso..."
"Viscido...."
"...ma saporito!"
"Vabbe', forse e' meglio che vada a passeggiare altrove"
"No, dai sta qua. Dissodiamo gli stessi campi, su!"
"Sui campi mi rompo la schiena. E gia' e' "duro campo di battaglia il letto"
"Una chi?"
"Una che cosa?"
"Una Chi. Stai citando Una Chi"
"Una chiunque, forse. Stavo citando me stesso"
"Ma sbagliavi, citavi col titolo del libro di un'altra"
"Mica colto io. Incolto, non coltivato. Come un campo pieno d'erbacce."
"Appunto. Vedi che abbiamo da dissodare un campo?"
"Mi vuoi dissodare o disossare? Gia' non ci capisco niente"
"Parlami di te"
"Uhm. Si inizia cosi' e si finisce a letto, vero?"
"Falso. Non ce l'ho neanche."
"Spero che tu ti riferisca al letto"
"Al letto, a un tetto sulla testa, a uno scopo nella vita..."
"Randagia?"
"Praticamente. Chiamami Lilli ... e il Vagabondo, ovviamente. Ma faccio tutto da me. Se serve abbaio anche"
"E mordi?"
"Coi proverbi te la cavi male, neh? Can che abbaia ...Can che abbaia ..."
"Appena smette ti morde! Questa e' la realta'. Non mi dirai che credi a cavolate tipo "mogli e buoi"..."
"...che pero' e' sempre meglio che non avere una moglie vacca!"
"Aiuto! Qualcuno me la tolga d'attorno! Credevo fosse il mio ruolo quello di sparare battute sarcastiche. Andiamo a rileggere il contratto! Vediamo il copione! VOGLIO VEDERE IL COPIONE! Sono sicuro che queste battute toccavano a me! Se me le rubi tu io resto senza lavoro"
"Improvvisa"
"Che devo fare?"
"Improvvisa, inventa. Crea. Sii te stesso. O comunque una copia almeno credibile. Lo so che ti puo' costare dolore... ma dio santo, qualcosa dentro dovresti pure averlo no?"
"No ... ehm e' che non so ... non ho ... e' cosi' tanto che ... come dire. DISIDRATATO. Ecco. Questo e' quanto. Mi sento disidratato. Senza liquidi dentro. Per questo bevo. Perche' cerco un modo di reidratarmi. Qualcosa da bere, per favore! Fate la carita' ma lasciatemi bere. Qualsiasi cosa. Vino, sangue, sperma, vite..."
"...dalla vite il vino, dalle vinacce la grappa. E dalle vitacce colpi sulla groppa. Ma groppa d'asino non sale in cielo"
"Questa e' inventata sul momento!"
"Si', lo ammetto. Ma posso fare di peggio. pero' dovrei concentrarmi di piu'"
"D'accordo. Che facciamo adesso?"
"Questa battuta l'ho gia' sentita"
"Gli avvoltoi de "Il libro della giungla"?"
"Aspettando Godot di Beckett"
"Detto io che sono incolto!"
"E se andassimo a mangiare?"
"Buona idea. Ho voglia di pesce oggi. Ti va il Tintero?"
"Cheschesse' il Tintero? Una tintura a base nero?"
"Madamuasel, e se fosse un ristorante di pesce?"
"Ah no, non voglio andare in ristorante dove il padrone sia un pesce!"
"Non e' il padrone. Sta nei piatti..."
"E' un lavapiatti? Gia' lo vedo meglio, ma ..."
"SI MANGIA!"
"Ehhh! E che urli? Lo sapevo, sai? Prendevo solo tempo ..."
"Ma se prendi cosi' tanto tempo per scegliere cosa mangiare, cosa faresti se dicessi che ti amo?"
"Amo ... pesce ... vedo ... intravedo un legame. Va la' che sei una vecchia lenza!"
"Vecchia, andiamoci piano! Ma tu glissi."
"Glisso, sviscio, striscio, evito, scivolo, sbiadisco, traspaio, paio e non paio. Maledetti, non mi avrete mai viva!"
"Ma che fatica!"
"Eh si', ma che bello, anche!"
"Sei sposata?"
"Nzo. Oggi che giorno e'? Lunedi'? No, di lunedi' no"
"Martedi' sarebbe stato si', eh?"
"Martedi' SARA' si'! E' diverso."
"Ti sposi stanotte?"
"Naa. Joe Metafora oggi non ne azzecca una! Fatti furbo...."
"Potrebbe essere cosa che riguarda me?"
"Ma tu vuoi sposarmi?"
"Piu' che altro vorrei spostarti ... ho fame. Ecco, ora piove pure. Mancava questo. Meno male che non e' lunedi' ..."
"Oggi E' lunedi'. Rassegnati. Inizio settimana, piove, fa freddo e c'e'pure nebbia"
"Niente pesce allora. Giornata piu' spessa, ci vuole cibo spesso. Il pesce poi rischiamo di vedercelo passare per aria. Osterie lombarde, ti va? Scegli:
"Lungoladda, Osteria del tempo perso, La colombina, L'angolo, La barbina., Tenuta il Boscone, Locanda del Sole, Trattoria del cacciatore, Antica Osteria del Cerreto. Antica Trattoria Mombrione.... "

"Maleo, Casalmaiocco, Sant'Angelo Lodigiano, San Colombano, Bertonico, Abbiadia Cerreto, Tavazzano, Corte Palasio...."

"Camini accesi, bottaggio d'oca, luce fioca, un po' di nebbia. Qualche brivido".

"Missoltini, Nervetti, Risotto di zucca al Pannerone, Pollo con luganega e verza stufata, Lingua bollita, Frittura di pesce gatto, Bolliti misti, Raspadura, Zabaglione caldo, Cotechino in crosta, Spadellata di funghi allo scalogno, pure' di castagne e amaretti, Polenta con anatra, Anguilla del Borgo di Lodi".

"Ricordi, frammenti, sospiri, sospetti, sospesi. Parole. Poche. In campagna si pensa. Si tace. Entra la nebbia se si parla. E poi, quando parli, esce solo nebbia. Taci. Ma guarda".
"Ma guardami e sogna".
"E soffri. Siamo qui. Siamo nati per quello".
"Ti tocco".
"Forse"
"Forte.
Ti tengo. Mi scappi. Mi sfuggi.
Mi resta in mano una tua spallina.
Scappi nella nebbia con la spalla nuda.
Sei nuda".
"Sul fiume?"
"Nel fiume".
"Vicino al fiume".
"Galleggi nel fiume e tendi al mare".
"Ti tendo
la mano
e non trovo parole".
"Ma solo un silenzio
che sa di legna che brucia
e di te".
"Del camino
acceso
li' sotto
al tuo corpo".
"Mi scaldi?
Ho freddo.
Ho bisogno.
Ho voglia di te".
"Mangi con me?"
"Forse ..."
"Uhm, qui si va troppo per le lunghe. Spediamo la prima parte?"
"Fatto!"



Antonio de Paola - L'incidente
di Kosta

PREFAZIO. Certe volte rimango stranito a pensare a quali piccole cose possono cambiarti una giornata.Non più di una giornata, per carità , forse due, al massimo tre. Se proprio piccola piccola la cosa non è, te la ricordi per sette giorni . Ma poi … pffuu!!! Certe cose sono come il profumo che ti metti addosso per sentirti profumato tu e per far sentire il tuo profumo agli altri. Certe cose sono come il tuo lavarti completo, inzuppato, nell’acqua.Di solito due volte alla settimana Sapete quei bagni con la schiuma che paiono toglierti la fatica di dosso? Ecco. Che pare che quando esci ti senti una sorta di dio pulito. E poi invece finisci per sentire che, se il primo giorno sei ancora profumato, già al secondo l’odore ed il maleodore si contendono il predominio delle tue ascelle e dei tuoi inguini. Ed al terzo giorno sei francamente tornato a puzzare come prima. Certe cose sono come la presa, raggiante di buone intenzioni, della Santa Comunione al giorno di festa della Domenica.Questa storia che vi vado a raccontare è una di quelle storie piccole piccole, che ti ricamano due punti di affermazione ed un punto di domanda ad un angolo, ad un pizzo,della tua giornata fatta a forma di fazzoletto. Non voglio dire di quei fazzoletti usa e getta, quelli con cui ti pulisci il naso o ti detergi gli occhiali . No, voglio dire di quei fazzoletti molto più da conto, di quelli tessuti e stirati con accuratezza, di quelli su cui ci hai voluta ricamata la tua cifra sopra.

