Breve viaggio
L'ultima volta
Incontro

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

I racconti di Anna Maria Bonfiglio
BREVE VIAGGIO

Il cartello segnalava traffico intenso e lunghe code, ma per fortuna tutto era fluito meglio del previsto e l’auto non aveva perso velocità.
La pineta di Castelfusano le aveva riportato alla mente alcuni ricordi che credeva sepolti del tutto. Non muore mai niente del tutto, aveva pensato, non fino a quando la memoria riesce a tramandare le cose vissute. Fra i pini di Monte Pellegrino aveva fatto un giorno l’amore con Dino. Era un pomeriggio di marzo, la luce filtrava attraverso la fitta rete degli alberi e loro si erano accorti, dopo, di una figura che andava in giro spiando. Lei aveva provato disagio, si era sentita come frugata, violata, lui aveva riso: è un povero matto, non ci conosce nemmeno, cosa vuoi che gli importi. Questo ricordo era stato per lungo tempo motivo di fastidio, ma dopo le aveva procurato tenerezza e rimpianto. Ora, solo indifferenza. Era soltanto un episodio fra altri. Il tempo aveva prosciugato tante emozioni. Si erano susseguite tante stagioni, nella sua stanza si erano regolarmente alternati stufa e climatizzatore, innumerevoli volte sulla sua terrazza i cuscini colorati avevano ceduto il posto ai teli cerati.
Aveva preso dei biscotti dalla sacca posata ai suoi piedi e li aveva mangiati con avidità, poi aveva versato in un bicchiere di carta un’abbondante dose di succo di frutta. Ingurgitandolo aveva pensato che la sua dieta era andata a farsi benedire. Troppe trasgressioni, che però le davano una specie di eccitazione, mentre si diceva che, appena fosse stata a casa ,avrebbe ripreso le sue regole alimentari. Era come ritornare bambina, quando la sera ripassava i buoni propositi per il giorno dopo: niente bugie, studiare di più, andare più spesso in chiesa.
Il tempo dell’infanzia era talmente remoto che le pareva appartenesse ad un’altra persona, pure le piaceva indugiare in qualche piccolo particolare insignificante e costruirvi sopra fino al punto di non capire più dove finiva il ricordo e dove incominciava la fantasia. Erano dell’infanzia anche la paura e l’insicurezza che non l’avevano mai abbandonata del tutto, e il bisogno di una presenza fisica che colmasse la distanza fra sé e il mondo che la circondava. Questo l’aveva spesso condotta a scelte sbagliate, a volte soltanto subite: incontri, relazioni, amicizie, amanti, tutto pur di vincere la paura dell’isolamento, pur di non perdere il legame, seppure effimero, con i suoi simili. Ed era un bisogno incontenibile riempire ogni ora di ogni giorno, sfuggire al silenzio anche di un solo momento, disertare la casa, accumulare indumenti su sedie e poltrone rinviando all’infinito la decisione di mettere ordine. Anche questo breve viaggio era il risultato della sua paura, una decisione presa per non patire la lontananza da Vanni e per cercare di rinsaldare quello che sperava si potesse trasformare in un vincolo duraturo.

Era ancora tutto in gioco. Ancora due giorni, un tempo abbastanza lungo per recuperare il periodo della permanenza di Vanni a Milano. Erano stati quattro giorni insensati, lui dai suoi figli, lei dalla cugina Liliana. Quattro giorni di noia e di pensieri tristi. Il cielo sempre grigio, oscurato da intense nuvole che, di tanto in tanto, riversavano pioggia; i bambini di Liliana che litigavano urlando, le telefonate di Vanni che tardavano ad arrivare. A denti stretti attendeva di ritornare, faceva progetti rifiutandosi di tenere conto che oltre alla sua esisteva la manifestazione di un'altra volontà. Quattro giorni lunghissimi, insopportabili se non fosse stato per quel fine settimana in Valtellina dove Liliana aveva insistito per portarla. Là era riuscita a mettere da parte ogni cruccio. Tutto era nuovo e insospettato. Le case si rassomigliavano tutte, con i loro tetti di legno, le balconate infiorate di gerani multicolori, a ridosso dello Stelvio, superbo nella sua verde magnificenza. Un paesaggio da fiaba nordica, dal quale pareva dovessero apparire da un momento all’altro gnomi e folletti, così lontano e diverso da quelli della sua Sicilia, solari, bruciati dalla calura, circondati dal turchino delle acque mediterranee, soffusi di azzurro e di giallo.
Nel silenzioso torpore generato dal monotono scorrere della strada le passavano sotto le palpebre socchiuse le immagini dei giorni trascorsi, ma tutto era confuso, ingarbugliato, gli eventi di ieri si intrecciavano con quelli di due giorni prima, quello che era già accaduto si mescolava con quello che pensava potesse accadere, il tempo passato le sembrava un nastro con tanti nodi ancora da sciogliere. Si sentiva sotto l’effetto di un’anestesia.
E in quel vuoto pieno di tante sensazioni irreali le era giunta la voce preoccupata di Vanni che sospettava un guasto alla macchina.