Venerdì diciotto di aprile. In quest’anno capita che il diciotto d’aprile sia un venerdì santo.
La mattina io sto regolarmente nel mio studio di dottore in medicina.Di fronte a me la paziente mi chiede, con finta sofferenza e sicura impertinente sfida, cosa fare del suo ginocchio divenuto nei lunghi anni della nostra conoscenza, sì , assolutamente artrosicissimo . La paziente è una di quelle che portano l’ottantina e passa con l’idea che neanche i novanta e passa le basterebbero. Ma mentre dice che si augura “ per non dare fastidio a figli e nipoti, una morte di subito”, torna a mostrarti il ginocchio appena appena gonfio ed a fare un giro, una quasi piroetta da circo, nello spazio angusto dello studio.Per dimostrarti, alla fine della piroetta, che con quel ginocchio lei zoppica davvero.
Squilla il telefono. E la segretaria mi passa mia moglie:
- Sì , sì … ah …. ma come cacchio… ah .. ma non è colpa sua?… e va bene.. ma non potresti andarci tu… Essì … se posso… ma ho due visite ancora… e che vuoi… venti, trenta minuti… dipende… ma dove poi.. ah vicino al mercato di via Gramsci…. Ma nennella sta tranquilla? Eggià, non è colpa sua.
Abbasso il ricevitore. E la signora pare aver capito dalla concitazione della telefonata che per oggi non c’è più trippa per gatti.Nel senso puro e semplice che la sua artrosi al ginocchio dovrà aspettare la visita puntuale del prossimo mese. Ed in quella tornerà a scaraventarmi addosso tutto quello che, per rispetto alla mia angosciosa fretta percepita dal mio sillabare telefonico, aveva taciuto. Cioè, tanto palpitare di cuore e smuoversi e gorgogliare d’intestino e poi “un dolore qui, ma non proprio qui, un po’ più giù”. E alla fine, ultimo atto, “ che mio figlio sono sei giorni che non mi viene a trovare”. La signora a questo punto sa che la scribacchieria d’una qualche medicina per i suoi dolori è la giusta conclusione d’una visita così e così del suo benvoluto dottore. Una visita così e così nel senso che il suo dottore l’ ha abituata al meglio, ad ascoltarla di più. Ma comunque, - non dico per dire - lei sa che in quello studio una visita “così e così” l’ha dovuta subire qualche volta, ma una visita cialtrona non l’ ha ricevuta mai.
-“Mi stia bene, dottore. E pensi anche un poco a lei ed alla sua famiglia, che ad andare appresso a noi vecchie ed ai nostri dolori c’è da impazzire.”
E tutto questo detto uscendo e zoppicando sì , ma meno; e rigirandosi a salutarti, con un sorriso sornione. Di chi sta al gioco di malata e dottore, ma ha capito tutto.
Ci si compiace di certe cose e di certi sorrisi. Ma non c’è tempo più di tanto per ricambiarli e per tenerteli sulla bocca e poi assaporarteli. Devi inghiottirli e subito. Riprendo in mano la cornetta del telefono e faccio lo ‘zero’ della segretaria.
- Quanti ne ho ancora?
- Due, ma uno è una cosa da poco.
Io temo le “cose da poco” della mia segretaria. Ma non perché dopo vent’anni di questo lavoro lei non sia in grado di valutare la portata del problema. Il fatto è che a fine mattinata finisce per parteggiare per me e non vede l’ora che io e lei, entrambi, ci spicciamo.
Però questa volta ha visto giusto. Una influenza appena agli albori ed un certificato di sana e robusta costituzione.
Esco dallo studio pensando che comunque ho fatto tardi . Il traffico del venerdì santo ha qualcosa di bestemmievole. Ma taccio, ed il fatto che mia figlia abbia fatto il suo primo minutissimo incidente stradale mi rende ancora più apprensivo e cauto nella guida. Come potrei giustificarle il fatto che per soccorrerla io stesso mi sono concesso il mio personale incidente stradale? Niente ci vuole. Ma proprio niente. Basta una toccata all’autoradio che ti caccia fuori una canzone degli anni settanta che ti fa ricordare un non so che di primavera avvampata che poi, a cascata, ti sprigiona ricordi di primosesso. Ma che ci vuole?Arrivo al posto dell’incidente. Mi aspetto di vedere mia figlia e gente intorno a discutere di filosofia e dinamica e delle regole più recondite ed ignorate ed incognite del Codice della strada.A modo loro- si sa – e perlopiù in dialetto campobassano, o con un italiano accorato e disdicevole, tutti parlano dell’ incidente, mischiandolo con quel “del più e del meno” che tutto è della nostra vita e di cui niente resta a testimonianza. L’incidente – ho pensato un attimo prima di arrivare – è come la moviola del calcio. Quasi sempre dimostra chi ha torto in un fuorigioco od in un rigore non concesso. Ma poi, chi riconosce le sue colpe ipotetiche sancite dall’evidenza? Nessuno. Figurati. Intervistati poi, davanti alle telecamere, allenatori presidenti e giocatori dicono che questa non è una prova testimoniale, ma però avevano ragione loro. E però il risultato è giusto ed insindacabile. Anche se avrebbero meritato almeno di pareggiare. E, comunque sia, questo passo falso non mette in discussione lo scudetto Che cazzo sto pensando, e dove me ne sto andando a parare. Meglio litigare sulle intenzioni del fatto e tirare a campare . Meglio non chiamare la forza pubblica che comincia a cacciare il rollino delle misurazioni e poi , nel pieno della autorità e vestibilità della loro divisa, dopo la sparata, concludono e verbalizzano che sono comunque e sempre cazzi vostri e delle rispettive vostre Assicurazioni. Pannoloni per pisciate adulte venduti a prezzo esorbitante. Io in automobile a volte stradico. Cioè, mi metto a pensare più del dovuto.Ed invece nessuno c’è attorno alla Peugeot verde metallizzato . Però sta parcheggiata bene, penso.Me la rigiro con lo sguardo camminandoci attorno. Non mi pare che ci sia niente di diverso. Questa sul parafango di destra è la botta presa da mia moglie l’anno scorso e quella di dietro è la botta presa da me appena una settimana fa. Roba conciliata già. Però, per mancanza di tempo, sta cazzo di macchina non s’è ancora vista la via di portarla a rimettersi a nuovo dal carrozziere. Esce mia figlia dal supermercato. Mi dice : “Papa, che ci fai qua?” Si capisce subito che avrebbe voluto trovare la mamma. Su di lei atterra sempre sul morbido. Anche in situazioni come queste.
- Ma allora Rossé?
- Niente, papà, io stavo parcheggiata, ferma, … un vecchietto con un Ape , il camioncino, affianco a me … e drunch e drunch, e marcia avanti e marcia indietro, per uscire dal parcheggio prima di me. Glie l’ho pure gridato, glie l’ho urlato - devi credermi - che mi stava toccando il muso di sinistra della macchina mia E lui niente, drunch e drunch, vicino
Lui niente, sordo. Secondo me è un po’ vecchio, ma pure rincoglionito. E che cavolo, papà, ma con certa gente come fai?
- Per favore,. Rosse’ mi fai vedere il danno?
Me lo indica con il dito . E’ una sottile striscia che ha scorticato appena dieci centimetri del parafango anteriore sinistro ed è finito, naturale,pure per sbrecciare appena il vetro dei fari, che costano una madonna di soldi a rimetterli nuovi. Il primo pensiero che ho avuto è che si può vivere pure senza di questi casini. In fondo, quante volte ti sei sbucciato un ginocchio giocando a pallone? E a chi lo dicevi allora? Ti rialzavi e tornavi a correre. E poi il ginocchio, la ferita, si rimarginava e ti lasciava quelle cicatrici lineari, bianche, che non si abbronzeranno mai più. Ma che importava allora. Però la macchina è un ‘altra cosa. Seminuova e di tua moglie. Lei non accetterà il compromesso dell’ultima volta; che sembrava di aver ragione e poi le hanno fatto pagare i danni e lo scatto della classe di assicurazione. C’è rimasta troppo male, tanto che quasi se l’aspettava e la fomentava la situazione che quella fiancata fosse, prima o poi, stata scalfita da uno che avrebbe avuto torto, torto tanto evidente quanto marcio, e che , tramite Assicurazione, l’avrebbe ripagata, con gli interessi , della prima e dell’ultima botta. In fondo, la macchina, come il quartino di casa, è la nostra sudata proprietà; è tutto quanto sappiamo dire di noi agli altri; di quanto abbiamo saputo ottenere dalla vita. Ed in strada, come ad una riunione di condominio, la difendiamo con puntiglio e con rabbia, rispolverando espressioni di giustizia ed ingiustizia che non siamo usi a tirare fuori neppure in situazioni di gran lunga più eccezionali di queste. Insomma, è un “guai a chi ce li tocca”. Quasi come i figli. Eppure, malgrado tutto ho ricominciato a pensare per fatti miei. Quasi a vanvera.
Prima o poi devo smettere definitivamente. Intanto mi accendo una sigaretta. Anche di questo devo smettere. Ma una “smessa” alla volta, per favore.
- Ma dove sta mo’?
- Papà, … se n’è andato, ma ha riconosciuto che la colpa era tutta sua. Mi ha lasciato questo biglietto. - E mi porge uno striminzito e sgualcito pezzo di carta , un biglietto da visita di un negozio di macchine agricole, su cui , a margine, con scrittura malferma è scritto il suo nome e cognome e l’indirizzo. Neppure il numero di telefono.
- Ma il numero di telefono?
- Mi ha detto che sta sull’elenco.
- Ma almeno il numero di targa?
Rossella mi guarda tra l’imbarazzato e lo sfastidiato, come a volermi far capire: “papà, a me hanno insegnato come portarla la macchina, mica a che succede se faccio incidente!”
E c’hai ragione Rossé. Questo te lo dovevo insegnare io – penso, ma non lo dico a lei, non sia mai.
Per adesso questi piccoli incidenti della vita me li tengo tutti per me. Poi …poi si vedrà.
- Ma come t’è sembrato?
- Un bravo cristo, papà. Solo che è vecchio… e un poco pure…
- Rincoglionito, lo so, l’hai gia detto.
Rossella se ne va tranquillizzata dopo che io l’ho aiutata – per farle vedere – a far manovra per uscire dal parcheggio facile facile. Ed a me, appena esco dalla macchina, mi ferma un mio paziente che stava lì a guardarci mentre discutevamo.
- Dottò, ho visto tutto.
- Embé?
- No , vostra figlia non c’ entra niente . E’ stato lui.
- Lui a fare che?
- A fare incidente.
- Ma tu hai visto veramente tutto?
Michelino Stanziale, da quando lo conosco ed è mio paziente, è uno che passa le giornate a vedere tutto.
- No, io proprio no. Ma mia moglie … sul balcone. Ed indica la signora al quarto piano
La signora Nunziatina riversata con tutto il suo peso di sopra sulla ringhiera - non da niente il suo peso di sopra sulla ringhiera del balcone - mi saluta con la mano e mi fa - almeno così credo d’intuire - un sorriso d’ intesa.
Io rispondo con un sorriso saputo.
- Va buo’ Micheli’, se servirà qualcosa….
Lo sapevo che l’avrebbe detto, ma io, che cacchio, quella frase che mi sta tanto sui nervi con quel mio “se servirà qualcosa” glie la dovevo proprio servire su di un piatto d’argento, gli dovevo fare proprio da spalla?
- A discposizione, dotto’.
Con la “s “ di “discposizione” strisciata, servile e furba.
Rientro in macchina mia senza essermi fatto nessuna idea precisa dell’incidente occorso a mia figlia. E me ne vado a casa cosciente di sapere e potere ascoltare le angosciose domande di mia moglie. No, invece mia moglie è nella fase petulante semplice. Sa che la figlia fisicamente sta bene e quindi mi si para davanti con fare giustizialista.
- Ci hanno ammaccato la macchina.
- E’ solo un graffio.
- Tu dici sempre così. Minimizzi sempre tutto tu. Come l’ultima volta…
- L’ultima volta che? - faccio io quasi digrignando i denti
E realizzo che vuole insinuarmi ancora il sospetto che nell’ultimo incidente provocato da lei, il suo torto marcio, che anch’io le avevo attribuito in pieno, fosse solo una mia approssimativa opinione.
Ed un errore, per così dire, giudiziario.Questa donna riesce pure a non farmi pensare in italiano corretto. Infatti mi ha colto in pensieri di bestemmie al peperoncino.
- Lasciamo perdere …va. Piuttosto, Rossella come sta? Mica ha subito qualche contraccolpo… E vorrebbe dire qualcos’altro. Ma si ferma.
Mia moglie sa che la parola “psicologico” a casa nostra va usata col contagocce. Si può fare pure della psicologia spicciola, purché la parola, espressa verbalmente in tutta la sua pesantezza ed in tutti i suoi risvolti situazionali, resti ai margini della nostra casa.
Ma questa non è un mio sfizio né una mia fissazione. E’ semplice prevenzione all’abuso che potrebbe farne lei una volta che liberamente le concedessi di tenerla tra le mani.
- Nessun contraccolpo. S’è un po’ mortificata perché è la prima volta e la macchina era la tua.
Se fosse stata la macchina mia, forse si sarebbe sentita peggio.
- Ma dove sta adesso?
- Dice che andava con Antonio ad aiutarlo in macelleria.
Mia moglie era già pronta per uscire. Raccatta qualcosa in casa, si riaggiusta allo specchio le labbra col rossetto ed esce. Due minuti dopo picchia al citofono:
- Io non ho macchina, Rossella ha la mia. Mi butti dalla finestra le chiavi della tua, per favore?
- Va bene - dico; e le butto le chiavi dalla finestra.
Il “grazie” che mi offre con un sorriso , io alla finestra e lei giù, è quasi un modo per dirmi che il peggio per lei è passato. Anche per me. Mi siedo sulla poltrona e accendo col telecomando il televisore. Certe volte questa operazione la faccio nelle ore più impensate della giornata. Un programma vale l’altro. Tanto io non li ascolto. Mi basta che facciano da sottofondo, rumore, al mio pensare che sennò non farebbe nessun rumore. E quindi potrei avere dei dubbi che il mio pensiero esista veramente.Se invece c’è il rumore del televisore so che i miei pensieri si stanno svolgendo in un contesto rumoroso. Che poi non valgano niente, perché sono sopraffatti dal contesto, non importa. Sto lì una decina di minuti in atteggiamento proficuamente ebete. Poi guardo l’orologio e spengo televisore e pensieri fasulli.Tiro fuori quel bigliettino sgualcito. Antonio De Paola.
Faccio congetture sul cognome e sulle mie conoscenze. Di De Paola ne conosco tre o quattro.
E’ un vecchio. Che sia il padre di Luigi? O di Sergio, il carrozziere? Eh…magari… sarebbe troppo bello: “Dotto ve la rimetto io la macchina a nuovo e aggratis e senza discussioni”.
Prendo l’elenco telefonico e verifico che effettivamente Antonio De Paola esiste ed abita proprio lì dove , con scrittura incerta, lui aveva scarabocchiato il suo indirizzo. Forse Rossella non me l’ha detto, ma lui il suo numero telefonico non se lo ricordava proprio. “ Papà, mi è sembrato un poco…” “Rincoglionito, lo so, lo hai già detto. Succede anche a me di non ricordarmi la targa della mia auto.” Penso di telefonargli subito. E mi preparo a dire quello che devo dire. Abituato a gente che per un incidente di macchina è capace pure di negare l’evidenza e mettere nella contrattazione pure il bene della mamma, mi dico che devo essere rigido e categorico. Il canovaccio della discussione è: “tu hai torto e mia figlia, assolutamente ferma con la macchia, ha ragione. Punto.”
Faccio il numero ed aspetto sette, otto, quattordici ventidue segnali acustici telefonici. Che mi danno libero ma dall’altra parte nessuno risponde. Un po’ per inerzia ed un po’ per rabbia arrivo fino al vettottesimo, ventinovesimo, trentesimo tu-tu dall’altra parte.
Al trentunesimo dall’ altra parte arriva un “pronto” .
- “ Pronto, pronto” - faccio io quasi trasalendo, che m’ero distratto a pensare ad altre cose e già non ci speravo più . Dall’altra parte il “pronto” mi era arrivato da una voce flebile, trafelata forse da una corsa, forse solo di una persona anziana. Una voce, tra l’altro, di quelle che ti danno l’impressione di considerare il telefono non il mezzo di comunicare con cui si sentono più a loro agio. E poi, un “pronto” di quelli antichi, come quelli delle nostre anziane donne meridionali, contadine e sospettose, che, appena ripreso il fiato, dalla corsa o dalla emozione, cominciano a gridare dentro la cornetta come parlassero sempre con l’Ammerica.
Pare quel “pronto” una forzatura d’italiano – come una formula imparata a memoria, per partecipare in minima parte al progresso - rinunciando ad un dialetto a loro molto più congeniale e naturale.
- E’ casa del signor Antonio De Paola?
- Sì
- Sono il signor Simonelli, sono il papà della signorina con cui vostro marito, il signor Antonio … è vostro marito, vero?…
- Sì
- …vostro marito stamattina ha fatto incidente.
- Come incidente? - mi dice allarmata – mio marito sta qua.
- Ma no, signora, ha appena strisciato la macchina di mia figlia, niente di grave…
Ma c’è in casa ? ci posso parlare?
- Ma ie nun sacce niente. Sta qua …ma sta fore , sta a “vardà” l’animali.
- E non lo potete chiamare un momento?
Lei resta perplessa. Io pure resto perplesso del mio incalzare con le domande .Ho capito che l’ho terrorizzata con la mia voce in perfetto ed istruito italiano, col fatto dell’incidente e soprattutto con la veemenza con cui reclamo suo marito al telefono, come fosse un imputato.
In fondo posso aspettare e ritelefonare fra mezz’ora .
- Va bene, facem’ accuscì , che è meglio, signo’, io ritelefono stasera. Quando cenate voi?
- A i sette e miez.
- Va buon’ accuscì, io ritelefono, allora . Intanto vu’ dicete a vostro marito c’ ie hai telefonato.
Il “va buone’ ” di assenso, di tregua, che viene dall’ altra parte, mi consola.
E così penso riattaccando. E penso che so ancora “spiccare” un po’ di dialetto accettabile.
La giornata del Venerdì Santo scorre lenta e ad ostacoli. Con buona pace del Cristo morto. Eppure- dio solo sa- quanto carica di tanti impegni in questo giorno. Per il Dio Cristo morto e camminatore, ma in processione, lui, e pure riverito. E di me cristo semplice, solo vivacchiante e con la deferente “c”, lettera minuscola; un poco camminatore pure io, ma molto più automobilista impedito. Solo con un’ opportunità in più rispetto a Lui. Quella di suonare il clacson.
La Processione omonima , nel senso di Venerdì Santo di Passione, col solo pensiero di essa, riempie la città. Blocca definitivamente il traffico. Ed un poco pure la mente . Essere puntuali in certi posti lungo le direttive dello scorrimento della processione diventa un obbligo. Mia moglie è una che vive tradizionalmente queste cose e se la puntualità non si realizza grugnisce addossandomi tutta la colpa del disordine cosmico d’una città.
Quando la processione passa e scorre con tutta la sua teoria delle varie associazioni e confraternite, delle pie donne in fazzoletto nero e dei bimbetti di prossima prima comunione e tutto il clero e il monacame sparso e la cittadinanza tutta presidiata dalle massime autorità che, d’altronde, compuntamente pavoneggiatesi, seguono proprio immediatamente d’appresso, come a marcare stretto, il Gesù morto e la Vergine inconsolabile, quasi volessero ingrazialrseli,
- fessi, i perdenti? - noi siamo là, in un punto strategico per non perderci nessun particolare e farci un sacrosanto segno della croce con accenno d’inchino. Ma il pezzo forte della devozione è il grande coro,diviso in due tronconi, maschi e femmine, che, al suono della banda, si fanno l’un l’altro da contraltare ad intonare il greve e struggente canto della Passione. Ed io ogni anno mi diverto a riconoscerne la gente che, fervente, presta la propria voce per l’occasione; e a soppesare, per alcuni di essi, quante e quali siano le credenziali di buon cristiano al di fuori di questo evento e per il resto dell’anno.E così scorgo puntuale Geppino il magnaccia che si fa bello che la sua favorita abbia devoluto il frutto della sua ultima scopata principe per fare gli orecchini all’ Addolorata. E Nicola lo spazzino, che prima che il Comune, per quieto vivere, non lo riconvertisse - a detta sua - ad esclusive operazioni ecologiche, spazzava e ripuliva strade e condomini… di auto e di preziosi.
Ma c’è poco da scherzare: la fede canterina fa puntuali miracoli pasquali.
Scioltasi che s’è la processione, la gente sciama per tutto il centro e se la serata, cosa rara in questi tempi per queste parti, si presenta tiepida come una sera d’incipiente primavera, si dilunga per le strade a ritrovarsi in crocchi di amici e di parenti, a mangiar nocelle americane e a concertare di pranzi pasquali e di uscite di pasquetta. E, bene o male si tira a fare tardi.
Tanto tardi oltre quelle ‘sette e mezza ’ pattuite con la moglie del signor Antonio per la telefonata. Tanto tardi che decido di rimandarla all’indomani mattina.
La mattina del Sabato Santo si presenta più impicciata d’impegni che mai. La sera prima ho rimandato due visite domiciliari che, per quanto non urgenti, direi opzionali, sarebbe stato comunque necessario fare. E poi, tante visite parentali per porgere gli auguri, ed altre incombenze pre festaiole; tutti rituali ben codificati. Come è pure codificato il tempo meteorologico. Vuole tradizione che per rieditare ogni anno la tempesta post mortem di Gesù Cristo con rottura di tempio, anche nel nostro piccolo universo campobassano di Venerdì e di Sabato Santo faccia acqua e meni vento. E se il Venerdì Santo quest’anno ce lo siamo quasi scampato infliggendoci soltanto qualche sparuta goccia di pioggia, oggi Sabato, il cielo è indiscutibilmente plumbeo e perfettamente in linea con la tradizione. E, soprattutto, mena acqua - manco a dirlo - come Dio sa fare.
Mi succede a volte che quando capita che abbia molte o troppe cose da fare, finisco per stilarmi una scaletta di priorità elencandole per ordine decrescente di necessità e che poi, coscientemente, coltivando la mia malcelata indolenza, scelga di fare solo quella meno importante.Dico, filosofeggiando e parafrasando la famosa pubblicità carciofesca, che questo è un modo per proteggermi dal logorio della vita moderna.E la cosa meno importante della mattinata è proprio risolvere la questione incidente signor De Paola.
Ma rifletto sull’esperienza telefonica della sera prima. Se il signor Antonio ha la stessa dimestichezza con il mezzo di comunicazione che ha mostrato la moglie - e tutto me lo fa presagire - si perde solo tanto tempo senza capirsi. Con tutto il rispetto per la sua vetusta età, ma il “rinco” di mia figlia va affrontato di persona. So bene che tra il tempo inclemente ed il traffico - anche lui niente male - del sabato prefestivo, per attraversare la città e portarmi dall’altra parte di essa, dove il signor Antonio abita, ci vorrà tempo, olio di freno e marce basse.
Mi riguardo il talloncino sdrucito: via Monsignor Bologna 168. la zona la conosco abbastanza bene; anzi, conosco proprio la strada; zona periferica ma signorile, abitata perlopiù da buona borghesia. “Mah , - mi dico con perplessità - abiterà con qualche figlio professionista o commerciante ben piazzato”. Faccio un percorso laterale per provare a circumnavigare il centro ed evitare il traffico. Non devo essere stato il solo ad aver avuto un’idea così geniale. Non posso averne la riprova, ma ,secondo me, dritti al centro si sarebbe fatto prima . Ma questi sono amletismi da automobilista. Comunque sia, arrivo dopo mezz’ora ad imboccare la strada dell’indirizzo e comincio dalla metà circa a controllare i numeri civici dal versante pari: “centoventisei … centotrentotto… centoquarantadue… centosessantaquatto… e poi?”.
La schiera degli edifici affilati s’interrompe. Procedo oltre e mi accorgo che la sequenza delle case sul ciglio della strada riprende, dopo oltre cinquecento metri, col centosettanta. “E il centosessantasei? E il centosessantotto?” Mi rigiro e mi apposto dall’altra parte della strada, circa nel mezzo di quell’intervallo tra il centosessantaquattro ed il centosessantotto. Scendo impugnando ed aprendo l’ombrello e do uno sguardo intorno: aperta campagna. Mi do dell’emerito fesso ricordandomi le parole della moglie: “sta a vardà l’animali” E sì che la strada la conoscevo … Altro che presso figlio commerciante ben piazzato o professionista … questo signor De Paola vive da solo e dev’essere contadino puro. Non realizzo ancora bene il perché, ma la cosa un po’mi sconcerta. Non vedo case di fronte a me che possano essere o fungere da centosessantotto in quanto la campagna sale prima su in un discreto pendio e poi verosimilmente si avvalla.
Mi accorgo camminando a piedi con l’ombrello e sotto la pioggia che per salire su ci sono ben tre stradine, una è asfaltata, una è brecciata ed una è poco più che un viottolo. Per due numeri civici persi nella campagna, tre strade sono francamente troppe. Risalgo in macchina. A salirci a piedi non se ne parla nemmeno. Piove , ma anche se non piovesse… E poi … so già come andrà a finire: con l’intuito che mi ritrovo in fatto di strade percorrerò prima le due sbagliate per trovare che la terza è la giusta. Così è scritto e così è fatto. La prima, la brecciata , dopo qualche centinaia di metri è senza uscita e mi porta ad una specie di fienile abbandonato. La seconda, l’asfaltata, la percorro per più lungo tragitto e mi porta ad una villetta rustica, ben messa su ,con un ampio giardino ed un discreto parco macchine. Al cancello il nome è tutt’altro, ma picchio lo stesso.
“Chi è” , mi risponde una voce femminile al citofono.
“Scusi, sono un medico - faccio sempre così quando sono alle strette dell’anonimato per ottenere un po’più d’attenzione - è mezz’ora che giro per qui intorno, sa dirmi per caso dove abita il signor De Paola?” Non mi risponde ma apre il cancello e mentre io procedo, dopo un attimo, mi appare sulla soglia del portone una giovane signora che io vagamente conosco.
“ Avevo indovinato. Dottore, ho riconosciuto la sua voce. Si ricorda? Io sono paziente del dottor Mastromonaco. ( il collega della porta a fianco nello stesso studio associato) Lei quest’estate , quando lui era assente, ha curato una brutta allergia a mio figlio.” Faccio di sì con la testa e sorrido annuendo, ma francamente, oltre la gradevole figura di sua madre, del ragazzo non ricordo quasi niente. “Ma entri che piove” e mi fa accomodare dentro l’atrio.
“Cerco il signor De Paola al numero centosessantotto di via Monsignor Bologna” “Questo, dottore è il centosessantasei…De Paola … De Paola… io non so di nessun De Paola da queste parti… ” “ Dev’essere un vecchio… un contadino… suppongo…” - aggiungo io. “Ah… ma allora aspetti…un vecchietto? …con un camioncino?” “Esatto, un tre ruote” “Allora veda - mi riaccompagna fuori indicandomi col dito una casupola a valle che, nascosta tra gli alberi, appena si vede - la casa dovrebbe essere quella lì, ma per arrivarci deve ritornare indietro e riprendere per una stradina piccola…” “Sterrata?... sì… l’avevo notata… però… “Sì …lo so, ci va stretta una sola macchina… ma è per una visita ,dottore? Le mostro la mano libera dall’ombrello e priva della borsa degli attrezzi del mestiere. “No, è un’altra faccenda… ha dato col suo camioncino una botta alla macchina di mia figlia … e quindi il papà deve provvedere.”
La signora mi sorride in modo molto casalingo. Mi sarei aspettato qualcosa di meglio.
“Beh… io non li conosco quasi per niente… lui e la moglie … un po’ rustici,direi, però a vederli quelle rare volte …sempre soli, le dirò, mi hanno fatto sempre un poco pena.
“Vedremo- faccio io per concludere - è stata gentilissima, signora, e soprattutto utilissima.” “Ma si figuri, dottore, piuttosto le posso offrire una tazza di caffè?” “No, grazie. E’ sabato santo, immagino che siamo tutti un po’ impicciati… si corre. Le auguro un’ottima Pasqua a lei e alla sua famiglia.” “ Grazie, anche a lei”.
Risalgo in macchina pensando, non in ordine di sequenza ma piuttosto in ordine sparso, a quanto è realmente un bel pezzo di donna la signora Fantini, che siamo davvero quattro gatti a Campobasso e, gira e rigira , ci conosciamo un po’ tutti, e che, malgrado questo, quanto cazzo mi sta facendo penare ‘sto De Paola per trovarlo. Constato come quest’ultimo pensiero mi stia montando la rabbia giusta per affrontare un contenzioso da incidente stradale o, come recita il lessico assicurativo, da sinistro. Artificio utile per accrescere la grinta che, in queste occasioni, generalmente non posseggo se non in scarsa misura. E intanto, finalmente bene indirizzato dalle movenze ben calibrate del di dietro e dell’avanti e da quel dito indice della signora Gianna, arrivo alla casupola in una frazione di tempo da cristiani. La prima cosa che vedo, e che mi conferma che la ricerca è finita, è proprio l’ Ape camioncino attrice incolpevole del misfatto. Verdina ed un poco malandata è parcheggiata sotto una piccola tettoia a fianco della casa. Questa, ad una prima occhiata, mi si mostra minuta sì,semicadente sì, ma soprattutto straordinariamente autenticamente contadina. Il requisito principe di questa autenticità è la promiscuità che subito cogli, perché strutturale, tra la vita degli uomini e quella degli animali: accanto ad una striminzita zona abitativa umana c’è una stalla che prende una parte non indifferente della planimetria complessiva della casa. E poi il recinto per le galline e poi , immancabili al tuo arrivo, i primi ad accoglierti, l’abbaiare di cani il frignare di gatti ed il tubare di piccioni. E poi ancora, a consolidarti quella sensazione di essere inopportuno, quel rumore silenzioso di sottofondo, quel frascare, quel mormorare della campagna che, negli attimi di silenzio quasi assoluto, dà una sorta di benvenuto a tempo ad un soggetto straniero.
Districandomi tra la fanghiglia, che la pioggia che non ha mai smesso ha fatto, avanzo.
“C’è nessuno? Cerco il signor De Paola”
Ed è proprio da dentro la stalla che mi risponde la voce di chi cerco. “Chi è? Sto qua”.
Entro e l’odore è quello, inconfondibile, di attimi di ottimi ricordi della mia infanzia.
Magari adesso non lo reggo più di qualche minuto. Ma intanto è là.E lui il signor Antonio sta proprio davanti a me mungendo una capra bozzoluta e spelacchiata. Adesso tu che sei stato studente e poi laureato e hai fatto le scelte che hai fatto, adesso mi vuoi cavare dal cilindro dei tuoi ricordi letterari, per benaccetto pavonismo culturale, un po’ di Virgilio? Fai! Ma se delle Bucoliche, a tradurle, ti arrangiavi il sei scarso. Il senso è un altro; diverso da quello che altri volevano farti imparare a memoria . Tu queste scene le hai viste. Sì, da bambino, e non mai da figlio di pecoraio, ma l’atmosfera era quella. Anche se tuo nonno era massaro.
E che cazzo! Nel sessantotto c’avesti pure a che ridire sui proprietari terrieri, sul latifondo
E t’incazzasti pure con tuo nonno che non voleva capire. E vi metteste il muso.Però poi lo baciasti sul finire del suo canuto volerti bene comunque. Ed allora adesso mi chino un po’ a guardare il mio Antonio De Paola contadino e la sua capretta e questa inaspettata mungitura ad un tiro di sputo dalla mia città. Resto muto , tanto vorrei rifarmi tornare gli occhi del bambino di allora. Ma resto muto.Tanto che è lui, chinato di lato con la mano che cerca e spreme la mammella penzolante e da questa schizza latte nel pentolino di ferro bianco smaltato e orlato d’azzurro , che, senza parlare, mi fa con un moto scocciato di occhi e con un gesto del capo: “che vuoi?”
“Signor De Paola, sono …. - e tutta la tiritera…. l’incidente, mia figlia , la macchina ed il suo “drung e drung” col camioncino. “Ma faccia … finisca con comodo” Lui certo non se lo fa ripetere; ti scruta di sbieco centrandoti nel suo mirino di naturale diffidenza contadina e procede nell’operazione. D’altra parte so bene anch’io quanto sia dissacrante e doloroso praticare ad un animale la mungitura interrupta: viene acido il latte. Io che intanto me la godo, ho tempo per modificare il mio “lei” del tutto inopportuno e caricare nelle mie corde un “voi” appena più informale. E poi di guardarmelo per bene il mio signor Antonio, con la sua faccia grinza e spigolosa arrivata al canonico sesto giorno di barba non fatta - i cafoni veri, quei pochi rimasti, dalle mie parti santificano la festa rasandosi la barba solo la Domenica - che spunta sul viso in peli ispidi e bianchicci. La camicia di flanella a quadri rossi e strisce blu e sopra un gilettino svolazzante depauperato di quasi tutto il suo colore originale ed infiorato da macchie multiformi. Dai polsi mani nodose e vispe e in testa un cappelluccio sformato, grigio, di quei grigi direi quasi indifferenza, di feltro, quasi solo appoggiato sul cucuzzolo. Una specie di divisa d’ordinanza, credo, per tutte le stagioni. Unica concessione ai tempi moderni ed - ahimé - troppo poco lenti, uno sgradevole orologio da polso. Che fa il pari - doppio ahimé - col suo andare a vendere la roba al mercato da motorizzato. E mentre io già m’avvilisco d’essere venuto qui, in questo posto che in qualche modo sa di sano e di antico, a perorare una causa tipica della nevrosi dei tempi nostri, lui si rialza con la flemma e con la cautela tipica dei vecchi , si strofina le mani sul pantalone alle cosce e mi tende il solo dito mignolo della mano perché io lo stringa in segno di saluto. Va sottinteso che la mano me l’avrebbe data tutta se non si fosse fatto scrupolo che era sporca. Mi dice con solennità:
- “C’ avete ragione, ho sbagliato e devo pagare il torto”. Manco fosse una colpa da espiare.
- “Ma ce l’avete l’assicurazione, signor Antonio?”
- “Ce l’ho. Poi aggiunge: “se m’ so’ recurdat’de pajarla.”
- “E bisogna che controlliamo” gli faccio io, non so se più per premura d’aiutarlo o perché è oggettivamente mio interesse.
Mi invita a salire su . Usciamo dalla stalla e saliamo lemme lemme per una scala stretta e dai gradini consumati e ci troviamo dentro ad una stanza che deve essere la più grossa della casa e che fa da soggiorno e da cucina. Al tavolino la signora Carmela, quella intirizzita dagli strali vocali del ghiaccio di italiano perfetto della mia telefonata, sta scegliendo la verdura. Una cosettina di nero vestita, ma meno imbarazzata di quello che m’ero potuto immaginare per telefono. Dopo che il marito mi ha presentato come quello della botta, mi invita a sedere.
-“Iere m’avite fatte piglià ‘nu spavente. Assettateve”. E lo dice con una voce tra il perdonante ed il tagliente. Una specie di rivalsa dal vivo. Io sorrido scusandomi e mi siedo. Intanto il signor Antonio sempre all’in piedi ha cominciato a smanettare con evidente imperizia e sfastidio tra un mucchietto di carte estratte da un cassetto. E lo fa così di malavoglia, con quasi odio per quelle carte, che ogni tanto, con indolenza, se ne lascia scappare qualcuna di mano. Come se tra pollice ed indice riuscisse a scalciarle. Inforca gli occhiali, che sanno di grande occasione ma che hanno una stanghetta riattaccata alla meglio con nastro adesivo, e se li piazza un po’ storti sulla punta del naso. E mi porge prima un bollino d’assicurazione del duemilaeuno e poi uno del duemilaetre.
- “ Ma quist’ann’ la sci pajata?” l’incalza la moglie.
- “ E se lu sapess’…” gli risponde dandogli un occhiataccia da dietro le lenti, e , rivolgendosi a me: “Sti femmene n’ ze sanne fa’ mai i fatte lore.”
E’ chiaro che sta per esaurire la sua pazienza cartaiola. D’altronde ognuno di noi ha un livello di soglia di sopportazione per la burocrazia. La sua è solo molto bassa. Lui magari odia anche il maneggio del semplice denaro; per procurarsi le necessità da vivere il suo sistema principe potrebbe forse essere il baratto. Ma no, adesso sto esagerando… c’è un po’ di cattiva ironia in quello che penso e nella domanda che mi sta venendo in testa di fargli.
Perciò, con curiosità quasi apprensiva, do uno sguardo indagatore lungo tutta la stanza soggiorno e la cucina. Vedo il telefono della telefonata ed una radio di quelle quasi scolpite nel legno, dal modello piuttosto sorpassato. Di quelle che oggi so di gente che farebbe carte false per averle. Perché non fanno notizia – sono perlopiù allo stato gracchiante – ma fanno arredamento. Poi c’è il frigorifero, piccolo ma c’è. Non scorgendola, con una gradevole, strana, intima premonizione, penso: “vuoi vedere che non ce l’ hanno”? Lo so che nel contesto è una domanda che non c’entra, ma chiederlo è ormai diventato più forte di me.
- “Ma voi ce l’avete la televisione?”
- “Come?” mi fa lui, per vedere se ha capito bene.
- “Sì, dico, ce l’avete la televisione?
Si guardano interdetti tra di loro e mi guardano interdetti riappropriandosi immediatamente di quella diffidenza nei miei confronti che, dopo i primi momenti, si era andata attenuando.
- “Ma ‘mo quessa cosa ch’ c’entra cu’ la questiona nostra?”
E che dovrei rispondergli io adesso? Che questo vederli così mi sta regalando la gradevole sensazione che il tempo si sia parzialmente fermato, che dentro questa mia città gaudente fino alla tronfietà della sua incosciente epilessia, esistono ancora sani focolai di resistenza, anticorpi inaspettati di buon senso, oasi di ‘me ne fotto’ ?
Lo so che il senso ed il contesto di questa mia venuta sta cambiando. Anzi, è cambiato appena ho visto lui e la capretta fare quasi all’amore.
Mi riprendo.
- “No, niente… dicevo così … a volte… al telegiornale… sono loro che ti ricordano le bollette da pagare”- invento senza pormi il problema d’essere creduto. Godere di una spudorata incredibilità è un lusso che mi concedo, purtroppo, solo ogni tanto.
- Sì, la teng’ Me la vulètte arregalà fìglieme. Ma po’ z’è rotta e nun la song fatta accuncià cchiù. Sta menata pe’ dentr’ a lu sgabuzzine. A me m’ piace de sentì la radie.
S’interrompe un attimo per riflettere sui massimi sistemi delle sue conoscenze.
- “Sì , ma nisciuna radie m’ha mai recurdate le bullette d’assicurazione ca z’ avévana pajà.
Ch’ avìmma fa’ cu sta carta ca nun ze trova?
Bella domanda signor Antonio, bella domanda, davvero. Pratica, da vero contadino.
Attento però, signor Antonio, attento perché il cittadino automobilista padrone e proprietario del bene incommensurabile della sua automobile, questo cittadino che voi, voi due adesso, senza saperlo, state blandendo e quasi immobilizzando con la vostra genuina ed ingenua essenzialità, questo cittadino che incravatta regole e confeziona pacchi spesa secondo spot pubblicitari e notizie di telegiornale e poi , nel suo piccolo, per discolparsi, incasella cubetti di pensiero dello spessore della nebbia - manco fossero diamanti o la quintessenza della Luce - questo cittadino, dico, potrebbe riappropriarsi d’un’ altra praticità. Diversa dalla tua anche se , in qualche modo, uguale.
Quella che ti chiede:
“E allora, signor Antonio, si potrebbe fare che io la macchina me la faccio vedere dal carrozziere, mi faccio valutare il danno, - non hanno cuore i carrozzieri, loro valutano il danno alle macchine, mica alle persone - e poi , dopo averlo sentito e lui dettomi a quanto ammonta il danno, mi ripianto qui e ti dico tipo: “centocinquanta euro ad esser buoni. Per te, perché sei un povero cristo con la “c” più minuscola di me, che, per esempio, ieri è andato solo al mercato a vendere la sua robbina della sopravvivenza con il suo camioncino della sopravvivenza , e , siccome il tuo camioncino non lo ami per niente e non hai voluto mai imparare a guidarlo per bene, - non è che sei “rinco” come sostiene mia figlia, non è l’arteriosclerosi, non solo quella - era fatale che tu facessi il “drung e drung” con la macchina di Rossella. Non vai mica alle processioni del venerdì santo, tu. La tua “c” è nata o e diventata troppo striminzita per aver mai pensato a fare di queste cose. Centocinquanta euro di tuo. Trecentomilalire Hai capito, signor Antonio? Hai capito, signor Antonio, che sono stanco di pensare? Di trangugiare i miei pensieri appena mi colano dalla testa e mi arrivano a fiotti a fior di labbra. Ed allora, caro signor Antonio, ed anche tu, signora Carmela, forza, mettetevi d’impegno a liquefarmi completamente questo vermicolante cervello cittadino.
Ecco, parlatemi dei vostri figli. Uno, Nicolino che ormai sono trent’anni che sta in Canadà , e l’altra, Linuccia, “la maestrina,” a Lambrate - “sì, si pronuncia proprio così, l’avete detto bene” - praticamente Milano. E che hanno ormai perso la voglia e la via del ritorno.
- “Ma ch’ hanna venì a fa’ qua? Tènnen la lore famiglia. Pure quelle rare vvote ca venne… a vedet’ a casa quant’è piccerella? C’ accampàme com’ i zingare”
- “Ma voi… di andare su?”
- “ Quacche vvota, ogne tante. L’utima vvota l’estate passata, pe’ la prima comunione de Tonino, mio nipote. Linuccia ce vulesse sempe là , stabilmente, ma ie ‘ngoppe, nun ce facce l’aria. E po’, ce stanne sti quttr’ anemale da vardà… dui cucuccielle (zucchini) i pummadore, nu poc d‘nzalata… Finché u’ Padreterne me da la forza, a me m’ piace ancora de furgià (di darmi da fare) pe’ arrangià quaccosa... Magare essa - ed indica la moglie - ‘ngoppe da la figlia ce stesse cchiù volentieri a crescese i neput’… Sa, i femmene ze adattene de cchiù…
A cucena’ e a pulì la casa è uguale a tutt’ i vie”.
-“ Anto’ tu tiè ragione, ma a uttant’anne quasce, nun ze po penzà de campa da sule. Basta ‘na piccula malatia e Antonie e Carmela nun ze avezene (alzano) cchiù.
- “Essì, ma lu vuo’ capì che a me basta nu mese ‘ngoppe e m’avvelische. Fosse comme aspetta’ la morte, ferme e quiete.”
Basta guardarli. Ho innescato un discorso tra di loro forse preso interrotto e ripreso decine di volte, che riguarda la loro prospettiva prossima e questi loro ultimi spiccioli di esistenza . Continuano a parlare davanti a me, quasi a litigare, ma a schiaffetti e carezze: sembrano due gatti che giocano a fingere unghiate. A momenti è come se io non esistessi, non fossi presente; a momenti, invece, mi chiamano quasi a giudice delle loro ragioni; nell’un caso e nell’altro mi danno il privilegio di farmi sentire a mio agio, come uno di casa. Perché queste storie io le so, le conosco. Ce ne sono state e ce ne sono probabilmente ancora tante dalle mie parti. Solo che io avevo incominciato a dimenticarle.
Con disappunto e con un po’ di vergogna mi accorgo dal mio orologio da polso che si sta facendo tardi. Loro adesso vorrebbero continuare a parlare. Dirmi come tre mesi fa al signor
Antonio, appena uscito dalla Posta, un giovinastro gli ha strappato il portafogli di mano e due mesi di pensione se ne sono andati in fumo, e lui se ne stava facendo una malattia. E adesso
pure l’incidente di ieri mattina…E dunque?
Li interrompo quasi accarezzando loro le mani. Perché sono belli. Perché sono teneri. Perché lui ha finito per ricordarmi mio nonno e, ancora di più , Pasquale, il mezzadro di mio nonno e il suo parlare di Bianchina, la vacca, come della sua innamorata. E lei mi ha fatto pensare a mia nonna che non ho mai conosciuto se non attraverso i racconti di mia madre.
- “Riguardo all’incidente, signor Antonio, non ci pensate”
- “Come?”.
- “E’ fesseria, me l’aggiusto io la macchina e non se ne parla più”.
Non si fa capace. E devo insistere. Devo dirgli che sono dottore, che ho un paziente che fa il carrozziere e che mi fa prezzi di assoluto riguardo… “Anzi , a proposito, proprio perché sono dottore… speriamo che non serva mai, ma sa… se doveste aver bisogno di qualcosa… questo è il mio bigliettino da visita col numero di telefono”
Adesso sono loro che mi guardano come imbambolati, investiti come sono da questa inaspettata mia ondata di buona creanza.
- “Aspettate - faccio - scendo giù in macchina un momento e torno subito”. Mi sono ricordato che in macchina ho una confezione di colomba pasquale ed una bottiglia di Strega regalatimi da un paziente il giorno prima.
- “ Di questa ne mangiate una fetta domani e , se vi va, ci bevete su pure un bicchierino alla mia salute.”
Sono straniti ma mi sorridono. Non si schermiscono neppure più.
- “E’ che mi ha fatto un grandissimo piacere conoscervi”. Vorrei far loro capire che ha un senso forte, non solo quello convenzionamente ipocrita, quello che sto dicendo. Vorrei usare altre parole, ma non so se le capirebbero. Perciò confido nell’intesa sancita tacitamente dall’evidenza dei fatti.
- “ Carmé, va… piglia dell’ova a ‘u dottore. Carmé… pigliacele tutt’ quante, ch’a nuie ce ne bastene tre pe’ la frettata de Pasqua. Quanta figlie tenete?... Ah, sule quella c’hai canusciute?
‘Na bella signurina, educata.”
Intanto Carmela è scappata giù nel pollaio starnazzando di contentezza; e ritorna con tante uova che le mani ne sono piene e scoccoleiano pure le capienti saccocce . Sistemandole in una busta ne rompe una; e scoppia a ridere; sorride severo pure il marito.
- “Adesso devo proprio andare”.
Vengono giù anche loro e mi salutano con la mano mentre mi risalgo in macchina e aggiusto sul sedile davanti la busta con le uova e risistemo lo specchietto retrovisore; perché, mentre scendo, possa dare loro ancora un’occhiata. Io adesso lo so che basterà scendere di sei, settecento metri questo breve e stretto viottolo per rientrare come per incanto nel mio scenario consueto, nel mio mondo, per le mie strade colme di traffico, cariche di orgasmi precoci, e perciò impudici. E ritrovarmi in posti dove la lentezza è una penalizzazione inconcepibile, dove l’ ascoltare ed ascoltarsi troppo dentro arreca sicuro danno. E non mi salverà neppure quel mio vizio saltuario che mi spinge a farlo davanti ad un televisore o sull’automobile. Eppure almeno adesso, e non so per quanto, mi sento addosso una sensazione di candore, di soave pulizia.
Chissà se il signor Antonio domani mattina si laverà e si insaponerà di tutto punto rattrappendo le sue gambe ossute nella vaschetta di ferro smaltato lunga un metro scarso, se si sbarberà per benino, e se la signora Carmela gli farà indossare la camicia bianca della festa, fresca di bucato e col colletto inamidato.Se i figli chiameranno dal Canadà e da Lambrate per gli auguri?
Perché domani è Pasqua.


 

La donna a tempo
di Lisa

No, lei non era una puttana, ma forse se lo fosse stata, sarebbe sicuramente stata fra le migliori che si potessero trovare lungo le squallide strade di periferia. Fra le sue braccia, gli uomini avrebbero trovato esattamente quello per cui pagavano, poche ore d’amore e la sensazione, seppure momentanea, di non essere più soli.
Ma il destino non le aveva riservato quella fortuna perché almeno, lei si diceva, le sarebbero state risparmiate non poche delusioni, non poche ferite. Se non altro avrebbe saputo fin dall’inizio che il compenso per ogni parola, ogni carezza, ogni ora condivisa con gli altri, sarebbe stato al massimo un paio di biglietti da cinquanta, forse più o probabilmente meno, ma questo non aveva importanza.
Si sarebbe infilata nelle macchine di sconosciuti aggiustandosi sui fianchi la minigonna rossa, mostrando le sue calze a rete, avrebbe fatto finta, se gli fosse stato richiesto, di ascoltare e di essere felice mentre faceva l’amore a tempo, così come il lui occasionale avrebbe finto di poterla amare. Dopodiché lei avrebbe riposto la ricompensa che le spettava, nella minuscola borsetta. Avrebbe risistemato la gonna e le calze, e ripassato sulle labbra un velo di rossetto guardandosi nello specchietto alla luce fioca dell’abitacolo, prima di scendere dalla vettura.Lui avrebbe messo in moto allontanandosi senza nessuna esitazione, ma con aria soddisfatta, e quasi sicuramente non l’avrebbe più rivisto. Niente telefonate, lettere o inviti a cena, fra lei e i suoi clienti, un solo tipo di rapporto, quello che fra due persone è il più chiaro e limpido al mondo, una soddisfacente ora di sesso ben pagato e ben retribuito, senza nessun’altra complicazione.
Il suo tempo, ogni suo gesto avrebbe avuto un prezzo, l’esattezza contabile di un dare e di un avere.Ma lei non era una puttana, e la sorte non le aveva dato la fortuna di essere neanche una donna delle pulizie, una di quelle che chiami una volta alla settimana, ma se lo fosse stata sarebbe stata di sicuro la più richiesta, una di quelle che sanno fare alla perfezione il proprio mestiere e che sanno dal primo momento che da ogni appuntamento non avrebbero avuto da aspettarsi null’altro che lavare piatti e panni sporchi.Con efficienza e dignità avrebbe riportato ordine e pulizia nelle vite di annoiate o indaffarate signore, restituendo la giusta compostezza alle loro cose.Sarebbe entrata e uscita cento volte da altrettanti appartamenti, pulendo e sistemando ogni angolo, sfiorando la quotidianità nascosta in tutti i piccoli oggetti rispettandone però, come da contratto, con pudore e discrezione, ogni intimità.
A lavoro finito si sarebbe tirata giù le maniche della camicia, e avrebbe preso fra le mani arrossate il suo compenso che poi, con cura, avrebbe sistemato nel portafoglio di similpelle nero, mentre, forse, le sarebbe stato detto un “grazie, ci vediamo la settimana prossima, mi raccomando sia puntuale”.
Poche ore di silenzioso e scrupoloso impegno scandito da una tariffa prefissata, l’esattezza contabile di un dare e di un avere.
E lei non era neanche una bottiglia di buon whisky, ma se lo fosse stata sarebbe stata una delle migliori, forse non la più pregiata e raffinata, ma una di quelle che puoi avere fra le mani pagando un prezzo equo.Una di quelle che si comprano tornando a casa, sapendo che da quella sera non ci sarebbe stato più nessuno aspettarti. Ti avrebbe fatto compagnia riempiendo di calore e stordimento le ore di ricordi e solitudine e avrebbe dato, bicchiere dopo bicchiere, una fugace assoluzione a tutti i tuoi errori. Un sorso dopo l’altro ti avrebbe illuso con la sua liquida trasparenza, e confortato con la pienezza del suo sapore. Ma fin dalla prima goccia sarebbe stato chiaro che l’indomani, vuotato l’ultimo bicchiere, soltanto la solitudine sarebbe ritornata ad abitare il tuo appartamento.
Una bottiglia ed una sola notte a poco prezzo passata in un offuscato torpore per ingannare fino al mattino il vuoto di una stanza, l’esattezza contabile di un dare e di un avere.Lei non era nemmeno un verso ma se lo fosse stato sarebbe stato uno di quelli che non resta chiuso fra le pagine polverose di un libro vecchio di un biblioteca. L’avresti trovato scritto probabilmente sul bigliettino che avvolge un cioccolatino e per un po’ l’avresti conservato nella tasca e riletto di tanto in tanto perché, quelle poche righe, avevano proprio le parole che avresti voluto sentire in quel momento, o forse perché un tempo qualcuno te le aveva sussurrate in un orecchio. Sarebbe stato gelosamente serbato fra le pagine di un diario fino a quando sarebbe stato dimenticato, lasciando il posto forse a un nuovo verso, forse a un nuovo amore.
Un sottile e minuscolo foglietto che con il lento svanire del profumo di cioccolato avrebbe reso un amore finito meno amaro.
Poche parole che presto non avrebbero avuto più importanza in cambio di un malinconico ma dolce dissolversi di un sogno, l’esattezza contabile di un dare e di un avere. Ma lei non era niente di tutto questo.
Lei era una tranquilla signora che si avviava ormai con noncuranza verso i quaranta. Era gentile, cordiale, mai scortese. Era sempre stata così, e soprattutto nel suo modo di sorridere si poteva cogliere tutta la sua istintiva e naturale dolcezza. Gli occhi le si chiudevano quasi, disegnando una fitta rete di piccole rughe che a raggiera si allargavano fin sulle tempie.
I suoi occhi, due ragnetti in agguato sulle trame delle loro ragnatele quando la bocca si socchiudeva in un solare sorriso. Gli altri lo apprezzavano con lo stesso gusto con cui a colazione davano il primo morso al cornetto intinto nel cappuccino. Dava ristoro ed energia cancellando il gusto amaro della notte. Era come il caffè portato a letto la domenica mattina, quando fuori piove e non hai voglia di lasciare il calore delle lenzuola e hai la sensazione di avere tanto tempo a disposizione e che lo puoi trascorrere nel migliore dei modi.
Se lei sorrideva veniva naturale ricambiare il suo sorriso.
Lei era così, ma soprattutto lei aveva il dono di sapere ascoltare.
Lei intuiva quando qualcuno aveva bisogno di parlare, o di affidare le proprie ansie, paure, delusioni a chi sapesse, sia afferrarne il corretto significato e darne il giusto valore, sia maneggiarle con cura, come se ogni parola a lei confidata avesse la stessa fragilità di un cristallo di Boemia.Lei era il faro nella notte quando le burrasche arrivavano, aspre e inattese, nella vita dei suoi vecchi e nuovi amici. Ogni volta si lanciava in loro aiuto, si dava tutta . Lei era lì, presente, con la ferma convinzione che il tempo a loro dedicato era esattamente complementare al legame che li univa.La calma poi tornava e lei ogni volta si ritrovava nel suo tranquillo porto, sola.Pochi uomini l’avevano amata.
Si erano aggrappati a lei mentre, come cuccioli randagi, si aggiravano senza meta fra i sentieri delle loro scelte. Tra le sue parole avevano trovato un riparo, un posto dove le ombre della notte non si allungavano minacciose, come se lei avesse avuto il dono naturale di trovare ogni volta una dolce ninna nanna che riuscisse a rassicurarli prima di dormire, facendo dimenticare loro tutto il resto. Da quel suo modo di essere donna, da quel suo mondo dove riusciva ad essere sempre pronta a ricominciare, avevano attinto ogni segreto e la capacità di affrontare le sconfitte e di andare sempre avanti.
E poi i cuccioli impauriti acquistavano forza e fiducia a sufficienza per andarsene ognuno per la propria strada.
Di quelle storie non rimaneva quasi niente se non qualche lettera o una telefonata quando qualche piccola nuvola attraversava di tanto in tanto i loro cieli.
Si, lei per tutti era null’altro che una donna a tempo. Di lei ci si poteva dimenticare, magari la si poteva anche buttare come un vecchio quaderno con le pagine ormai già tutte scritte.
Lei raccoglieva i loro dolori come in un vaso e nel conservarli li faceva suoi. Li liberava da ogni peso, restituendo loro la curiosità e la leggerezza per poter poi andar via. A lei restava solo un gran vuoto e il poter solo immaginare i loro ritrovati sorrisi.
Poi tutto ricominciava, qualcuno la chiamava.
“Passo da te più tardi.”
Lei sorrideva pensando al nuovo piccolo dramma che l’aspettava. Negli anni ormai aveva imparato che quelle poche ore, che avrebbe trascorso raccogliendo i cocci dell’ennesimo amore finito, dell’ennesima delusione, dell’ultima sconfitta, e l’illusione, anche temporanea, di non essere così sola, sarebbe stato il suo unico compenso.
L’esattezza contabile di un dare e di un avere.
Sì, forse lei avrebbe potuto essere anche la morte, ma non lo era, però se lo fosse stata sarebbe stata quella che alla fine tutti ci si aspetta.
Avrebbe atteso con pazienza lo scorrere del tempo e avrebbe lasciato silenziosamente che ognuno rincorresse i propri sogni, non avrebbe creato intralci né ai momenti di amarezza né ai giorni di spensieratezza. Come un’ombra avrebbe seguito passo passo il lento consumarsi della vita. La sua sarebbe stata un’esistenza discreta senza rubare neanche un attimo al tempo che era stato concesso, per rivelare solo alla fine la sua presenza.
Un’attesa lunga una vita e un unico fatale istante, in equilibrio sui piatti della bilancia.
Sì, l’esattezza contabile di un dare e di un avere.