Alla prima area di servizio Vanni si era fermato per un controllo. No, l’auto non era in condizioni di affrontare il lungo tragitto che ancora li aspettava, aveva detto il meccanico, bisognava fermarsi, un giorno o due, non era in grado di precisare, occorreva rivedere il motore se non volevano correre il rischio di restare bloccati in autostrada. Gli aveva dato l’indirizzo di un’officina e una guida degli alberghi. Vanni si era riseduto al posto di guida in silenzio, era pallido e nervoso, non si risolveva a niente, né a ripartire né a scendere dall’auto.
"Prendiamo un caffè- aveva detto lei- E’ un banale guasto, risolveremo tutto entro domani"
Dopo il caffé era andata alla toilette. Aveva guardato il suo viso riflesso sullo specchio appannato del lavabo: gli occhi erano cerchiati, i capelli in disordine, la pelle opaca, inaridita dalla polvere e dall’aria, le labbra screpolate. Aveva estratto il rossetto dalla borsa e se l’era passato più volte sulle labbra, aveva ravviato i capelli portandoli tutti indietro e si era spruzzata alcune gocce di profumo dietro le orecchie e sui polsi. Si sentiva un po’ rimessa a nuovo, in grado di affrontare il seguito.

L’albergo sul lido di Ostia li aveva accolti con una folata di vento caldo che alzava la polvere e le foglie cadute dagli alberi. Il litorale era disseminato di insegne luminose, una gazzarra di luci colorate che non riuscivano a smorzare la malinconia della sera autunnale.
Era una doccia la cosa che desiderava di più, aveva detto, deponendo la borsa da viaggio sulla sedia e iniziando a spogliarsi. Gli indumenti cadevano uno per uno disordinatamente sul letto, non si era neppure preoccupata di tirare le tende nell’ansia di guadagnare per prima la strada verso la stanza da bagno. L’acqua che le scorreva addosso le dava un senso di liberazione, si strofinava la pelle come se dovesse espellerne uno strato, come se da quella abluzione avesse dovuto venire fuori depurata, miracolata.
Si era distesa sul letto avvolta nel telo di spugna, cedendo il bagno a Vanni e aspettando che lui le si stendesse accanto. Dopotutto quella sosta forzata poteva risolversi in loro favore, aveva pensato, una pausa di distensione utile anche ad affrontare il discorso che li riguardava.
Dopo la doccia Vanni si era messo a letto cupo in volto, gli occhi arrossati. Si era allungato sul materasso silenziosamente, con lo sguardo perso dentro il bianco del soffitto.
"E’ soltanto un guasto- aveva detto lei- domani lo faremo riparare e sarà tutto risolto" Lui si era agitato e si era coperto il viso con le mani che iniziavano a tremare. "Bisognerà sostituire parte del motore- aveva spiegato con la voce che si spezzava- non è roba da poco"
"Va bene -aveva ribadito lei- è solo una questione di soldi"
Ma Vanni aveva un tremito per tutto il corpo, piangeva.
"Non ho soldi- aveva detto- ho lasciato a Lidia un assegno per tutta la scopertura del mio conto. Era nei guai,confusa, avvilita, disperata"
Aveva capito tutto: i giorni trascorsi con Lidia e i ragazzi, le telefonate che non arrivavano e lui che andava sbandierando ai quattro venti come la sua ex fosse stata gentile e disponibile,quasi amabile, come si fossero intesi bene su tutto, tanto da aver preso anche in considerazione l’ipotesi di un’eventuale riconciliazione. Tutto quello che le aveva procurato l’ansia dolorosa di una possibile rottura fra lei e Vanni adesso le appariva sotto una luce nuova, quella vera: Lidia aveva soltanto circuito Vanni con l’intento di prosciugare le sue risorse economiche, lasciandolo in preda alla sua nevrosi e alla sua labilità emotiva.
Il mio prossimo uomo, aveva pensato, saltando completamente la fase del compatimento, se mai ci sarà, dovrà essere ricco e senza problemi.
Si era alzata. Il telo di spugna le era scivolato e lei si era ritrovata nuda davanti allo specchio. Aveva guardato il suo corpo con attenzione critica. Che cosa ho che non va, si era chiesta, per attirarmi sempre addosso le storie più impossibili. E aveva ripensato al passato, a tutte le sue storie d’amore senza lieto fine e a tutte le amarezze che le avevano lasciato. Per chiudere una storia, anche la più infelice, aveva avuto bisogno di iniziarne un’altra e per questo non aveva mai capito a tempo in cosa si imbarcava. Andava avanti come nel gioco della mosca cieca, senza sapere mai di chi era la spalla che aveva sfiorato con le dita. Era stata una catena, un anello dentro l’altro. Un passaggio di testimone, una staffetta, ma al traguardo della serenità e della pienezza d’amore non l’aveva mai condotta nessuno. Tutti gli uomini che aveva conosciuto le avevano recato in dono i loro problemi, le loro situazioni pregresse, la loro instabilità, spesso la precarietà delle risorse finanziarie che aveva fatto di tutto per risanare.