Lezione di Mate
di Bruno Giuliano

Greco Pierino, Pigreco per gli amici, nonostante il soprannome, non era tagliato per la matematica o forse non gli interessava, come é abbastanza naturale tra gli adolescenti.
I suoi pensarono bene di mandarlo a prendere lezioni private dalla professoressa Costante, amica di famiglia da lunga data. La Costante, Kappa per gli amici, non poteva proprio definirsi una bellezza e sopperiva alla scarsità di fascino intrinseco indossando gonne sufficientemente corte da estrinsecarsi abbastanza in alto sulle cosce quando si sedeva ed accavallava le gambe. Questo avveniva soltanto nel suo studio, poiché prudentemente in classe, un lungo camice nascondeva quest'estrema risorsa.
Da un paio di giorni, ossia dalle sue due prime lezioni, Pigreco aveva intuito il valore incognito tenuto sotto radice da quella gonna ed aveva pensato di installare uno specchietto sulla punta della scarpa memore delle lezioni di fisica ottica. Chiuso nella sua cameretta aveva fatto la prova del nove scartando infine l'idea. Risolse il problema sostituendo la variabile specchio con le scarpe da discoteca, quelle con la punta di lucido acciaio riflettente allora tanto di moda.
Ora era pronto e quando il giorno successivo si sedette dal suo lato della scrivania, non dovette far altro che inclinare il piede di alfa, ruotare la caviglia di beta, allungare la punta di delta X e godersi la vista di un paio di mutandine in cotone. La pur essenziale geometria fu comunque sufficiente a stimolare una crescita lineare del grafico del piacere, la famosa curva "G", ma non si recò in bagno prima del ritorno a casa.
L'indomani, inaspettatamente, le sue manovre periscopiche vennero premiate dalla vista di splendide mutandine traforate ed orlate di deliziosi frattali. La curva "G" s'impennò in modo esponenziale ed egli partì per la tangente, ossia chiese il permesso d'andare in bagno, lì e subito.
Il terzo giorno, l'equazione sotto analisi s'era ridotta ai minimi termini non essendoci più niente ad offuscare la visione della parte aurea, mentre la crescita della "G" divenne asintotica tendendo alle ascisse, al limite della tenuta della patta. La semplice alzata di un dito bastò a concedergli l'uso del bagno dalla comprensiva insegnante.
Il quarto giorno si aspettava ovviamente l'infinito, invece ritrovò la donna in pantaloni. Vacca boia, questo cambiamento di segno non se l'aspettava proprio.
La professoressa lo guardò sorniona e gli disse:
< Esistono anche funzioni discontinue, oggi sono nell'intervallo non definito, ma non ti preoccupare per la provvisoria inagibilità perché le lezioni continuano al piano superiore. >
Ciò detto la professoressa sollevò la maglietta e racchiuse il prospero seno in faccia all'allievo come tra due parentesi tonde.
< Ammira! Questa non é piatta geometria euclidea, qui c'é la quarta dimensione, quella dell'eros. >
Pigreco credette di soffocare mentre lei cercava freneticamente di estrargli la derivata prima, (i pantaloni) e poi la seconda, (le mutande) per ridurlo alla nuda essenza d'una curva orizzontale. (semplificando i termini: lo stravaccò sul sofà) Ma per la media non ponderata tra il quadrato dell'emozione e il cubo dello spavento, la curva "G" dell'adolescente cadde verticalmente tendendo a zero nonostante, anzi, forse proprio a causa della logaritmica azione del donnone. A nulla valsero i tentativi di lei per rielevarlo a potenza ed il ragazzo fuggì lasciando irrisolta l'equazione portandosi via l'indispensabile primo membro.
La matematica lo lasciò andare sconsolata e palpandosi i generosi seni e coscieni, dedusse che non si poteva postulare che Pigreco fosse razionale: sarebbe stata una tipica dimostrazione per assurdo.


Maturità
di Kosta

Come in un sogno, consueto ormai, sognai la stanza e la situazione degli esami. Ma diversa. Per notti e notti, accorciate dal fare tardi per studiare ed alzarmi presto per studiare, già col sonno ero in debito. Ed in questo, si striminziva ormai un sogno anemico, timido e di pura paura ..E diveniva ormai, col mio predispormi ad evitarlo, un incubo, sempre uguale. Sognavo le prove scritte come un foglio che, dopo ore di soliloquio mentale e non solo, si riempivano solo di ideogrammi intraducibili, come apostrofi di rabbia, maledicenti le strategie assurde del tuo studio; i risultati: abbozzi di note stonate d' un tema d'italiano, travisazioni sintattiche d'una versione di latino, roteare anarchico di cifre intorno al buco nero della soluzione d'un compito di matematica. Lucidamente il quadro del sogno si arricchiva della catastrofe dell' " orale." Ad aggiungere onta ad onta, ogni esaminando della storia prefigura la sua fine ingloriosa con la figura-dramma della " scena muta". Che in qualche modo è meno ignomignosa del gutturale sussurrato e del dimenarsi della faccia, della lingua, della bocca e della mente che provano a parlare d'un argomento di cui non si sa niente. Alzandomi - o svegliandomi soltanto per rialzare il capo accucciato tra le braccia poggiate sul tavolino di studio, dove campeggiava aperto un libro che mi aveva sfinit o fino all'addormentameto e su cui, all'albeggiare, avevo poggiato la tempia - trovai, poggiato di lato, lo "Zabaione della Mamma" . Pensare che era l'estremo modo che ha una mamma di trarti ancora a sè, di strapparti di mano questo primo vero amaro calice che la vita ti poneva davanti e, sostituirlo, nottetempo, col bicchiere di zabaione d'uova fresche, di Marsala - un goccio - e di cucchiaiate colme di zucchero , agitando e strapazzando il tutto a più di centoventi giri di polso al minuto. Pensare questo era ancora poco. Per ravvivarmi per davvero non mi bastava più il pur dolce amore materno e neppure il dolcissimo , nauseabondo incollaticcio intruglio che pure tracannavo d'un sorso leccando con la lingua i bordi del bicchiere. Mi serviva qualcos'altro ! Ecco, un sogno diverso! Lui, a me che ormai disperavo, arrivò a ridosso del giorno epocale. E arrivò guascone e irriverente. Proprio come il sogno che avevo sempre sognato di sognare. Vedevo l'aula allungata a dismisura fino a sembrare la prospettiva dei Campi Elisi, ma inframmezzata dalla lunga teoria dei banchi di formica color verde erba rada, bordati di color nero calamaio. Li avevano affilati alla men peggio svogliati bidelli e bidelle giugnini, catturati prima di poter presentare il salvifico certificato medico. Il luogo della mattanza non mi sembrava poi così tetro . Era pur sempre il corridoio d'un austero convitto umbertino , ma dalle vetrate in alto il sole dell'estate che fuori già impazzava, non s'era poi proprio dimenticato di lui e di noi. Tutto era pronto e nulla era pronto per la prima giornata. La parvenza di ordine che regnava tra i banchi si scomponeva procedendo ed arrivando al fondo del corridoio. Lì, qualcuno bene informato, aveva fatto sapere confidenzialmente che il corpo insegnante-esaminante bivaccava da almeno tre giorni . Aveva requisito oltre alla Sala dei Professori e la Presidenza tre aule attigue e due bagni. Confortato da questa caduta di stile e di austerità che, mano a mano che proseguivo verso il fondo, mi si appalesava, decisi di farmelo tutto il bagno di ardimento. Mi accostai ad Alcesti, esemplare puro della ruffianità dei bidelli, che sotto il camice nero da lavoro esibiva un bermuda di sgargiante "orange" e lasciava apparire i nudi polpacci di flemmatico spostatore di sedie e di banchi. Stava fingendo di far pulizia razzolando a spizzichi il grosso dei resti di un qualcosa che doveva essere nata come frugale colazione di lavoro e doveva essere in qualche modo degenerata in un happening di selvaggia e suina colazione sul prato ; una consumazione frenetica dopo rapina ad una tavola calda od il kamasutra della ristorazione mordi e fuggi. C'era di tutto : tozzi di panino indurito su cui si poteva ancora scorgere il calco della dentatura ed affianco ostiali fette di salame tipo Milano sgualcite ed irrancidite, patacche di olio sulle sedie , sui tavoli finanche sul pavimenti e sui muri, vestigia di monconi di bucatini col sugo alla amatriciana con attorno una semenza sparsa di tocchetti di pancetta e mucillagine di pomodoro, straboccati da una delle tante argentee vaschette di carta d'alluminio e carta oleata. E fazzoletti di carta e da naso e d'altro tipo, di risulta o d'emergenza, smusati e snasati e strofinati in ogni altra parte del corpo; un collage di assaggi di ortaggi smozzicati e scorze di anguria sugate sino al più pallido rosa e mordicchiate anche sui lati con l'avidità del teschio di Ugolino, e semi e noccioli di pesca e piccioli e torsoli di pera. Di carne ,quella vera, neanche l'ombra, tantomeno l'osso. Di pesce, quello fresco, neanche l'odore di risulta. Solo sette od otto lische inconfondibili di sarda. E poi , rovesciate per terra e ammaccate, una variopinta cocciglia di lattine di birra,di coca cola , di succhi di pompelmo e contenitori di cartone plastificato da cui uscivano ancora lingue di un bianchetto dall' odore acidulo. Per non dire dell'innumerevole quantità di cicche di sigaretta spente e trucidate con rabbia dovunque: per terra , nei bicchieri di carta, sotto il ripiano dei banchi di faccia contro i muri dell'austero . Fumate portate fino alla fine, al filtro ....


La maturità a 42 anni
di Arancia

Fare la maturità a 42 anni ha lo stesso senso di irrealtà di un sogno bislacco. Per nove mesi, per nove mesi sono andata ogni sera a sedermi in un’aula scolastica, proprio un’aula scolastica, come quelle di allora. Con i banchi (ma chi li ha inventati quei banchi?) scomodi, rotti, traballanti, la cattedra (ma perché gli insegnanti hanno diritto ad una sedia comoda e io che ho lavorato tutto il giorno no?), con la lavagna, il gesso e la cartina appesa alla parete. Arrivando trafelata, dal lavoro, salendo con un po’ di fiatone, i due piani a piedi sotto il peso dello zaino pieno di libri. Passando bruscamente dal mio ruolo da …"adulta", che fa un lavoro in cui dice agli altri cosa devono fare, ad un posto dove persone, a volte anche più giovani di me, mi danno con nonchalance del tu, mi giudicano, e mettono in atto i loro giochini di potere. Perché la scuola è piena di abusi di potere. La scuola è carica di sadismo.
Lì, seduta nel banco, completamente spogliata dal mio vestito da donna adulta. Lì, a sentirmi dire che … non si può chiedere di andare in bagno alla prima ora, potevo farla a casa!!! (Casa? Ma l’ho lasciata 12 ore fa). Ma vi ci immaginate a chiedere il permesso per fare la pipì? E poi i miei compagni, quasi tutti sotto i vent’anni, che non sanno bene come trattarmi. E nemmeno io so come trattare loro. Il tentativo ridicolo di mimetizzarmi che va a rotoli quotidianamente.
Nove mesi sono lunghi, in nove mesi succedono un sacco di cose. Fuori, nella vita, non dentro alla classe. E le presenze che avevo intorno quando ho incominciato sono evaporate. Adesso ci sono altre presenze, per lo più emerse casualmente da un passato troppo lontano. E che non sanno perché mi sono presa questa gatta da pelare e cosa questo rappresenti per me. Anche se provo a spiegarlo, non lo sanno, non hanno le coordinate per capire. E quei ragazzi intorno che non sanno perché sono lì e vorrebbero disperatamente essere altrove, invece per me è quasi una questione di vita o di morte. Perché questo stupido esame (di maturità! Ma non ho già dimostrato di essere matura? Questo giovane uomo che ho cresciuto, che entra e esce dalla mia casa, che inizia a costruirsi la sua vita, non mi dice ogni giorno che sono matura?) per me significa permettere, finalmente, che il tempo ricominci a scorrere.
Il tempo, che si era cristallizzato in un fallimento, il tempo che si era congelato in una sorta di attesa, attesa che la vita ricominciasse a scorrere. Attesa di sentirmi viva, di sentirmi dentro alle cose. Questo bollino, questa certificazione, omologazione di cultura "media", è stupidamente necessario perché io possa scegliere di vivere. E’ un chiudere i conti con il passato. E’ un ponte. E’ una soglia. E’ una porta che si apre verso la possibilità di costruire, anche se con vent’anni di ritardo, ma mia vita. La mia, vissuta in prima persona, scelta, costruita, sudata. Non una vita che mi vive, non un lavoro in cui arranco tirando la pensione. E’ presuntuoso? Sì, qualcuno ha detto che è presuntuoso. Forse. Ma io ci devo provare e, sinceramente, ho più paura di quello che succederà dopo che dell’esame. Per tanti motivi. Perché quando prendi la tua vita e la rivolti come un calzino, nulla resta fermo. Ci sono cose note ed amate che scompaiono, cose che mai avresti voluto vedere che emergono con forza. Cambia tutto. Lo so, ho rivoltato la mia vita come un calzino tante volte, ma mai così profondamente.
E adesso mi aspetta un futuro che devo affrontare da sola, non perché mi serva la solitudine, ne farei volentieri a meno, è della libertà che ho bisogno. E per la libertà sono disposta a rinunciare al sostegno che dà il fatto di non essere soli. Anche se, a volte, mi sento fragile.


A un angelo
di PIkkina

Ora dormi. Il tuo corpo di antilope, lungo, affusolato, magro, ha il peso del sonno, il colore del bronzo nella luce rossastra di una lampada di sale. Aderisco a te riempiendo di me ogni ansa, ogni curva della tua schiena nervosa. Gioco con le labbra sulla tua nuca, compiacendomi della loro morbidezza, assaporandoti. Annuso la tua pelle tesa, liscia, il tuo odore di animale forte. Seguo con le dita il percorso delle vene sulle tue braccia, sulle spalle. Sono ancora gonfie. Gonfie della nostra pazzia.

Povero angelo. Tradito dalle fattezze di uomo. Tradito dal corpo di uomo. Sento sotto i miei seni le piaghe ancora aperte sulla tua schiena. Ti ho strappato vie le ali, giacciono a terra insanguinate insieme ai miei vestiti a brandelli. Povero angelo. Venuto nel mondo per ordine di Dio, senza sapere... venuto a proteggere i deboli... non eri preparato a me.

Può un angelo maledire qualcosa? Se può farlo tu avrai certamente maledetto gli istinti del tuo essere uomo. Io li ho invocati. Conosco ogni tentazione. Sono tutte mie figlie. Le tengo in grembo e le dò alla luce ogni volta che ne ho voglia. Che errore darti quel corpo! Un corpo da guerriero, un masai bianco, una virilità selvaggia e possente. Povero angelo, prigioniero di un corpo da peccato. Non potevi sfuggirmi. Non ti avrei lasciato fuggire. Ho seguito il tuo odore, ho imbrigliato il tuo cuore. E conquistato il tuo corpo.

Ti ho gettato negli abissi del piacere più sacrilego, un gradino ancora sotto all'uomo, per la diabolica soddisfazione di degradarti più di quanto sarebbe stato necessario.

E' stato esaltante vederti soccombere. Peccato solo che sia stato fin troppo facile. Non hai armi, novellino, per combattere le alchimie impazzite di un corpo che da millenni cerca di perfezionarsi, di controllarsi.

E tu dormi? Incosciente! Pazzo! Ho rovinato la tua missione, ti ho reso mortale, ho lasciato in te un segno indelebile che mai troverà il Suo perdono! Eppure tu dormi, stupido! Sembrerebbe il sonno del giusto. Credi forse di aver scelto? Io ho scelto, io ti ho portato con me tuo malgrado. Povero ingenuo. Credi che al tuo risveglio potrai ancora volare? Non lo senti il dolore?

Maledetto, stai solo tentando un'estrema difesa. Vuoi rendermi folle? Vuoi vincere laddove non ho mai perso non una guerra, ma neanche una battaglia?

Prova a dormire ora che le mie unghie affilate penetrano nella tua carne viva! Non senti nulla? Maledizione svegliati! Voglio vedere i tuoi occhi, quell'unico pezzetto di cielo che ancora rimane in te, angelo indemoniato! Girati! Voglio sentire ancora le tue labbra sulla mia pelle, devo capire se sono viva...

Ma tu no, non ti svegli. Giri lentamente il tuo corpo nudo, mi circondi con un braccio.

Non avevo mai perso.

Ma ora sono prigioniera.


Nozze
di Anna Maria

La sposa è bellissima. Come tutte le spose nel giorno in cui la vita le fa protagoniste. Meno male che ormai ai matrimoni non mi commuovo più né m'immalinconisco. E poi a dire il vero questo è un matrimonio allegro, affollato di giovani coppie che prendono affettuosamente in giro i novelli sposi. Sul sagrato della chiesa di S. Orsola li hanno tempestati con getti di riso pasta e petali di rose. Dicono che porti fortuna. Il prete era giovanissimo e imbranato, ha dichiarato che quello era il suo "secondo matrimonio" senza aggiungere "che celebrava", così ha fatto sorridere tutti perché sembrava che il primo lo avesse sciolto con un divorzio. Oltre la vetrata Erice è tutta una nebbia. Sono scomparse le isole, le saline, le pinete, solo una coltre di fumo che cancella lo sfolgorio di maggio. Allungo lo sguardo cercando di trovare un piccolo strappo in quella cortina . Come se fosse possibile. Il vento che arriva dal nord ha accumulato le nubi in una spessa tela, un velario che pudicamente nasconde le splendide nudità di una regina. "Ciao, non mi riconosci?"
Lunga pausa di incertezza di fronte alla signora in tailler-pantaloni rosa
fragola.
"No, mi spiace, chi sei?"
Il viso mi è vagamente noto, forse l'ho incontrata da qualche parte.
"Ci siamo incontrate al matrimonio di Antonio"
Sì, forse, anzi certamente. Ma sono passatiŠquanti anni? Dodici, tredici?
"Scusami, non ricordo"
Lei sorride e scopre la dentatura irregolare, gli occhi sono due buchetti
dietro gli occhiali.
"Istituto Santa Caterina, stesso banco"
"Ernesta!"
Adesso ride. Sì, Ernesta, la prima della classe prima che arrivassi io. Dopo ci siamo divise equamente la benevolenza dei professori. Dopotutto non è cambiata molto. Le trecce di un biondo sbiadito sono diventate un corto castano scuro, i denti sono quelli di allora, un po' storti, gli incisivi accavallati, anche allora portava spesse lenti da miope. Però adesso ha una bella figura, slanciata, elegante, ai lobi due grosse perle le illuminano il viso.
"Ho sempre desiderato incontrare qualcuno dei compagni di allora- dico- ma non è mai successo. Per me quello è stato un anno importante"
"Non ho più incontrato nessuno neanche io. Dispersi, inghiottiti dal tempo"
"Fai la farmacista mi pare"
"No, sono medico, ma lavoro in un laboratorio di analisi"
Già, era sua madre la farmacista. Il nonno era uno scrittore noto di cui lei si vantava. Lo incontravamo nelle letture antologiche ed io un po' la invidiavo per questa ascendenza letteraria.
"Tu,invece?"
"Io mi sono dedicata alla scrittura, qualche libro, un po' di attività giornalistica"
"La tua famiglia?" chiedo.
"Sono sola, con i miei gatti"
"Sola anch'io, con le mie poesie"
Ci distrae il taglio della torta. Applaudiamo anche noi, con il sorriso di circostanza e ci avviciniamo agli sposi per il brindisi augurale. Le coppe di cristallo tintinnano urtandosi leggermente. La sposa adesso mostra un po' di stanchezza. Il volto che al mattino il trucco rendeva levigato si è
appannato, lo sguardo si è fatto meno luminoso, il piccolo chignon dietro la nuca lascia sfuggire qualche ciocca scomposta. Ora che gli invitati sciamano verso l'uscita lei si è lasciata cadere su una sedia e distende le gambe. Il bell'abito ha l'orlo dello strascico bordato di nero per tutta la polvere e
lo sporco che ha raccolto.
"Bella, Barbara", dice Ernesta.
"Sì, davvero, una giovane principessa"
"Al prossimo incontro"
"Sì, speriamo presto"
Ci salutiamo con due baci sulle guance. Lei ritorna ai suoi gatti, io alle mie poesie. L'istituto Santa Caterina è un fantasma come quelli che i miei compagni dicevano l'abitassero; è ritornato nel buio e nel silenzio,come quando aspettavo, sola nell'aula vuota, che mio padre venisse a prendermi.



Il potere di John Wilkinsons
di Fargo

Non tutti i giorni sono uguali. John Wilkinsons se ne accorse la mattina del 14 luglio 1954, quando un raggio di luce attraversò la lente di ingrandimento che stava sul tavolinetto, non lontano dal letto, e si mise a fuoco sulla pianta del suo piede destro. Nel risvegliarsi di soprassalto, l'uomo ebbe un movimento inconsulto, picchiò la testa contro la libreria sovrastante e lanciò un'imprecazione. Un'altra più tonante ne lanciò quando si accorse che la pianta del piede era segnata da una piccola ma profonda ferita. Com'era possibile? Si guardò intorno, cercando una spiegazione che non riusciva a trovare, senza accorgersi del sangue che gli stava colando dalla fronte.

Neanche fosse stato chiamato per nome, John si girò in direzione del tavolinetto: la lente di ingrandimento, lo strumento di cui si serviva per guardare i francobolli, dichiarò candidamente la sua colpa. Lo stupore divenne consapevolezza, quindi rabbia. Con mossa fulminea afferrò la scatoletta di legno dentro cui lente era imperniata e la scagliò contro il muro. Il furore dell'uomo si placò soltanto quando la scatola andò in mille pezzi. John entrò quindi in cucina e si sciacquò il viso nel lavello.

- Cristo, quanto sangue! - bofonchiò incredulo.

Tentò di tamponare l'emorragia con un canovaccio, ma soltanto dopo qualche minuto riuscì nell'impresa. Aprì allora lo sportello del freezer.

- Da qualche tempo a questa parte non me ne va bene una! - sibilò fra i denti. L'uomo prese un cubetto dalla vaschetta del ghiaccio e cominciò a strofinarlo sulla pelle ustionata nel vano tentativo di attenuare il dolore persistente della bruciatura.

Stava vivendo un altro momento di contrarietà John Wilkinsons. Si aggiungeva ai tanti vissuti nella sua non esaltante esistenza. Scapolo 45enne, abitava in un appartamento del West End di Londra. Non aveva parenti, né amici, né una compagna con cui dividere una vita che diventava sempre più angosciosa. Neanche il lavoro lo gratificava. Era un impiegato della Morgan & Freeman Bank senza prospettive di carriera perché, come diceva il rapporto del direttore Miller, aveva dimostrato di essere 'un elemento privo del necessario spirito aziendale'. Dopo che fu confinato fra i reietti, John sprofondò nella depressione: chi può rassegnarsi a dover fare per sempre quello che si è sempre fatto? Per risolvere in maniera radicale i suoi problemi il suicidio sembrava il rimedio migliore. Ma trovare il modo più conveniente per andarsene da questo mondo non era cosa facile. Almeno per lui.

- Roba da non credere! - esclamò mentre sistemava un cerotto sulla profonda ferita che si era aperta in fronte.

Frastornato com'era, pensò che sarebbe stato meglio andare a prendere un po' d'aria. Così, senza nemmeno fare colazione, si vestì e uscì. S'avviò con passo incerto sulla Half Moon, la stretta via che muore incrociando Piccadilly Street, e affondò il viso nella frizzante aria del mattino.

- Il freddo non potrà che farmi bene... almeno lo spero! - si augurò.

Sollevò il bavero del cappotto. Dopo qualche passo però, la debolezza gli fece piegare le gambe. Perse anche lucidità e non gli riuscì di mettere a fuoco quell'unico pensiero che faceva la spola nella sua mente: l'incidente era stato voluto da qualche forza misteriosa?

- Non può essere che la sfortuna! - concluse dopo una breve riflessione. - Chi altri mai può provare interesse per me?

Preferì pensare ad altro. Due giovani stavano venendogli incontro. Quando furono a non più di due, tre metri di distanza, ne udì distintamente i discorsi. «Paul, mi hai stancato. Oggi ti mollo!» - sentì dire alla ragazza seria e accigliata. Ascoltò quindi con molta meraviglia la risposta dello sbarbatello che l'accompagnava. «Come finirà fra il Chelsea e l'Arsenal stasera?».

- Cristo! - esclamò, senza capacitarsene, John, che con la nuova gioventù non riusciva a trovare punti in comune. - Quella sta per scaricarlo e lui pensa al football?

Nelle vicinanze di Piccadilly Circus avvertì un fortissimo mal di capo.

- Quell'urto non mi avrà mica causato un danno? - si domandò preoccupato. D'istinto si toccò il punto dolente della fronte.

Quando si accorse che tutti i passanti parlavano a voce alta, tanto che lui poteva udirne distintamente i discorsi, si convinse che il cervello non funzionava più come doveva.

- O sono io che vaneggio, oppure i miei concittadini sono impazziti. - concluse meravigliato. - Dov'è finito il tradizionale riserbo londinese?

Una figura femminile lo distrasse dalle sue perplessità. Era una ragazza dai capelli fulvi. Bella e imponente. Nel momento in cui la incrociò, sentì nette e distinte queste parole: «Non sei niente male!»

John si guardò intorno per vedere se per caso lei non stesse rivolgendo a qualcun altro la propria attenzione, ma... non c'era nessuno nel raggio di venti metri. E allora cos'altro doveva pensare se non che fosse diretto proprio a lui quel complimento? Esitò un attimo prima di ritornare sui suoi passi e raggiungere la ragazza. Senza sapere perché l'afferrò con decisione per un braccio.

- Abito non molto distante da qui... - le sussurrò con voce morbida - se vuoi tenermi compagnia, io...

Non ebbe il tempo di terminare la frase perché quella gli mollò uno schiaffo in pieno viso.

- Toglimi le mani di dosso, - urlò inviperita. - prima che chiami la polizia!

Del tutto basito, John abbandonò la presa. Con rammarico vide la ragazza scivolar via fra i passanti che avevano assistito alla scena e gli stavano ora lanciando sguardi di fuoco e anche qualche epiteto poco gentile. Si accarezzò a lungo la guancia dolente, mentre, fermo sul marciapiede, tentava di dare spiegazione a una realtà che non riusciva a decifrare. Ricacciò dentro di sé il pensiero che da qualche istante lo irretiva: era talmente assurdo da non meritare alcun credito. Ma, fra i tanti, sembrava il più azzeccato.

Si rendeva necessaria una conferma e si industriò per trovarla. Scese nel sottopassaggio di Piccadilly Circus e seguì per qualche minuto una coppia di anziani. Quando sbucò sulla Shaftsbury Avenue aveva stampato sul viso il sorriso del trionfatore.

Dopo aver ripercorso una ad una tutte le tappe di quella strana mattinata, la conclusione cui arrivò fu una: era in grado di 'sentire' i pensieri degli altri! Ora gli era perfettamente chiaro che aveva 'letto' e non 'ascoltato' i pensieri di tutti i passanti incontrati sulla Piccadilly Street. Anche quello della ragazza che lo aveva schiaffeggiato era stato soltanto un pensiero. Un inconfessabile pensiero. Uno di quelli che, di norma, nascono e muoiono dentro di noi senza mai uscire allo scoperto.

La rivelazione innalzò al paradiso John che si sentì un predestinato. «Se la scelta del caso è caduta su me», disse fra sé «è segno che io debba compiere qualche gesto memorabile!

Senza che lo volesse, un profondo sospiro gli gonfiò il petto. «Ora non sono più un signor nessuno!» - aggiunse con orgoglio e anche un pizzico di smarrimento perché il fatto lo spaventava. «Non sono più uno dei tanti perché nessuno ha quello che ho io... io... io sono unico...»

Quel potere straordinario che aveva lo portò a guardarsi intorno con aria di superiorità.

- Chiunque sarà soggetto a me... anche l'uomo più potente... - fu questa la conclusione cui arrivò.

Il suo viso assunse un'aria luciferina.

- E io potrò approfittarne... e... potrò fare schiavo chiunque!

Con questa convinzione salì sulla cima del mondo e si proclamò re.

Lunedì mattina tornò in ufficio con il piglio del guascone. Salutò a fronte alta Miller, il direttore dell'agenzia, riservandogli anche un sorriso, cosa che non faceva da anni. Il superiore lo guardò stupito. «Ha bevuto o ha vinto alla lotteria, Wilkinsons?» Questo fu il primo pensiero che gli venne in mente nel vederlo così su di giri. Il secondo fu qualcosa che John percepì con amarezza. Miller infatti aggiunse: «Razza di fallito che non sei altro!»

Il malcapitato John, ora che si sentiva alto e forte come un gigante, fu preso dalla voglia di cantargliene quattro, ma aveva deciso di non rivelare a nessuno il suo potere, a meno di non trarne un grande vantaggio. Così represse l'istinto di sfogare il risentimento che aveva accumulato per anni contro il direttore e andò verso il corridoio che lo portava all'ufficio, sforzandosi di pensare ad altro.

Ma il peggio doveva ancora venire. Nei giorni seguenti venne a galla una triste realtà: scoprì di essere sopportato. Peggio, compatito. Quasi tutti in agenzia lo consideravano poco più di un fallito. In verità l'idea lo aveva sfiorato, ma aveva sempre preferito pensare che fosse una fissazione più che una realtà. I fatti dimostravano invece il contrario. John mal digerì la faccenda e si augurò che l'occasione giusta per dimostrare il suo valore si presentasse al più presto. E quella arrivò appena il giorno dopo.

Per andare all'ufficio, John era obbligato a transitare davanti alla cassa centrale. Lì Jack Stuart Bolton, un piccolo uomo dall'aria mite, stava smazzando banconote.

- Come ci si sente a pochi giorni dal ritiro? - gli domandò, felice per lui che proprio il venerdì di quella settimana avrebbe lasciato il lavoro.
- Bah... è una settimana come tutte le altre... - rispose candido il cassiere.
- Come tutte le altre? Fossi al tuo posto farei salti alti fino al soffitto... e avrei già prenotato un volo per Rio.
- Ci andrò, ci andrò... non dubitare... - rispose quello, sorridendo sotto i baffi.

John stava per entrare nella sua stanza quando i pensieri dell'ometto lo inchiodarono sul posto.
«Festeggerò la fine con i fuochi d'artificio...» - pensò Stuart Bolton.
«Nessuno sospetterà di me e io potrò portare a compimento il piano senza correre il minimo rischio...»
John ritornò sui suoi passi mantenendosi a poca distanza dall'uomo. Lo vide accarezzare la borsa di pelle che teneva sul piano di lavoro. «Chi potrà mai sospettare che qua dentro avrò messo un capitale?» Il cassiere aprì la borsa e vi guardò dentro. «Ne entreranno abbastanza... oh, sì... anche se saranno solo banconote da dieci e da venti... l'avidità è una cattiva consigliera... troppa gente è finita in galera perché non ha saputo accontentarsi... ma io no!»

L'uomo richiuse la borsa. John continuò a succhiare con avidità i suoi pensieri. «Qua dentro finiranno non meno di 81.000 dollari... beh... c'è di che fare vita spensierata per i restanti giorni.»

Il cassiere tirò un sospiro e prese a guardare il soffitto che era diventato più azzurro del cielo dei tropici. Tamburellò a lungo sulla borsa mentre si impiastricciava la bocca e la mente del miele che colava dalla sua fantasia eccitata. Si accese una sigaretta e tirò una boccata.

«Venerdì sera prenderò un volo per Rio... proprio come ha suggerito quel mentecatto di Wilkinsons e scomparirò per sempre... e poi... anche se dovessero ritrovarmi non potranno farmi nulla... in Brasile non c'è l'estradizione per questo tipo di reato... e io avrò tutto il tempo di rifarmi una vita...» Sorrise amaro. «...anche se purtroppo non sarà abbastanza lunga...»

John ebbe un sussulto. Più del mentecatto con cui era stato bollato da Stuart Bolton fu colpito dal piano che quello aveva architettato. «Forse il momento che aspettavo è arrivato!» mormorò fra se, dubbioso.

Rifletté sul da farsi per qualche istante.

- Sì che lo è, perdio! - disse picchiando deciso il pugno di una mano nel palmo dell'altra. - Denunciando il furto del cassiere disonesto, potrò riacquistare la credibilità perduta e di sicuro me ne tornerà un vantaggio!

Il vecchio cassiere inseguì un altro flusso di pensieri e John gli corse dietro.

«Riempirò la borsa dopo che tutti se ne saranno andati ... e poi prenderò il mio aereo... ci metteranno del tempo lunedì mattina per capire quello che è successo...» Scoppiò in una grassa risata. «Vorrei essere qui e vedere la faccia di Miller quando capirà che 81.000 angioletti hanno lasciato per sempre la banca...»

Stavolta a ridere fu John. La folle idea del cassiere della Morgan & Freeman Bank, arrivava a proposito.

Senza perdere tempo, bussò alla porta di Miller. Salutò con deferenza sia il superiore che Ann, la segretaria. Il direttore si stupì nel vedere Wilkinsons dietro alla porta del suo ufficio: non era cosa che usasse fare spesso di sua iniziativa. Curioso di sentire quello che aveva da dirgli, si sforzò di essere cortese.

- In cosa posso esserti utile, caro Wilkinsons?

Quel caro suonava falso un miglio, ma John fece finta di nulla e si accomodò in poltrona. A Miller sfuggì un «razza d'incapace!». Naturalmente fu un pensiero il suo. Ma quel pensiero arrivò dritto alla mente di John, e lui faticò non poco a far cadere l'offesa nel nulla.

«E' velenoso come uno scorpione, il caro direttore.» - rifletté, mentre diventava sempre più manifesta la scarsa considerazione di cui lui godeva. «Ma fra un po' dovrà ricredersi.»
Miller tese a John una scatola di sigari Avana.
- Ne gradisci uno? - domandò premuroso.
Wilkinsons ne prese uno.
- Dimmi pure quello che hai da dire. - lo sollecitò il direttore.
- Uhm... vede, capo... non è per niente facile... ecco... beh... sono al corrente di un furto che venerdì sera verrà perpetrato nella nostra filiale.

Il sorrisetto di Miller svanì di colpo. Una boccata di fumo gli andò di traverso e cominciò a tossire come un dannato. John osservò divertito la scena, ma si augurò che il capo non si strozzasse proprio ora che era arrivato il momento di prendersi una clamorosa rivincita.

- Un furto? E da parte di chi?
- Di un impiegato di questa agenzia.
Sul volto del direttore si disegnò una smorfia di scetticismo.
- Non ci posso credere. Qua dentro c'è soltanto gente fidata.
- Anche troppo, se è vero che la persona in questione conta su questa fiducia per portare a termine il piano che ha preparato!
Miller aspirò un'altra boccata di fumo. Cercava in tutti i modi di mantenere la calma.
- Hai una strana aria di trionfo, Wilkinsons... - riprese a dire con voce morbida. - che mi insospettisce un po'... non è che per caso mi stai tirando un colpo mancino?
- Assolutamente no! É la pura verità.
John cercò di essere convincente per quanto poteva.
- Che prove hai per dimostrarmi che non è una fantasia la tua?
- Non ho prove...
- Volevo ben dire!
- ... ma ho la certezza che quel furto avverrà.
- Senti, Wilkinsons... se c'è una cosa che non tollero è quella di essere preso in giro!
Miller si alzò in piedi di scatto e picchiò il pugno sul tavolo.
- Quella che mi stai raccontando è una cosa senza senso!
John non si scompose. Fece la sua replica con aria sottomessa.
- Non si scaldi, capo... vuole le prove?
- Sì che le voglio! Che aspetti?
Vista l'impazienza di Miller, John si affrettò a svelare il suo segreto.
- Bene... l'avverto però che rimarrà sorpreso... eh, sì... dunque... io.... io... ho il potere di leggere nella mente degli altri.

A quella dichiarazione il direttore scoppiò a ridere.

- Ho sempre detto che hai qualche rotella fuori posto, Wilkinsons, e a quanto pare non mi sono affatto sbagliato!

John si alzò dalla poltrona, puntò i pugni sul tavolo, avvicinò la testa a quella di Miller e lo fissò con occhi di ghiaccio.

- Vuole mettermi alla prova, caro direttore?