Vanni guardava le sue nudità senza vederle, le mani strette al lenzuolo. Gli si era avvicinata e si era accorta che i nervi lo stavano vincendo. Allora aveva aperto la valigetta di lui ed aveva cercato il Valium. Ne aveva versato alcune gocce nel bicchiere che stava sul tavolo, vi aveva aggiunto dell’acqua e glielo aveva porto. Lui aveva seguito le sue mosse inebetito, aveva preso il bicchiere con tutte e due le mani e ne aveva inghiottito il contenuto tutto d’un fiato.
Ora mi toccherà pure consolarlo, aveva pensato, e per un attimo aveva provato un moto di compassione. Si era chinata su di lui, lasciando che i suoi seni gli sfiorassero il petto. Cercava di stabilire un contatto fisico che allentasse la tensione e riportasse le cose ad una dimensione meno greve. Lui le si era avvinghiato come ad un ceppo incontrato fortunosamente durante un naufragio. Non parlava ma si stringeva a lei e la guardava come se volesse dirle delle cose che però non riusciva a dire. Allora gli aveva accarezzato la guancia col dorso della mano e aveva detto: "Sta’ tranquillo, penserò io a tutto"
Quelle parole pareva lo avessero calmato, si era assopito e lei si era sentita irrimediabilmente sola in quella stanza estranea, in quell’ambiente anonimo che tutti gli effetti personali non riuscivano a personalizzare.

Dalla finestra guardava il mare. Era scuro ed agitato per via del vento che sollevava tutt’intorno mulinelli di sabbia. Sulla spiaggia gli ombrelloni chiusi erano piccoli alberi ischeletriti . Nel gazebo di sotto all’albergo le poltroncine bianche e rosse di resina erano poggiate ai tavoli in una posizione d’abbandono. Le giungeva, attraverso i vetri sporchi, un’atmosfera da sobborgo di periferia. Si era chiesta dove fosse finita la magia di quel luogo e se mai fosse esistita. Ora quel posto non era che un ammasso di costruzioni che avevano invaso ogni più piccola porzione di spazio. Restava solo il mare.
Sono troppo stanca, aveva pensato, tutto mi appare in una luce triste. Ritornando ogni cosa riassumerà le giuste proporzioni. Anche il viaggio, con tutte le insofferenze ed i cattivi pensieri, le si sarebbe ripresentato come qualcosa di piacevole, un intermezzo del quale avrebbe ricordato le fasi migliori. Ma non riusciva ad immaginare il seguito, tutto era ipotetico, imprevedibile, solo la sua ansia, la solitudine di tanti giorni vissuti nell’altalena del sì e del no erano una realtà immaginabile.
Il centralinista dell’albergo le aveva passato la telefonata di Vanni. Le diceva che ne avrebbe avuto per tutto il pomeriggio, ma che sarebbe ritornato per il pranzo, che prenotasse, sì, certo, al ristorante dell’albergo, era più comodo, se tutto andava bene si sarebbero rimessi in viaggio in serata. Sembrava non avere vissuto l’abbandono e lo scoraggiamento della sera prima, quella forma di muta disperazione che lo aveva consegnato al totale sconvolgimento dei nervi.
Si era alzato come rinvigorito, recuperato alla piena padronanza di sé ed aveva atteso alle consuete pratiche mattutine senza fare alcun riferimento ai fatti della sera prima. Era uscito come sgravato, senza mostrare segni di nervosismo o di preoccupazione. L’aveva abbracciata e nell’abbracciarla aveva cercato di stabilire un’intesa che preludesse ad un contatto più profondo. Come se avesse voluto aprirle la vestaglia e distenderla lì, su quel letto, nuda, e fissarvela come una farfalla imbalsamata, nell’attesa del suo ritorno.
Il vento sbatteva alla finestra, fischiava attraverso le stecche delle tapparelle e passando per gli spifferi gonfiava la pesante tenda verde.
Aveva tolto dalla borsa il libretto degli assegni, lo aveva firmato e, confidando per l’ultima volta nell’onestà e nella buonafede di lui, aveva lasciato in bianco le caselle della cifra. Lo aveva deposto sul tavolino da notte fermandolo con il pesante e dozzinale posacenere di vetro.
Al tassista che l’aspettava sotto la cupoletta di plexiglas all’ingresso dell’albergo aveva detto, con voce sicura:
"Alla stazione, prego"

(torna sù)


L’ULTIMA VOLTA

"Ho qui un assegno per lei. Le consiglio di accettarlo e di chiudere la faccenda" disse l'avvocato. Seduto dietro ad una monumentale scrivania, circondato da mobili massicci e da una serie di stampe raffiguranti cavalli di tutte le razze, mi stava consigliando una transazione con l'assicurazione.
"Non è una cifra equa -obiettò Giorgio- la signora ha fatto fronte a delle spese che vanno ben oltre la cifra che le vogliono risarcire"
"Mi rendo conto, ma le assicurazioni sono sempre molto avare. D'altra parte, se la signora non accettasse dovremmo finire in tribunale. Capirà, testimonianze, perizie…non so fino a che punto le convenga"
"Ma sì -dissi- chiudiamo la questione. Non voglio andare incontro ad altre seccature né procurarne agli altri"
Erano stati Giorgio e Livia a trovare gli espedienti per farmi recuperare una parte delle spese che avevo sostenuto a causa dell'incidente e dunque non volevo porli nella condizione di finire in tribunale.

Era una sera di ottobre ed era il compleanno di Giorgio. Avremmo festeggiato assieme, come ogni anno da quattro anni. Anche se la nostra relazione andava avanti fra scossoni e strappi, non avevamo smesso di frequentarci. Saremmo andati come al solito da "Gigi", ristorantino esclusivo con enoteca.
Alle nove in punto Giorgio suonò al mio campanello con il solito segnale: tre scampanellate a breve distanza l'una dall'altra. Quando aprii la porta mi resi conto che non era solo, con lui c’era Aldo. Ok, pensai, ha invitato anche lui. Ormai erano inscindibili, vorticavano tutte le sere nelle discoteche, nei pub, nelle enoteche, tirando le ore piccole. Giorgio si definiva nottivago, cominciava a vivere quando il sole iniziava a scomparire.
Entrarono e mi accorsi che erano un poco in imbarazzo. Non ne capivo la ragione.
"Un aperitivo?" dissi.
"Grazie, no…andiamo di fretta" disse Aldo.
Che storia era? Perché rispondeva lui e non Giorgio?
"Senti…-Giorgio accese una sigaretta- Aldo ed io andiamo a cena da Livia"
"Da Livia? Come mai? E' il tuo compleanno, l'abbiamo sempre trascorso assieme…"
"Lo so, ma questa volta è andata diversamente. Livia ci ha invitati una settimana fa'"
"Non mi avevi detto nulla"
"Mi è passato di mente"
Mi stava assalendo la rabbia, avrei voluto urlare e ricoprirlo di ingiurie, avrei voluto spezzare il suo sorriso ironico scagliandogli contro il pesante posacenere di onice del Pakistan proprio sulla bocca. Ma mi finsi indifferente.
"Bene, noi andiamo. Non mi fai gli auguri?
"Crepa" risposi. E gli chiusi la porta in faccia.
Livia era l'ultima amicizia femminile dei due. L'aveva portata Aldo una sera a Villa Chiara, dove eravamo andati ad ascoltare Mario, il nostro amico pianista. Se la contesero tutti e due e lei scivolò con indifferenza fra le braccia di entrambi, mostrando di non avere preferenza né per l'uno né per l'altro. Ci raccontò della sua vita di moglie frustrata e negletta, condizione cessata con il suo stato di vedovanza; ci parlò della figlia, brillante studentessa di filosofia con l'anima d'artista e della sua casa tappezzata di quadri del padre, da lei definito 'noto pittore ormai rincoglionito'. Aldo e Giorgio avevano fatto di lei l'attrazione della serata e cercavano di entrare sempre più nelle sue vicende personali. Da quella sera Livia si introdusse nelle nostre serate, nelle nostre passeggiate, nelle nostre partite a carte, nei nostri spuntini notturni, in una parola invase la nostra vita.
E adesso quell'invito dal quale ero esclusa. Decisi che non gliela avrei data vinta. Lasciai passare mezz'ora e mi misi in macchina. Li avrei raggiunti, mi sarei presentata a casa di Livia e in qualche modo avrei rovinato la loro serata.