John calcò la voce di proposito sul caro. Ormai non temeva più né lui né altri.
- Certo che sì. Ma come?
- Sarà presto detto.
John non impiegò molto tempo a dimostrare la facoltà che aveva acquisito. Il direttore e la segretaria, dopo le infinite prove cui lo sottoposero, finirono col rimanere senza parole. Ann cominciò a temerlo perché si sentiva del tutto indifesa contro quel potere che la espropriava della sua intimità. «Nessun essere umano può frenare un pensiero» - fu la conclusione a cui la donna giunse con grave imbarazzo. «neppure se riprovevole...».

John colse le difficoltà di Miller e della segretaria. Ne gioì. «Eh eh eh... » - disse ridendo fra sé. « li tengo in pugno... proprio come pensavo.»

Il direttore non si preoccupò più di tanto del potere di John. Quello che a lui premeva in quel momento era conoscere i particolari del furto annunciato. E John rivelò i pensieri di Stuart Bolton. Saputo quanto frullava nella testa del cassiere, Miller montò su tutte le furie.

- Chi l'avrebbe mai detto? L'uomo più fidato dell'agenzia vuole mettermi nei guai! Maledetto! Essere raggirato da chi gode la mia stima è cosa disgustosa... qua dentro tutto funziona sulla fiducia... se avvenisse un furto del genere, i proprietari della Banca non ci penserebbero due volte a prendermi a calci nel sedere... ma, grazie al tuo aiuto, Wilkinsons, io potrò venirne fuori con successo... tutti ne verremo fuori con successo... sicuro... anche tu.

Miller abbracciò il dipendente.

- Dobbiamo festeggiare! - esclamò il direttore andando verso il piccolo frigorifero che teneva accanto alla scrivania.

Prese una bottiglia di champagne e la stappò. Contravvenendo all'etichetta, offrì il primo bicchiere a John.

- Tieni, te lo sei proprio meritato. Sarà ovvio quanto dico, ma la mia gratitudine non si esaurirà con un bicchiere di champagne, seppur ottimo.

La tua posizione in seno a questa agenzia verrà riconsiderata, caro Wilkinsons. Diventerai il mio vice appena quel traditore di Stuart Bolton sarà arrestato.

Il direttore levò in alto il bicchiere e altrettanto fecero la segretaria e John. Questi assaporò il momento del trionfo con molta compostezza, anche se si sentiva frizzante come le bollicine che vedeva scoppiare nel bicchiere.

D'accordo con l'ispettore Perkins, del vicino commissariato di Mayfair, fu preparato un articolato piano per l'arresto del ladro. La banca sarebbe stata tenuta sotto osservazione già da mercoledì. Venerdì sera un nugolo di poliziotti in borghese sarebbe stato sguinzagliato lungo le vie che correvano intorno all'isolato della Morgan & Freeman Bank, così da chiudere qualsiasi via di fuga al malfattore e ad eventuali suoi complici. Stuart Bolton sarebbe stato bloccato non appena avesse messo piede fuori dell'edificio.

Nei giorni che precedettero l'evento, Miller spiò le mosse del cassiere con molta discrezione. Ebbe la conferma che l'uomo stava tramando qualcosa, quando questi, contrariamente alle aspettative, lo informò che avrebbe offerto il rinfresco d'addio giovedì pomeriggio e non venerdì. Il motivo che lui indicò per giustificare l'anticipo fu che aveva prenotato un volo per una località lontana - di cui non rivelò il nome - e che non poteva ritardare nemmeno di un minuto l'uscita dalla banca, dato che a quell'ora la strada per l'aeroporto di Heathrow era sempre molto affollata. Miller, nell'ascoltare la motivazione, sorrise. Stuart Bolton non avrebbe raggiunto nessuna località vicina o lontana: sarebbe finito presto dietro le sbarre di una angusta cella.

Sotto il peso della tensione che li schiacciava, John e Miller aspettarono impazienti che le lancette dell'orologio toccassero le 17 e 30 di Venerdì 20 luglio. All'ora della chiusura, il personale dell'agenzia abbandonò alla spicciolata l'edificio. Solo Jack Stuart Bolton rimase a fare, per l'ultima volta, quello che era di sua competenza. Controllò che tutto fosse in ordine all'interno degli uffici, ispezionò la cassaforte assicurandosi che nessuno fosse rimasto dentro, spense la luce interna, chiuse la porta ruotando la grande maniglia centrale, fece scattare la combinazione. S'avviò quindi verso l'uscita e, dopo aver spento le luci in sala, chiuse dietro di sé la massiccia porta d'ingresso. Fuori pioveva a dirotto. Il cielo, nero come la pece, era attraversato da saette che illuminavano a giorno tutta Londra e sfogavano rabbia repressa esplodendo con fragore.

Quattro macchine della polizia erano dislocate agli angoli dell'isolato, mentre un discreto numero di poliziotti teneva d'occhio l'edificio da diversi punti d'osservazione. John e Miller, dentro una macchina parcheggiata a non più di trenta metri dalla banca, attendevano l'ora X. Stuart Bolton avanzò sulla Berkeley Street cercando un riparo che il suo striminzito ombrello non poteva dargli. Nella mano sinistra stringeva la fedele compagna di tanti anni di lavoro, la vecchia borsa di pelle che sembrava più gonfia del solito. Aveva l'aria felice, almeno così sembrò a Miller e John, quando passò davanti alla loro auto. Dopo qualche istante, due poliziotti lo fermarono e lo costrinsero a entrare nella macchina della polizia che, come per incanto si era materializzata alle loro spalle. L'uomo fu portato al commissariato di Mayfair. John e Miller, al settimo cielo per il successo dell'operazione, dopo qualche minuto entrarono negli uffici del distretto.

Miller era livido dalla rabbia e quando si trovò di fronte a Stuart Bolton fu preso addirittura dalla voglia di sferrargli un pugno. Riuscì a darsi un contegno soltanto perché si rese conto che il 'nemico' era un vecchio uomo. Non evitò però di apostrofarlo pesantemente.

- Vigliacco! Così ripaghi la fiducia che ho sempre avuto in te?

Il cassiere s'accese di rosso in viso, abbassò la testa vergognoso e non disse una parola in sua difesa.

- Sapevamo benissimo dove volevi portarla!

Miller alludeva alla vecchia borsa che l'uomo teneva stretta a sé.

- Volevi andare a Rio, eh, mentecatto? - aggiunse John con aria perfida.

Miller aveva preso a camminare su e giù per la stanza per liberare il nervosismo che gli impediva di stare fermo. Ritornò a bomba.

- La fiducia di cui godevi ti ha illuso che avresti potuto farcela... non posso darti torto... chiunque al tuo posto avrebbe pensato la stessa cosa... ma... ma il diavolo ci ha messo lo zampino. Per fortuna che sono venuto a conoscenza del tuo piano... altrimenti per colpa tua avrei passato guai molto seri...

Rivelò quindi al cassiere com'era arrivato a sapere del furto.

- Soltanto grazie al potere straordinario di Wilkinsons il tuo piano scellerato è stato sventato!

Miller si fermò davanti a Stuart Bolton. Questi continuava a mantenere la testa bassa. Si avvicinò al cassiere e scoppiò in una risatina di scherno.

- Sei stato preso in trappola come un topo! - gli sussurrò a voce bassa.

Il vecchio uomo si limitò a guardarlo da sopra gli occhiali con occhi mansueti. Miller andò verso il fondo della stanza soddisfatto: il silenzio dell'ometto era un'esplicita ammissione di colpa.

- Può mostrarci per cortesia... - intervenne per la prima volta l'ispettore Perkins. - ... il contenuto della borsa?

Alla richiesta dell'ispettore, l'imbambolato Stuart sembrò scuotersi dal torpore che lo teneva bloccato.

- Oh, sì... certo... ma... ma perché mi chiedete questo? - domandò con voce flebile il cassiere.

- Non tergiversi, per carità di Dio, e risponda! Qui le domande le faccio io!

L'invito di Perkins era perentorio.

- È stato il sogno di tutta la mia vita... - rispose con tono piagnucoloso il cassiere, stringendo ancora più forte la borsa al petto.

Miller, John si guardarono increduli. Dopo qualche istante di angoscioso silenzio, il vecchio uomo mise la borsa sulla scrivania dell'ispettore. Esitò a lungo prima di aprirla. Poi fece scattare le molle che bloccavano i fermi. I tre uomini aspettavano con impazienza di veder saltar fuori le mazzette di dollari da 10 e da 20 dollari che Miller doveva aver messo dentro.

Senza scomporsi più di tanto, Stuart Bolton tirò fuori dalla borsa pezzi di giornale, più o meno della grandezza di una banconota. Miller incredulo strappò la borsa dalle mani del cassiere e rovesciò a terra tutto quello che ancora conteneva. Volarono in aria molti altri ritagli di giornale, ma... dei dollari non v'era traccia!

Con lo sguardo smarrito, il direttore della Morgan & Freeman Bank volò su Perkins e Wilkinsons. Cercava aiuto. Forse i dollari erano mescolati a quei ritagli di giornale che ora stavano un po' dovunque. Ne raccolse da terra più che poté e li guardò con attenzione: erano solo dei volgari pezzi di carta! Tornò a frugare nella borsa, ma questa era desolatamente vuota. Vuota! Al colmo della disperazione, Miller, dopo averlo afferrato per il colletto, sollevò da terra il cassiere e lo strattonò più volte.

- Dove hai messo i dollari, ladro maledetto? - gli urlò.

Perkins, quando s'avvide che Miller aveva perso il controllo di sé, intervenne bruscamente.

- Miller! Non posso consentirle un sopruso del genere! Le ordino di prendere le distanze da Bolton!

La voce tonante dell'ispettore costrinse Miller a lasciare la presa.

Stuart Bolton scivolò a terra e, in debito d'ossigeno, fu colto da violenta tosse. Strabuzzò gli occhi più volte prima di ritrovare, e a fatica, il respiro. Miller, come un mastino che ha addentato l'osso, non aveva però alcuna intenzione di mollare.

- Dove sono i dollari che hai rubato, farabutto? - gli sibilò a non più di dieci centimetri di distanza dal viso.

- Dollari? Quali dollari? - ripeté quello stupito.

L'ingenua domanda del cassiere fece lievitare ancora di più la collera di Miller.

- Conosciamo i tuoi piani, razza d'idiota! - urlò l'inviperito dirigente della Morgan & Freeman Bank.

Perkins stava per intervenire di nuovo quando il cassiere prese a parlare.

- Ho una confessione da fare... - disse l'ometto. - ...rubare è stato il pensiero fisso di tutta la mia vita... il mio sogno nascosto...

Nella mente dei tre uomini cominciò ad affacciarsi il sospetto di aver preso un colossale abbaglio.

- Con tutti i soldi che mi sono passati per le mani... pensare di rubare è stata cosa più che normale... chi al mio posto non l'avrebbe fatto? ...però... da quando in qua sognare è diventato reato?

I tre uomini non volevano capire quanto l'uomo andava dicendo.

- Ho ritagliato pezzi di giornale a misura di banconote e ne ho riempito la borsa... al termine del mio ultimo giorno di lavoro volevo sentirla più pesante che mai... è bello correre dietro alle fantasie... anche la fuga a Rio è stato solo una magnifica fantasia...

Le affermazioni di Stuart Bolton, come un unico, micidiale colpo al mento, ebbero il potere di mandare i tre uomini al tappeto.

Stentò a prendere sonno quella sera John Wilkinsons. Rifletté a lungo sulla disgrazia che gli era capitata, perché ora poteva, e a ragione, parlare di disgrazia: era un disoccupato. Dopo l'insuccesso dell'impresa, Miller lo aveva licenziato in tronco. - Nessuno può permettersi di farmi fare la figura del fesso!

Con questa accusa era stato rispedito a casa. Ma più del licenziamento a preoccuparlo era ben altro. Predestinato un corno! Avere quel potere si era rivelato un pessimo affare. Da quando ne era entrato in possesso aveva ricavato solo guai. E poi, provava grande disagio nel dover ascoltare i pensieri degli altri. Ogni volta che interloquiva con qualcuno, il primo a finire sotto il riflettore era proprio lui. Tutti, chi più chi meno, avevano qualcosa di malevolo da rivolgergli, e se anche non erano diretti a lui i pensieri degli altri, doveva sempre assorbire qualcosa di sgradevole, di antipatico, e anche di criminale. Non poteva fidarsi di nessuno: le persone più false erano quelle che passavano per affabili e accomodanti.

Certo, il campione di umanità che lui poteva osservare era scarsamente significativo, ma, dopo una settimana di attenta e stupita osservazione, nessuno avrebbe più potuto togliergli dalla mente che tutto il mondo delle umane relazioni faceva perno sull'ipocrisia e la bugia: la gente, purtroppo, lasciava trapelare all'esterno solo verità di comodo. La generica conclusione cui arrivò fu che la cattiveria del genere umano era molto più grande di quanto avesse mai supposto.

- Tutta l'umanità è imparentata col demonio e io... e io... purtroppo... dovrò subire questa condanna per il resto della mia vita...

Liberarsi di quel potere fu l'ossessione che lo tormentò nei giorni che seguirono. Ma come avrebbe potuto? Dopo lunghi rimuginamenti, una certezza affiorò nella sua anima: non avrebbe mai potuto!

- Non mi rimane che farla finita! - sbottò in un momento di profonda disperazione.

Era notte fonda quel lunedì e John, non riusciva a prendere sonno. Volse lo sguardo alla finestrella della sua stanza e fissò a lungo la fetta di cielo che stelle baluginanti bagnavano d'oro. Si sentì un condannato a morte che vive la sua ultima notte. La stanza angusta, dentro cui soltanto qualche timido raggio riusciva a entrare, divenne una cella dalle pareti infinite. Mentre malediva quel potere che lo aveva distrutto e fatto schiavo, John si addormentò. Il giorno accese le luci di lì a poco. A mattina inoltrata, un raggio di sole entrò nella stanza. Per uno strano gioco del destino, investì la lente di ingrandimento che stava sulla sedia in fondo al letto e, come un dardo infuocato, trafisse la pianta del suo piede destro. Nel reagire al dolore, John si mosse scompostamente e batté la testa contro la libreria che stava sopra di lui. Imprecò a voce alta, mentre il sangue colava copioso dal taglio che si era aperto sulla nuca. Tamponò come meglio poté la ferità, si vestì e uscì perché aveva bisogno d'aria. Mentre camminava sulla Piccadilly Street incrociò una bella ragazza dai capelli rossi. Quando le fu vicina, John si aspettò di leggere i suoi pensieri, ma non gli riuscì.

- Possibile che non abbia niente nella testa? - si chiese dubbioso. - Non posso crederci...

Tese nuovamente l'orecchio, ma ancora una volta, non 'sentì' nulla. Un pensiero entrò nella sua mente a passo di carica. Smanioso di avere un'immediata conferma, si portò a ridosso della ragazza e quella, per timore di essersi imbattuta in un maniaco, si impaurì.

- Allontanati da me, razza d'imbecille! - gli urlò. - Se non vuoi che chiami la polizia!

Mai minaccia giunse più gradita alle orecchie di John. Zigzagando pericolosamente fra le macchine, si portò sull'altro lato del marciapiede. Avvicinò una persona. E poi un'altra e un'altra ancora. Non 'sentì' nulla. Saltò dalla gioia quando capì che la mente degli altri era diventata impenetrabile al suo potere. Prese allora a sorridere a tutti quelli che incontrava, inchinandosi e facendo il gesto di togliersi un cappello che non aveva.

- É il regalo più bello che io potessi ricevere! Grazie, mio Dio! - urlò con voce tonante, alzando mani e testa al cielo.

I passanti, pensando di avere a che fare con uno squilibrato, presero in fretta le distanze da lui. Cominciò a piovere. Dopo qualche minuto, un temporale di inaudita violenza sfogò la sua violenza sulla città. John, incurante dell'acqua gelida che si rovesciava a terra da un cielo color catrame, rimase sul marciapiede senza cercare riparo. Neppure il sangue che aveva macchiato il colletto della sua bianca camicia, lo convinse a smuoversi di lì. Ritornò a casa soltanto quando un pallido sole riuscì a bucare una nuvola sfibrata. Lasciò che la luce gli bruciasse gli occhi. La luce! Già, la luce aveva segnato l'inizio e la fine della sua disgrazia. E anche illuminato il suo intelletto!

John Edward Wilkinsons, protagonista di una vicenda ai confini della realtà, scoppiò a piangere quando si accorse di aver ritrovato un bene che credeva di aver perso per sempre: quello cioè di essere un uomo come tutti gli altri. Uno dei tanti.
FINE

17 aprile 2003




Hop
di James Globtrotter

Hop... Olè! Centro!
Porca puttana...
Ma che devo fare? Ci sto provando, ci sto. Ma non mi viene! Ma chi l'ha mai scritta una lettera d'amore prima d'ora...
Guardo il cestino della carta straccia, che ho sistemato nell'angolo più lontano della stanza per aumentare la difficoltà di tiro; è pieno di improbabili parole appallottolate, scritte un po' su fogli a righe, un po' su fogli a quadretti. quelle sui fogli a quadretti sono le più sfortunate, tutte quelle righe azzurrine sembrano sbarre inamovibili poste ordinatamente tra una vocale e una consonante, così, a trattenere in confini geometrici ciò che tutto è, meno che geometria...
Ma che cazzo sto pensando...ci manca solo che mi metto a filosofeggiare adesso...
Ok. ok... ricominciamo. In fondo quattro paroline dolci, in fila, dovrei riuscire a inventarmele. Non pretenderà mica un poema alla Prevèrt, che io più delle frasi stile baci Perugina non sono proprio in grado di. Andavo pure male, in italiano, a scuola.

ma che sarà venuto in mente a giulio, di tirare fuori quella storia della lettera d'amore che ha scritto lui a patrizia quando gli ha chiesto di sposarlo.

l'ho vista poi stefania come mi ha guardato...

Stefania amore mio

secondo me potrei anche terminarla qua 'sta lettera, che tanto al "mio" sarà già svenuta che non è abituata... Vabbè dai Alex, non fare lo stronzo e ricomincia a scrivere...

Stefania, amore mio

la virgola ce la metto dopo il nome perché fa un bell'effetto pausa, come se la guardassi negli occhi...

stefania
pausa
amore mio

sì, suona bene. ha un effetto ...pathos-logico. bella battuta pathos-logico, me la devo ricordare. se mi sentisse il mio vecchio insegnante d'italiano a fare queste considerazioni stilistiche con tutti i quattromenomeno che mi affibbiava, gli verrebbe un colpo apoplettico gli verrebbe. e senti che termini che utilizzo...

Stefania, amore mio
Stasera mentre attraversavo il piazzale davanti alla Coop per andare a comprare qualcosa per cena, ho incontrato il tramonto più bello che io abbia mai visto da quando vivo qua, ovverossia da quando sono nato. Sì, l'ho incontrato. Perché lui mi è venuto incontro, e io ho rallentato il passo, e mi sono fermato ad attenderlo. Era così vivo, così intenso, che faceva quasi male, a guardarlo. No, non è corretto, faceva male a guardarlo da solo. Perché tu non c'eri. E allora ho pensato che avrei voluto che fossi tu a spingere questo carrello nel piazzale, e io avrei camminato accanto a te per prendere quel pacco di riso sullo scaffale troppo in alto per te, e poi mi avresti dato un bacio-grazie e io ti avrei dato una pacca sul sedere e tu avresti sorriso arrossendo e io avrei capito che eri contenta, e anche la gente intorno lo avrebbe capito.

Invece non c'eri. E io ho chiesto a quel tramonto di andare via, e di tornare domani. Che volevo presentargli la mia futura moglie.

Tu che ne dici? Ti va di fare le presentazioni ufficiali?
Ti amo.
Alex

wow, alex sei un mito! sì, ho scritto proprio una bella cosa! credo. almeno penso. però... no, un momento... forse il supermercato, il carrello, non sono cose proprio romantiche... magari pensa che la voglio sposare per avere chi cucina e va a fare la spesa. che certo conta anche quello, ma non è mica per quello... poi in effetti non ho scritto proprio grammaticalmente perfetto, che lo scaffale dove in alto c'è il riso non sta mica nel piazzale. magari ritocco qualcosa, taglio qualche frase troppo lunga, il senso però non lo cambio che il tramonto che ritorna domani mi piace...

Stefania, amore mio

Stasera, mentre passeggiavo, ho incontrato il tramonto più bello che io abbia mai visto. Sì, l'ho incontrato. Perché lui è apparso all'improvviso, o forse io ero distratto, poi ho rallentato il passo, e mi sono fermato ad attenderlo. Era così vivo, così intenso, che faceva quasi male, a guardarlo. No, non è corretto, faceva male a guardarlo da solo. Perché tu non c'eri. E allora ho chiesto a quel tramonto di andare via, e di tornare domani. Che volevo presentargli la mia futura moglie.

Tu che ne dici? Ti va di fare le presentazioni ufficiali?
Ti amo.
Alex

non mi convince... dove andavo a passeggio da solo? e poi che era? un tramonto allievo di silvan che appare all'improvviso? anche che ho rallentato il passo non mi piace, sembra l'esame orale per la patente... signor mancinelli, cosa fa lei quando un tramonto le appare all'improvviso in prossimità di un incrocio? Rallento il passo e all'occorrenza mi fermo! boooocciato!!! ma dai...

e poi adesso è troppo corta, io non l'ho mai vista una lettera d'amore di sei righe più saluti...

Stefania, amore mio
Vorrei saper usare la penna come Van Gogh usava il pennello, per dipingere con le parole giuste, con le giuste tonalità, le emozioni che non riesco a tradurre in linguaggio...

ma che è? Prima dipingo, poi traduco... da alex: centro multiservizi... mi so' un po' incartato...

Stefania, amore mio
Non riesco a tradurre in parole tutto ciò che si agita in fondo al mio cuore quando ti penso.
E' un mare di emozioni che mi afferra alla gola, e mi strizza i polmoni succhiandomi via il fiato, ogni volta che te ne vai.
Mi manca, la mattina, l'impronta della tua testa sul cuscino orfano di te. Inutile attenzione in piuma d'oca se non l'impreziosisci del tuo sorriso, e dei tuoi capelli così sensualmente disordinati.
Che non t'ho mai detto quanto sei bella appena sveglia, con gli occhi che si aprono piano e lo sguardo appannato, mentre inumidisci le labbra screpolate di sogni con quella lingua piccola e puntuta e rosa e cerchi di sistemare la camicia da notte che è una sottoveste corta, e ti lascia sempre scoperte le gambe e anche un po' più su. Perché non stai mai ferma, mentre dormi. Che un seno sfugge sempre fuori da quel triangolino di seta nera che dovrebbe celare e invece svela. Traditore. Che ogni volta ho voglia di...

Sì, vabbè, ecco ambrogio in versione kamasutrica... stefania, amore mio, ho voglia di qualcosa di buono... spogliati. sembro un maniaco, sembro... non ci riesco proprio... ma poi chi ha detto che è obbligatorio scrivere una lettera sdolcinata per chiedere la mano alla propria donna? lei lo sa che io non sono un tipo romantico e melenso... anzi... adesso la vado a prendere, le compro un mazzo di fiori, la porto a cena fuori e glielo chiedo senza troppi giri di parole, ecco così mi sembra sicuramente meglio... scrivo subito un biglietto d'accompagnamento per i fiori e vado...

Stefania,
vorrei chiederti la mano.
E anche tutto il resto.
Ti consiglio di accettare altrimenti sarò costretto a rubartela, la mano. E anche tutto il resto.
Lo sai che sono un ladro gentiluomo.
Vuoi provare tu a fare di me un uomo onesto?
Ti amo.
Tuo
Arsenio Alex Lupin

ecco, adesso mi ci ritrovo, non sarò poetico ma... e poi sicuramente lei scoppierà a ridere e mi guarderà scuotendo piano la testa, inclinandola leggermente a sinistra... e magari arrossendo un po' mentre nasconde il viso fra le mani... che a me Stefania, quando mi guarda così...


Chi gioca con il mondo?
di Maria Laura Platania

Unghie, dal gesso consumato, graffiano stridule l’asfalto.
Occhi di scoiattolo impaurito afferrano, aprono, vuotano un sacchetto che si affloscia misurando, in sequenza, fragori antichi. Un gioco.
Chi gioca con il mondo?
Roma si sveglia pigra miagolando sui tetti morbidi. L’aurora, l’indecisione della notte a farsi giorno, clacson di sbadigli degli ultimi nottambuli, stridio di freni dei netturbini, il fragore sordo delle saracinesche dei bar, l’odore forte del pane appena sfornato confuso a quello delle brioche e del caffè caldo.
La villa bassa e signorile immersa nel verde recita serenità e discrezione, sin dal cancello di ferro battuto intrecciato di glicine antico, concluso da lunghe lance rivolte verso il cielo, la pulsantiera sul lato destro, senza nomi, né sigle, su quello sinistro il cave canem di un boxer bonario.
Silenzio e discrezione, non fosse per quella insolita incuria del giardino, lunghi ciuffi d’erba selvatica nelle fessure del pavé: una villa abitata, in altro tempo.
Federico Ferroni era stato commissario di zona, fino all’anno prima.
Prossimo a una settantina vigorosa, collaborava ancora alle indagini di polizia, fonte inesauribile di memorie catalogate, ordinate, ma, soprattutto, vissute come nessun computer avrebbe mai potuto. Di un incontro, occasionale o meno, di un ricercato arrestato, rilasciato o passato a miglior vita, lui ricordava tutto, parenti, amici, rapporti, gusti, preferenze. Irrisolti rancori. Diceva scherzando ai più giovani colleghi che la memoria era per un poliziotto quello che è la corazza per una tartaruga: permetteva un cammino, lento, ma sicuro verso la vecchiaia.
E adesso quel volto di bimba avvizzita frugava, sgraziata, la mente, stridendo unghie di gesso.
Dall’altro lato, Villa dei Glicini. Crimini, fattacci. Chi li ricordava più?
C’era scappato il morto.
Un ladro – s’era detto - s'era intrufolato nella villa e sorpreso a rubare aveva strangolato la giovane domestica senza portare via nulla. Una ridda di ipotesi, senza possibilità di verifica, mentre si passava al setaccio ogni risvolto della vita della famiglia che risiedeva lì da molto tempo, rispettata e stimata dalla gente del quartiere. E così nessuno aveva voluto credere alla storia del dottor Mariozzi, amante della servetta diciottenne, né alla gelosia della moglie, né all'ipotesi che la loro figlia, dai begli occhi scuri, fosse frutto di una relazione adulterina di quel marito tanto devoto.
Ferroni, all’epoca dei fatti, un'idea se l'era fatta: Giulietta - così si chiamava o si faceva chiamare la ragazzina venuta da un paesino là vicino, a Roma per “abbuscarsi la gallina”, come diceva ai negozianti dive faceva la spesa per la “signora” - doveva essere stata l’ingenua vittima di un sordido gioco.
Quella cassettuccia, bianca per il grezzo del legno che lasciava la Chiesa di Sant'Agnese al Nomentano nel caldo innaturale di un Novembre avanzato, seguita solo da un uomo troppo vecchio per essere il padre e che si avviava mesta al cimitero di Prima Porta era memoria viva.
Un delitto senza colpevoli, tanto fango su una ragazza che non aveva trovato nella Roma dei suoi sogni neppure i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno al suo paesello.
La famiglia Mariozzi aveva finito con l’ abbandonare la casa.
Cacciati i padroni, nella fantasia del popolo, Giulietta, con le sue quattro ossa di contadina, aveva ripreso possesso della Villa, libera di respirare quel profumo di glicine che rubava nella stagione del suo fiorire.
Un caso irrisolto, una delle poche macchie nella carriera del commissario.
Cose che pesano a settant’anni, quando resta poca sabbia nella clessidra.
E ora ecco quella ragazzetta pallida, gli occhi affossati nelle orbite cadaveriche, cenciosi capelli di stoppa, attraversare la strada farglisi d’accanto, soffiando nell'orecchio l'osceno di una proposta sibilata mostrando il rosso di una lingua trafitta da una minuscola sfera d'acciaio.
Il vecchio commissario è turbato, sente l’acuto di un dispiacere attraversargli lo stomaco: che ci fa per strada una ragazzina così, all’alba, ora da ladri, da donnacce, da vecchi insonni… quanti anni puoi avere? Quindici, sedici a rotolare negli angoli di strada lasciando che uomini e donne in sudicia sequenza sporchino l'ingenuità di un seno che non ha avuto neppure il tempo di sbocciare, di gambe livide.
Quelle gambe che, adesso, aggrediscono a due, a tre la volta i gradini alti e irregolari della villa, mentre il volto, appena arrossato dalla fatica, si gira di tanto in tanto per assicurarsi che l’uomo la segua.
Silenziosa e impavida indica un uscio socchiuso: la villa e il suo interno.
Tende, moquette, lampadari, la tappezzeria, quadri, biancheria, bagni e ottoni lucidi, asciugamani in bella mostra: tutto è lindo, tutto è ordine.
Davvero Giulietta hai continuato, serva fedele, a custodire i luoghi della tua esistenza?
Ora il viso di bimba senza sorriso si affaccia dolente dallo stretto dell’uscio. Prende il sacchetto.
Giochiamo? Giochiamo insieme al gioco del mondo?
Ammaliato Ferroni, d’improvviso, comprende di chi è quel volto.
A che serve il sacchetto, bambina di ghiaccio?
Cos’è il mio sacchetto? Ma è il mondo e dentro striscioline di carta, gli spiriti degli dei. Ora è giunto quel tempo, aprirò il sacchetto, ora non so più controllare la mia disperazione. Hanno aspettato vent’anni gli spiriti potenti, ora bisogna sollecitare il loro aiuto.
E’ freddo il muro d’ombre che narra di gente cattiva, d’una bimba nata per odio da un ventre di serva, strappata all’amore di mamma, allattata a veleno da sterile madre. Follia ordina di togliere vita a chi la vita ha appena donato e invoca, tremando, non ditelo a mio padre, non fate soffrire mio padre.
E arriva quel padre, contadino ferito: è ombra irata e possente nel teatro del mondo. La vede il vecchio Ferroni, perché solo ora la vede?
Hai giocato bambina? Hai giocato bambina?
E stringe, stringe il tenero di quella carne che è la sua carne.
Si spezza la storia, graffiata con unghie di gesso, mentre leggeri gli spiriti placano la disperazione di un’ombra mancata di donna dagli occhi neri di scoiattolo impaurito, che ora - ma è sogno, ma è vita ?- dondola gambe livide e scheletriche da una corda di tenda strappata.
Nelle mani il sacchetto del gioco del mondo, narrato in fragile giallo di carta.
Li ho uccisi tutti, dovevo ucciderli tutti. L’ho fatto per te, abbracciami Giulietta amata da nessuno. Sono tornata, mamma.



Uno studente difficile

di Fargo

- Fate un po' de silenzio! Avete sentito? Ho detto silenzio! Foscolo! Che c'hai da confabulà co' Ortiz?
- Stavamo a legge du' lettere...
- Che lettere?
- Quelle che j'ha scritto la regazza, l'urtime...
- Mo' c'è lezzione e fatela finita! Tu e Ortiz quanno c'è da cazzeggià nun ve tirate mai indietro... bene, bene... propio a te Foscolo cercavo... hai scritto 'n sonetto che pe' capillo me c'è voluto l'interprete.
- Quale sonetto?
- 'Alla sera'
- Embè? Che ch'ha che nun va? Dicheno tutti che è bello.
- Nun va gnente, ecco che nun va... a comincià dalla punteggiatura... ma chi te l'ha 'mparata?
- Julian Wayne! (1)
- L'attore? Nun ce posso crede.
- Macché attore a professò! Julian Wayne è Bruno Giuliano!
- Me cojoni! E chi è?
- 'N amico de famija che, siccome c'ha bisogno de sordi, dato che va spesso 'n Sudamerica, mi padre j'ha detto de damme quarche lezzione d'itajano...
- A lezzione ce dovrebbe annà lui si è pe' questo!
- A professò, quello se vanta d'esse stato allievo della Paresce (2), scusate se è poco!
- La Paresce? Mai sentita.
- Ma come? La conosce tutta Roma. É una che va 'n giro co' 'n bardacchino a dà lezzioni d'itajano...
- 'N bardacchino? E a che je serve?
- Da scrivania. Se mette all'angoli de le strade, te 'nsegna la grammatica e te scrive tutto quello che voi.
- Senti, senti...
- M'è costato 'n'occhio, però me l'ha coretto lei er sonetto... so stato proprio fortunato, a professò, perché quella ce capisce de letteratura!
- Ce sarebbe da carceralla a 'sta Paresce... bbona propio si fa corezzioni come queste...
- Pe' esse bbona è bbona...
- A Foscolo, nun fa er cascamorto come ar solito! A proposito, te la 'ntenni sempre co' la contessa Pallavicini?
- Sine.
- E come sta?
- Male
- Che jè successo?
- É cascata da cavallo.
- O cazzo! Quanno è successo?
- L'artra domenica. Stavamo a annà da Goethe quanno er cavallo è 'nciampicato dalle parti de Villa Pamphilii...
- Embé?
- La contessa è ruzzolata pe' tera... ha fatto 'n botto!
- Che annavate a fa da Goethe?
- Volevamo annà a trova Werther che 'sto periodo è ospite a casa sua.
- Veltroni?
- Werther ho detto, professò. Mica Walter. È 'n periodo che nun sta tanto bene.
- Er giovinotto?
- Sì. Propio lui.
- Che ch'ha?
- Ch'ha li dolori.
- Li dolori? Che deve da partorì?
- Soffre de core, quer poraccio.
- É cardiopatico?
- Macchè, a professò! Soffre le pene de l'inferno, però d'amore! Nun se riconosce più, è ridotto 'no straccio.
- E che cazzo, Foscolo! Stanno tutti male l'amichi tua? Nun sarà che porti jella pe' caso?
- A professò, vero è che sto a scrive 'Li seporcri', però da qui a portà jella ce ne core...
- Li seporcri? Oddio, Foscolo, famme grattà... che robba so' 'sti seporcri?
- 'N carme.
- Dimmene 'n pezzo.
- All'ombra dei cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte ben duro?
- Ben duro?!? Hai capito 'sta Pallavicini...
- A professo', me so' sbajato. Volevo dì' 'men duro'.
- Foscolo, Foscolo... vabbè, passamo ad artro... hai fatto 'n macello coll'urtimo compito, lo sapevi?
- Ma, veramente...
- Quante vorte t'ho detto che nun vojo vedè le parole tronche ne li sonetti?
- Ma, professò, l'endecasillabo... la rima...
- E che vordì? Si spremi la capoccia le parole escheno, artroché! É troppo facile usà le parole tronche. E poi 'quïete' perché me l'hai fatto trisillabo?
- Pe' via dell'endecasillabo.
- Aridaje! Così però lo dovemo da legge quì-e-te, si metti, come hai messo, la dieresi sulla i.
- Giusto?
- Giusto.
- Sbajato, cazzo! Che nun lo capisci?
- E come dovevo da fa?
- Dovevi da scrive, per esempio: 'L'immagine della fatale quiete/forse tu sei, così cara a me vieni...'
- Giusto?
- Giusto.
- E da quanno 'n qua se scrive 'i zeffiri' invece che 'gli zefiri' e poi co' 'na effe sola? Qui so' due l'erori.
- Beh, professò, 'na licenza poetica me la dovete da concede.
- Sei furbo, Foscolo, ma nun me la ricconti giusta! Guarda 'sto verso: 'e quando dal nevoso aere inquiete'. Me lo dici come lo devo da legge pe' fa tornà l'endecasillabo?
- Beh... oddio... la sineresi se magna la o di nevoso e la e finale di aere... così er verzo torna.
- Troppo comodo. Sei uno scanzafatiche, artro che storie! Un lavativo, un dongiovanni e 'no scrittore da poco. Questa è la verità. Co' 'sti sonetti nun entrerai mai nella storia, te lo dico io, mica 'n cojone. Tocca da fa li sarti mortali pe' leggete, a Foscolo. Guarda qui! Che c'è scritto?
- Meco.
- Da quanno 'n qua se dice meco?
- Perché nun se po' dì?
- None. Che a casa tua lo dite?
- Quarche vorta.
- Me cojoni!
- Ah, professò, però voi lo dite... e so già du' vorte...
- Dico che?
- Meco.
- Ma quanno mai?
- Ahò, l'avete appena detto.
- A Foscolo, che me stai a cojonà,?
- Avete detto 'meco joni', mica so scemo io.
- Guarda che si me voi pija per culo hai sbajato indirizzo! A Foscolo, io te massacro, artro che cazzi! Guarda qui che hai scritto, per esempio!
- 'Secrete', embé?
- Che è participio passato de secerne?
- No.
- E allora?
- Sta pe' 'anniscoste'.
- Allora dovevi da scrive 'segrete'.
- Me possino cecamme... è vero!
- C'ho sempre raggione io, a Foscolo si ancora nun l'hai capito! 'Sto sonetto è vecchio come er cucco. Oggi nisuno parla più così. Così l'ho dovuto da riscrive da capo pe' daje 'na parvenza cristiana. Tiè, ecchite er compito coretto e va' a posto che quattro oggi nun te lo leva nisuno! E domani vié a scola accompagnato da tu' padre...
- È 'na parola!
- Perché?
- 'Sto periodo se sta a batte la Fagnani Arese e a casa nun ce sta mai.
- Ah, ma allora quello de 'ntendevela co' le contesse è 'n vizzio de famija! Beh, dije de mollà perché j'ho da parlà. E adesso, si voi sapè come se scrive 'n sonetto, leggi qua!

(1)(2)iscritti alla lista Naufragi cui appartengo

Alla sera

L'immagine della fatale quiete
forse tu sei, così cara a me vieni,
o Sera, corteggiata dalle liete
nuvole estive e zefiri sereni.

E sempre, quando giù dall'aria inquiete
tenebre oscure all'universo meni,
scendi invocata tu che le segrete
strade del cuore dolcemente tieni.

Con i pensieri vago sulle orme
che vanno al nulla eterno mentre fugge
questo mio tempo e assieme a lui le torme
delle cure per cui con me si strugge.