Due ore dopo ero ricoverata alla clinica Salus: frattura scomposta del condilo femorale destro e trauma cranico erano le conseguenze dell'incidente. Il mio cervello annebbiato dalla rabbia aveva danneggiato i miei riflessi, le lacrime mi avevano offuscato la vista, il risultato non poteva essere che un urto pauroso contro uno dei platani che orlavano il viale omonimo dove risiedeva Livia. Ebbi comunque la forza di chiamarla col mio cellulare e chiederle che mi venissero in aiuto. Avevo rovinato la loro serata ma ne avevo pagato il conto.
Durante la degenza Livia venne a trovarmi ogni giorno, meno assiduo fu Giorgio, Aldo si rese latitante. Nel corso della mia convalescenza Giorgio ebbe modo di palesare il suo disinteresse sentimentale nei miei confronti. Era sempre più distante e le sue visite si riducevano ad un veloce saluto e ad un inutile "posso fare qualcosa per te?". Avrebbe potuto, ma ciò di cui avevo bisogno non era quello che lui era disposto ad offrirmi. Ed ogni volta che scompariva oltre la porta della mia camera il grumo che avevo in gola si scioglieva in lacrime.
Dopo che mi ebbero tolto il gesso gli chiesi se mi accompagnava a fare una passeggiata. Era una domenica di sole, ero stanca della mia prigione, ero pallida e debole, piena di paura nel compiere i primi passi. Il ginocchio mi doleva e non riuscivo ancora a piegarlo, la mia terapista mi aveva consigliato di cominciare a camminare, con cautela e possibilmente in compagnia di qualcuno.
Giorgio mi guardò rammaricato. "Mi dispiace- disse -ma avevo preso un impegno"
"Un impegno di domenica? Niente che puoi rinviare?"
"No purtroppo. Ci siamo organizzati per una gita sulla neve, sto andando via."
Frenai a stento il pianto. Una settimana dopo partì per il Marocco. Un viaggio che gli aveva offerto la sua ditta, disse, come premio di produzione.

" Allora, signora, pensa di accettare l'offerta dell'assicurazione o preferisce continuare la vertenza in sede legale?"
"Accetto" dissi. Volevo chiudere in maniera definitiva quella dolorosa parentesi. Non volevo più avere niente a che fare con quell'incidente, con Livia, con Aldo, perfino con Giorgio.
Presi l'assegno e uscimmo.
"Soddisfatta?- mi chiese Giorgio - alla fine non è una cifra misera, considerato soprattutto che è stata una battaglia ottenerla"
Annuii. Le spese erano in parte ammortizzate, ma il mio equilibrio faceva acqua da tutte le parti.
"Non credi che Livia ed io ci meritiamo una cena?" Disse Giorgio, facendo scattare la serratura della sua auto. Il suo tono era scherzoso ma l'intenzione era proprio quella di sollecitarmi un invito.
"Sì…certo- risposi annaspando- sarà un modo per ringraziarvi"
Miriam strabuzzò gli occhi quando le dissi che il sabato successivo avrei invitato a cena Giorgio e Livia. "Perlomeno sei pazza" -disse- sono entrambi la causa delle tue sofferenze. Hai dimenticato che l'incidente è avvenuto per andare a pescare Giorgio in casa di Livia? Non capisco cosa vuoi dimostrare"
"E' solo un modo per ringraziarli. Un atto dovuto"
"Capirai, con tutto quello che ti è costato l'incidente…di' piuttosto che se fossi stata più riflessiva non avresti patito quello che hai patito. I rami secchi vanno tagliati, è inutile ostinarsi a curarli, se non li recidi non ne cresceranno mai di nuovi"
La metafora dei rami secchi era la preferita di Miriam che non mancava occasione per propinarmela. D'altra parte lei era sempre stata ostile a Giorgio, cosa potevo aspettarmi se non l'esortazione a troncare qualunque tipo di rapporto con lui? Per conto mio, invece, da Giorgio mi ero lasciata convincere che, se si era conclusa la nostra storia sentimentale, non per questo doveva spegnersi la nostra amicizia.