E, mentre guardo la tua pace, dorme
il guerrillero che dentro mi rugge.

di Fargo

Alla sera

Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago, a me si cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.


di Ugo Foscolo



POCITOS
di Bruno Giuliano

Non ci sono molti valichi di frontiera tra l’Argentina e la Bolivia. Uno di questi é Pocitos, cittadina metà argentina e metà boliviana. La mia Lonely Planet spende poco più di qualche riga nel dipingerlo: adesso ci penserà il vostro Julian Bolivar. Sono di bocca buona, forse un po’ masochista per aver scelto di attraversare la frontiera proprio lì. Pensando a mia moglie mi convinco del tutto d’aver fatto bene a lasciarla a casa. Consiglio vivamente di non viaggiare per questi paraggi con una persona debole d’anca o peggio ancora petulante (quest’ultimo non é comunque il caso della mia consorte) poiché necessiterete di tutta la vostra concentrazione, sia per gustare l’esotico del sito che per difendervi da tutti gli “hincha pelotas”, (rompiballe) che, riconoscendo la vostra “cara pálida” (viso pallido) tipicamente occidentale, cercheranno di rifilarvi qualche bidone. Niente di grave, intendiamoci, diciamo che si rischia al più un centinaio di Bolivianos (1 euro = circa 10 bolivianos). Io credo d’essere stato in quei giorni il più chiaro di pelle tra tutti i visitatori che ho incontrato in America Latina, simile a un pollastro d’allevamento, pertanto visibile a centinaia di metri: un invito a nozze per tutti gli “estafistas” (truffatori) del luogo e, nonostante la mia completa padronanza della lingua, il pollo ideale per la gioia di costoro e per il sollazzo del nostro Vikius. Il bus proveniente da Tartagal, l’ultima città argentina degna di tal nome, si ferma al posto di frontiera delle merci in transito, a circa cinque km da Pocitos. Visto che il controllo delle merci stivate nella pancia del bus (non dei nostri bagagli personali) si sta protraendo nel tempo, scendo in compagnia del missionario mormone col quale ho chiacchierato fin’ora per fumarmi una cicca. (parlerò diffusamente un altro momento di questioni religiose). Il passaggio dall’aria condizionata ai trentasei gradi dell’esterno non mi sorprende più di tanto e mi é sufficiente togliermi la “campera” (giacca in cotone, leggera e con molte tasche dalla parvenza militare) per sentirmi bene: io amo il caldo che sembra opprimere il 99,99% delle altre persone. Finalmente, quando già sto per rompermi le scatole e accendere la quinta sigaretta, si riparte. La stazione dei pulman é una semplice tettoia e dista dal paesino di Pocitos un quattrocentro metri. Subito mi rallegro di aver lasciato la valigia a Salta e aver optato per caricare poca roba nel borsone. (Ancora meglio sarebbe stato portare con me lo zaino. Purtroppo, il giorno prima della partenza, avevo constatato che era sporco di fango e mia moglie già teneva un muso lungo dieci metri per poterle chiedere di lavarlo ed asciugarlo al volo: meglio non calcare troppo la mano.) Il percorso verso le casette di Pocitos si snoda nei campi, luogo poco adatto per le stupide ruotine di una valigia di plastica. Attraverso quello che rimane dei binari della ferrovia che collegava i due stati. Io amo questo paese e soffro della sparizione delle ferrovie (parlerò di questo problema in futuro usando le parole del giornalista scrittore Tomas Martines). Finalmente arrivo all’inizio del paesino, sudatissimo sotto alla campera che devo per forza indossare per via della comodità delle sue innumerevoli tasche, fonte a volta di gran confusione, ma irrinunciabile. Quelle che forse negli anni ‘50 erano casette decorose ora mostrano il declino di uno stato che allora era al quinto posto nella scala delle nazioni più ricche. Il degrado ambientale e umano é desolante. Una puzza di fritto (a ragione uso puzza e non profumo) mi allontana la fame che soltanto fino a pochi minuti prima mi attanagliava, ma non ho tempo a deprimermi poiché la mia curiosità prevale. Una fila interminabile di carrettini a mano carichi di un cinque-sei sacchi di frumento (un paio di quintali) avanza a intervalli di un minuto circa verso la dogana. A spingerli sono persone minute, scure di capelli e di carnagione. Non mi sogno di fare foto. Non é la paura che mi rubino la fotocamera digitale a impedirmelo. É comunque il suo valore (500 euro) a inibirmi. Vale certamente molte decine di quei carretti, centinaia di ore di lavoro di questa gente. Il mio senso del pudore, unitamente alla prudenza, non me lo permette. (inoltre siamo ad un posto di frontiera e i militari potrebbero farmi grane, almeno nell’est europeo ante caduta del muro era così, sebbene qui non sappia come sia la faccenda) Zigzagando giungo al punto dove un militare divide gli stranieri dai locali indirizzandomi ad un tavolo dove mi attendono tre giovani gendarmi argentini. Sono allegri e disponibili. Uno mi dice di avere la doppia cittadinanza argentina-italiana e di parlare nella mia lingua. Lui tradurrà ai colleghi. Lo assecondo se pur aiutandolo poichè la sua padronanza dell’italiano é soltanto una idea. Mi chiedono dei ponti che si trovano sul retro delle banconote degli euro, anzi, mi chiedono di mostrarli se ne porto con me. Non so che pesci pigliare, ma decido comunque di assecondarli e mostro un cinque e un dieci, evitando di estrarre il cinquanta ... non si sa mai (ahi! credevo d’essere furbo ma la “estafa” sarà diversa ... ah! notate che soltanto diffido della polizia ...) Racconto loro che i ponti sono di fantasia, per non creare attriti tra i componenti l’unione europea e la cosa viene approvata all’unanimità. Mi hanno soltanto chiesto il passaporto, nessuno controlla la borsa ne mi perquisisce: sembra che soltanto a loro interessi chiacchierare con l’unico italiano passato di lì negli ultimi mesi. Dopo una ventina di minuti di amichevole conversazione mi restituiscono gli euro ed il passaporto che io metto in tasca senza aprire. Uno di loro mi accompagna fuori facendosi autoritariamente largo tra la folla e mi saluta. Adesso sono in Bolivia. Mi attendo un posto di blocco invece non incontro ostacoli e arrivo nella zona dei taxi. Mi sembra incredibile che nessuno mi controlli. Chiedo spiegazioni al taxista che mi indica l’ufficio emigrazione, del tutto oscurato a me che avevo percorso il lato della strada invaso dai camion giunti a caricare il grano dei carretti. Chiedo pure informazioni su questo commercio. É molto semplice: il frumento vale molto di più in Bolivia e l’agricoltore argentino può passare la frontiera con poco grano, meno di tot quintali senza pagare dogana. “El camino de las hormigas” (il percorso delle formiche). Mai simile pargone fu tanto azzeccato poiché una scia di grani di frumento caduti accidentalmente dai sacchi si snoda per centinaia di metri tra Argentina e Bolivia. Ogni giorno lo stesso contadino passa centinaia di sacchi poco alla volta sotto all’occhio distratto (dalla “mordida”, ovvero la tangente). La “coima”, ovvero la corruzione qui é una istituzione. Bene. Vado all’immigrazione dove il funzionario boliviano mi fa notare bonariamente che sul mio passaporto manca il visto di uscita dall’Argentina. Nessun problema: comprensivo mi dice di tornare indietro e farmelo apporre. Tornare indietro? minchia! sono almeno duecento metri di coda. Mi si avvicina uno dall’aria volpina e si propone di farmi passare davanti a tutti per trenta Bolivianos. Capisco che “dimenticandosi” di bollarmi il documento mi hanno buggerato. L’amico, chiamiamolo così, effettivamente mi fa saltare la coda e posso consegnare il passaporto in mano ad un doganiere argentino. Pochi minuti e sono in regola. Quelli si divideranno i miei soldini in tre: i ragazzi argentini curiosi dei ponti, il funzionario boliviano e l’intallazzatore. Che dire? una nuova esperienza acquisita a basso prezzo. Non mi arrabbio neppure. L’intelligenza del trucco mi rassicura: nessuno mi aggredirà visto che é assai più facile truffarmi. Continua
Julian Bolivar

Yacuiba
di Bruno Giuliano

Dal lato boliviano di Pocitos il traffico é caotico, complicato dai grossi camion e l’avanzare delle auto. Il mio taxi non fa eccezione: é un continuo zigzagare tra questi bestioni e gli altri veicoli. La regola della mano destra pare non esistere, così come la regola di sorpassare soltanto sulla sinistra. Eppure un qualche meccanismo di autoregolazione deve pur esserci. Le traettorie si intersecano continuamente e a evitare le collisioni, incredibilmente rare, sembra bastino brevi colpetti di clacson, una specie di sonar come per i pipistrelli nella notte. Lascio il confine e dopo cinque km di strada col fondo in cemento e conseguenti frequenti scossoni a causa dei giunti di dilatazione, raggiungo Yacuiba, un sito che si puó definire città. Per prima cosa compro un giornale e, manco a dirlo, mi siedo al tavolino di un bar per farmi una meritata birretta da un litro. Leggo sul quotidiano che anche Maradona sta entrando in Bolivia più o meno a quest’ora. Lui sta sbarcando dall’aereo a Santa Cruz accolto come un dio da politici, assediato da giornalisti e fans, mentre io, pur cercando di non dare nell’occhio gia mi han tirato una sola. “quien no llora no mama” Leggo questa frase in un articolo sul carattere degli abitanti di Santa Cruz, la “Milano” boliviana. É un detto popolare che udii la prima volta in una vecchissima canzone quanto affascinante canzone sudamericana. Finalmente, leggendola, capisco che significa “chi non piange non succhia” (ovvero il bimbo che non piange non richiama l’attenzione della mamma e quindi non poppa al seno materno). Tutto il mondo é paese e qui Roma ladrona é La Paz, però dignitosamente i “cruzegnos” non piangono e di conseguenza non poppano. (verbo mamar = succhiare latte materno) L’albergo che scelgo é troppo nuovo per comparire sulla mia lonely planet e sembrerebbe essere soltanto la pigrizia a farmelo scegliere, poiché devo appena appena attraversare la strada. In realtà il mio navigatore automatico, nonostante la debolezza alla vista che mi accompagna nel pomeriggio per ritornare quasi normale la sera, ha visto o intuito che la ragazza al banco della reception é di una bellezza rara e che l’hotel dispone di una postazione Internet. La figliola é anche gentile e il prezzo non é troppo alto. Le chiedo di spiegarmi come funzionano l’aria condizionata ed il ventilatore poiché non riesco ad escluderli con la pulsantiera complicata come poche. Non ci riesce neppure lei. Forse c’é un guasto nel telecomando ed allora allungo le braccia abbastanza in alto per staccare la spina ma non ci arrivo. Lei sale su una sedia, ci riesce ma traballa. L’afferro prima che cada: é il primo culetto boliviano che stringo nella mia vita. Ci facciamo una bella risata. L’incidente, chiamiamolo così, ci sblocca entrambi predisponendoci ai lunghi dialoghi che avremo durante il mio our breve soggiorno in Yacuiba. Adesso mi lavo, mi rilavo e mi risciacquo. Prima di dialogare con la cica intrattengo una fruttuosa seduta sul water. Mentre sto indugiando lì sopra suona il telefono. Eccezionale: se ne trova pure uno nel bagno. La ragazza mi avverte che é stata tolta l’acqua e che tornerà tra un’ora una volta finita una riparazione all’impianto. Vaca boya! mi ritrovo con una torta olezzante e non posso evacuarla! Apro la finestra e scendo alla all. Quando ritorno in camera non mi ricordo della mancanza d’acqua e mi ritrovo nuovamente con la panza gorgogliante e necessitosa di liberarsi. Forse ho esagerato con i Falqui. Chi ha visto del film “amici miei” si ricorderà senz’altro l’episodio del bambino e del vasetto e della sorpresa della mamma del piccolo fronte all’enormità della quantità di quella robina là. Entro in bagno a marcia indietro spogliandomi e gettando la roba come fanno le vamp nei films di Holliwood e sempre retrocedendo poso le terga sul water. Coerentemente alle mie intenzioni e alle funzioni di quest’apparato di origine anglosassone, scarico l’intero magazzino e mi alzo alleviato di qualche chilo. Mi giro per tirare l’acqua e vedo ... Madonna Susina!!!!!!!!!! Il nuovo carico sommato al precedente quasi tracima! Tengo una gran paura che al tirare l’acqua si allaghi la stanza ed inizio una manovra che potrei definire “tattica di alleggerimento”. Prendo il bicchierone che tiene lo spazzolino da denti e inizio a versare acqua ponendo attenzione. La “strategia dell’espulsione” da incerti esiti quindi rischio e tiro lo sciacquone. Sono più fortunato di Napoleone a Waterlò e tutto sparisce nel nulla. Considerazione seria: sono abituato in Europa a trovare uno spazzolone accanto al water e con questo a ripulire le tracce del mio passaggio e provo una gran vergogna a lasciarle lì. Qui in Latino America lo spazzolone te lo sogni. Forse pensano che sia un operazione poco dignitosa e che vada riservata alla servitù. Secondo me, se questi paesi sono economicamente del culo, questo fatto ha a che vederci, ma mi spiegherò meglio nei prossimi capitoli.


Giardini d'Africa
di Maria Laura Platania

Pace, a Roma, era una macellaio. Di più, era ³il² macellaio. Gli occhi celesti, globosi, sporgevano sotto la fronte larga e sbiadivano nella faccia larga, carnosa. Le mani voltavano e rivoltavano fettine, assottigliandole col piatto pesante del palmo. Era così che s¹ammorbidiva un manzo coriaceo. Non ricordo altro, non importa. Mani e occhi, questo era Pace. Augusto Pace, se la memoria non mi tradisce. Er Sor Augusto come lo chiamavano schive le signorine dopoguerra strette nei loro vestitini, le cameriere sfatte nei sinali fiorati. Il negozio der macellaro, del resto, non era per tutti. Le tasche erano larghe ma “sfonnate de miseria”. Un litro di benzina costava come un chilo d¹insalata. Fuori dar negozio c¹era il quartiere africano, monumento al regime: brulicava vita a pioggia, fomicolando voglia di ricominciare. La bottega der macellaro s¹affacciava su una Chiesa nuova, dedicata a una santa nuova, figlia del popolo e delle lotte contadine, Maria Goretti. Nuova e già sporcata dal rosso d¹un gesso che ogni notte lavorava per graffiare umiliazione e rabbia. E una mano di bianco pacificava. “Annatevene tutti quanti, lassatece piagne da soli”, spuntato una mattina di sole innaturale, quello no, nessuno l¹aveva cancellato: lì, tra le lettere storte, c¹era tutta Roma, cagna dolorante che leccava le sue ferite. Guardava Pace, il macellaio. E si sentiva l¹unico macellaio giusto della storia. E tagliava, ammorbidiva, pesava. Nutriva. E i bambini si facevano più alti, le gambette più forti mentre tiravano quattro calci a un pallone che il tempo trasmutava di stracci in gomma. E Pace diventava la pace: il tempo della vita quotidiana, del fluire dell¹acqua e del cibo in corpi sani. E Pace, il sor Augusto, e i suoi conticini della spesa, diventavano il prezzo della nostra libertà. Perché, sì, la libertà si ingoia a sorsi avidi, ma la pace si paga a rate.



Marinello Fagiani
Tema
Gli Zorri dietro una lavagna non dovrebbero mica andarci

di Davide Van De Sfroos da "Le parole sognate dai pesci" (Bompiani)

Svolgimento
Questa mattina sono levàto sù meno invèrso del solito perché potevo andare a scuola vestito da Zorro, che se era per me mi vestivo da Silver Surfer ma mezzo biotto e pastrugnàto di argento con una tavola da stiro in mano, non potevo mica uscire. Il carnevale è una festa di merda, tutti vanno a ravanare dentro negli armadi e nelle cantine per riempire di colori un mese che non ne ha di suoi. A febbraio se uno vuole vestirsi da Tarzan è ciulàto. Se uno e una vogliono vestirsi da Adamo ed Eva sono ciulàti. Quindi se proprio devono farlo sto carnevale che lo facciano in luglio che almeno fa caldo e le lavagne sono chiuse per ferie e noi Zorri siamo al sicuro. Il mio vestito da Zorro è un vestito del cacchio e non va mica bene gnanche un po... Era di mio cugino che adesso è grande. Ho dovuto metterlo altrimenti mi vestivano da termometro o da girasole) e piuttosto saltavo nel lago mentre passava l’aliscafo. Mio nonno sì che ci ha un vero cappello e lo pesta sù sia quando è giù a sgarlàre nell’orto che quando va a giocare a scopa. Quel cappello lì non si piega mica nei temporali: e se la maestra gli dava un catafìco per romperglielo lui sicuramente gli ranzava via la cràpa con una fulcinata e poi gliela dava in mano da guardare. Il nonno ha tutti i falcetti che vuole) ha gli occhi da lupo e le gambe da toro e si veste così tutto l’anno. Se vuole beve la grappa e se vuole mazza i conigli: bestemmia e guai a chi lo interrompe. E stai tranquillo che lui dietro una lavagna non ci andrà mai. Io adesso vengo qui a scuola a fare il bigolo e a dire la tabellina del nove e a dire la capitale dell’Austria e a contare quante volte hanno sfilzato Giulio Cesare o sparato al Garibaldi: ma tanto da grande farò il mago e se voglio divento un falco, anzi ho già le piume in tasca. Ho un amico grande che fa il meccanico, ma sa anche le cose che gli altri non sanno. Mi insegnerà a capire cosa pensano i pesci e a diventare un moscerino e finirti in un occhio se mi fai girare le balle. Anche lui mi dice di non tirare giù Madonne e di non sacramentare, altrimenti non mi aggiusta più la bici. Ha i poteri come il Dottor Strange e io mi fido più di lui che di tutte le maestre del mondo. Se devo diventare un pesce, voglio essere una Tinca, che ha la pancia d' oro e la schiena verde, che se ne sta per conto suo ed è timida. Tutti vanno a sfregarsi contro di lei quando sono feriti perché c'ha addosso una roba che li fa guarire: me l'ha detto il mio amico meccanico, e allora è vero. Se divento una tinca non mi vesto più da niente e non vado neanche a scuola. Se non mi mettevano l'inchiostro della stilo nella briosc, io non gli tiravo mica l’atlante in faccia a quel picio del Marchino, che poi era vestito da astronauta e aveva anche il casco... Poi appena divento un falco o una tinca non bestemmierò gnanche più... Lasciatemi il tempo, e vedrete ! Alla fine dei conti, l'unica roba che voglio dire è che gli Zorri dietro una lavagna non dovrebbero mica andarci. Il carnevale prossimo se mi devo vestire da qualcuno mi vesto da mio nonno.


NEI PRESSI DEL TAURO

di Marcello Vicchio

Perché mi trovavo là? Sarebbe troppo lungo da spiegare. Posso solo dire che avevo dilapidato l'intero patrimonio di famiglia , l'amore di mia moglie e dei miei figli, trascurato ogni amicizia e affetto per giungere dov'ero. Avevo interrogato i più famosi occultisti del mondo, setacciato biblioteche e collezioni private, seguendo minuziosamente ogni traccia che servisse a rischiarare la strada. Avevo percorso in lungo e in largo tre continenti finché avevo scovato, sulle montagne del Tauro, l'unica persona al mondo che deteneva il segreto. Non mi rimaneva più nulla, solo il mio corpo afflitto dalla scabbia e scorticato per il furioso prurito. L'addome, i gomiti, i genitali erano costellati da lunghe linee di pelle rossa ed escoriata.
Il vecchio sdentato e lercio che rimestava con un paiolo di legno una sostanza collosa dentro una pentola di rame, era l’unico che conoscesse che il segreto della trasmutazione dei metalli. Egli poteva fabbricare l'oro! Non era stato tanto il desiderio di ricchezza in sé che mi aveva condotto dentro quel tugurio, ma la sfida e gli sguardi condiscendenti di tutti coloro che mi credevano non più sano di mente. Volevo dimostrare a me stesso e a tutti quanti che nulla mi era impossibile.
Il vecchio mi guardò e disse : - E' un cattivo segreto. Nessuno è mai stato felice, dopo. Affondai le unghie lunghe e nere nelle mie carni, lasciandovi solchi sanguinolenti e trovando momentaneo sollievo al prurito. Riuscii a sogghignare. - Io lo sarò!
Il vecchio sospirò. Mi consegnò un pezzo di piombo e disse: - Allora immergi qui dentro la mano che stringe il piombo.
Obbedii e, quando la estrassi, il piombo era diventato un pezzo d'oro. Il vecchio scivolò via dal tugurio senza che me ne accorgessi : non badavo più a lui, avevo ormai altro da fare. Finalmente il segreto della Pietra Filosofale era mio! Mi asciugai una lacrima di felicità ... che tintinnò allegramente ai miei piedi. Una brillante goccia d'oro. Anche la guancia che avevo toccato era diventata d'oro, così come tutto ciò che sfioravo. La mitologia diceva che un certo Re Mida, che aveva regnato nei paraggi, un giorno aveva subito un supplizio simile. Bisognerebbe sempre credere alle leggende. Solo che per me era troppo tardi. Resistetti all'impulso di mordermi le dita dalla rabbia. Avvertii un formicolio correre lungo la schiena. Sentivo un esercito di formiche sul petto, un plotone di moscerini sulla pancia, un camion di piume di struzzo dentro i pantaloni. In nome di Dio, per quanto tempo ancora sarei riuscito a non grattarmi?


ViKKius scrive e mangia, mangia e scrive, scrive come mangia

di Bruno Giuliano

Anzi, ti dico anche l'impegno che ho stasera:

ore 19 - trasporto su Panda di don Nikkola presso località Conza
ore 20 - bicchiere d'aperitivo: Brunello di Montelepre ( località presso Conza) di Giovanni Cibukko
ore 21 - Cena. Menù : paste di casa con sugo di cacciagione A: uccelli B: lepre; lepre arrosto; cinghialetto all'aceto e cinghialetto in varie salse; costate di maiale nostrano; fave arropate ecc ecc
il tutto innaffiato con
1) Brunello di Montelepre bis
2) Rosso rubino di don Nicola
3) Lagrima di Cibukko ( sangiovese)
4) rosato di Pasqualino Crushko.

** ** **
La soffiata arrivò al maresciallo alle venti e trenta.

Ormai non arriveremo chiù in tempo per salvà u panda!
Osservò l’appuntato. L’elenco dei nomi non lasciava dubbi:

NiKKola, CibuKKo, CrushKKo, ViKKhius.
Ostrega quanti kapa! Ze una celula calabra del KuKluxKlan! E perché saran dopie?

Si domandò il graduato.

U Cucluxcanne? eh!!! chevve ve posso di marescià, a da esse come FFSS per le ferrovvie e CC per i carabbinieri ... mizzega, però carabbinieri cià le doppie bbi, micca le cci!

Conza ... all’isola di Conza s’é fermato ...

Ponsa brigadier! Ze la spigolatrice di Sapri, eran trezento e son morti, ostrega!

Trecento panda? Ma sti incappucciati non ammazzavano ai negri?

No, ora sti fioi d’un can masan ai leghisti!

Ma allora il senatore Giulliann é in pericolo!

Proprio così, quei je faran mangiar panda al posto del cinghiale e poi, crudelmente, glielo diranno!

O poveraso el senatur! Quel buon toso dal cor d’or se andrà a impicà de la vergogna! Magnar el simbul dei padan en estinsion!