Sapevo che quella cena mi sarebbe costata molto più del conto del ristorante. Me lo dicevano i battiti accelerati del cuore, il tremito delle mani che non riuscivano ad agganciare il reggiseno, i capelli che si insubordinavano alla spazzola. Perfino il soffio caldo dell'asciugacapelli che mi arroventava la nuca mi diceva che stavo rischiando.
Sostai a lungo davanti alle ante spalancate dell'armadio, una mano sul mento, l'altra stesa a far scorrere le grucce sull'asta per decidere cosa indossare. Livia sarebbe stata elegantissima come sempre, inutile pensare di poter competere con lei. Mi dovevo accontentare di essere 'distinta'. Scelsi pantaloni di seta marrone e casacca bianca a disegni cachemire.
Livia aveva superato se stessa: tuta in seta blu notte, parure di turchesi ai lobi e al collo, sguardo torbido nel viso squadrato incorniciato dal carré ramato. Mi sentii una servetta vestita a festa. Ma Livia non era donna che lasciasse trasparire complessi di superiorità, anzi, si dichiarava depressa e perseguitata dalla sfortuna per essere rimasta vedova di un marito che non l'aveva mai soddisfatta né gratificata. Che le avesse lasciato una ragguardevole posizione economica era un fatto marginale che a sentir lei non la ripagava di un passato di frustrazioni.
La cena fu il supplizio che avevo presagito. Giorgio si dedicò quasi esclusivamente a Livia che raccontava dei suoi viaggi, delle sue amicizie, delle serate in discoteca, delle favolose pietanze che sapeva cucinare. Io aspettavo solo che tutto finisse al più presto e mi chiedevo se non avesse avuto ragione Miriam a darmi della pazza per non essermi risparmiata quella soverchia tortura.
Alla fine Gigi si avvicinò al nostro tavolo recando con sé una bottiglia di Retablo, versò il liquido rosso nei bicchieri e propose un brindisi. "All'amicizia" disse. Accostammo i bicchieri facendoli tintinnare.
Lasciammo Livia a casa e proseguimmo verso la mia abitazione.
"E' stata una bella serata -disse Giorgio- grazie"
Non risposi.
Davanti all'ascensore, mentre stendevo la mano per salutarlo, lui disse: "Vuoi che dorma con te, stasera?"
Una vampata al viso, un pugno allo stomaco, uno smarrimento…che stava succedendo? Perché dopo tanta distanza e tanto disinteresse Giorgio si riavvicinava a me?
"Che significa…?- chiesi - hai detto che fra noi poteva sopravvivere solo l'amicizia"
"E invece non è così…"
Scossi più volte la testa. Forse il vino mi stava facendo uno strano scherzo. Mi sentivo confusa ed esitavo. Intanto Giorgio saliva con me, entrava a casa mia, nel mio bagno, e si spogliava, si ficcava dentro al letto e mi abbracciava. Sentivo l'antico calore percorrere la mia pelle, e riaffacciarsi il mio desiderio, dimenticavo tutto il male che avevo ricevuto e mi dicevo lo sapevo, lo sapevo che non poteva finire…
Giorgio mi sovrastava, in ginocchio fra le mie gambe che si spalancavano per accoglierlo. Vedevo la sua erezione, il suo sesso proteso verso la mia fenditura mi toccava, si strusciava contro la mia carne procurandomi un piacere dimenticato. Improvvisamente il suo pene si afflosciò e ritornò ad essere un attributo che non mi apparteneva.
Giorgio stramazzò al mio fianco e fece in modo di darmi le spalle. "Non posso" disse.
In quel momento mi fu tutto chiaro: “Era Livia che ti volevi scopare” Pensavo che il dirlo mi avesse liberata invece sentivo più che mai il senso dell’umiliante realtà. Ero stata davvero ingenua ma sarebbe stata l’utima volta.

(torna sù)


INCONTRO

Era bastato il gesto.
"Posso?"
E il dorso della sua mano destra aveva sfiorato la mia guancia. Un gesto delicato, quasi timido, che non poteva dirsi neanche carezza. Uno sfioramento lieve, ripetuto, su e giù sulla pelle, quasi una foglia che staccandosi dal ramo indugia nell'aria perché non conosce il posto dove si poserà. Vicini e lontani, ci guardavamo negli occhi in silenzio, mentre ancora la sua mano scivolava sul mio viso, ed io mi sentivo nuda e vulnerabile, esposta a quel gesto che mi inteneriva e mi riportava a dolcezze perdute. Lasciarsi andare, scrostare la ruvida scorza nella quale il passato mi aveva avvolta, dimenticare gli anni, l'età, le condizioni; dimenticare la paura, la sofferenza, l'abbandono, tutto ciò che mi aveva relegato in un angolo della vita, rintanata, incappucciata, con i gomiti alzati ed i pugni stretti alle orecchie per non sentire nessun richiamo.
La sua mano si attardava ancora nel gesto di tenerezza. Muto, solo i suoi dolcissimi occhi castani parlavano, chiedevano risposte. La sua bocca era una finestra che aspettava di essere dischiusa, una finestra alla quale sarebbe stato bello affacciarsi.
La mia mano si mosse verso il suo volto, lo sfiorò. Le dita si imboscarono fra i peli della barba, salirono a circumnavigare i contorni delle labbra, si diressero verso il lobo del suo orecchio. La bruna cartilagine mi suscitò il desiderio di un piccolo morso. Con tutte e due gli indici disegnai un cerchio attorno ai suoi occhi che lui languidamente chiuse.
Stavamo l'uno di fronte all'altro, ancora il silenzio permeava l'aria.

"Ciao,sono Nino"
" Io sono Nadia,piacere"
" Vivo a Palermo e tu?"
"Anch'io"
Sul quadratino bianco che si era disegnato sull'azzurro del desktop le parole si affacciavano in sequenza. Sotto, su di una striscia, appariva l'avviso: Nino is typing a message.
"Sei sposata?"
",Non più. E tu?"
"Ancora"
Una pausa. "Che lavoro fai?"
"Segretaria presso un'associazione "
"Interessante. E di cosa vi occupate?"
"Organizziamo manifestazioni culturali:convegni,dibattiti,conferenze…"
"Io lavoro in una banca, al viale della Libertà. E il tuo ufficio, dove si trova?"
"A piazza Mordini"
"Siamo vicini"
Le solite inutili informazioni. Un pretesto per un approccio qualsiasi, un modo come un altro per riempire un quarto d'ora di vuoto. Non c'era neanche fantasia.
Nino is typing a message…
"Sei al lavoro adesso?"
"No,sono in pausa"
"Anch'io. Posso offrirti un caffè?"
"Grazie,no"
"Perché no? E' solo un modo per conoscersi"
"Non ho voglia di fare nuove conoscenze"
"A me invece fa piacere incontrare gente nuova"
"Adesso devo andare,ciao"
"Ciao,ci risentiamo?
"Può darsi"

Buio. Un velo di buio steso sul mio corpo. Rifiutato, nemico a me stessa, un corpo che nascondevo, che avvolgevo nel primo panno a portata di mano per non sentire l'algida carezza della solitudine. Dai muri trasudava silenzio. Solo un cane abbaiava nel cortile, alle sette in punto di ogni sera. Anni. Tempo passato a segnare di sé tutto il bello che avevo avuto nel cuore. Tempo senza ritorno. Al suo insensato fluire mi ero consegnata senza amore, senza pietà verso me stessa ed esso mi accerchiava senza abbracciarmi, freddo e indifferente. L'assenza assorbiva ogni energia, mi risucchiava dentro la sua spirale perversa. E risultava vano ogni tentativo di riempirla quell'assenza, un' inutile prova, alla quale mi sottoponevo per provare a me stessa che esistevo, e che alla fine risultava una ridicola parodia.

Sul quadratino bianco lampeggiava un segnale. Nino is typing a message…
"Ciao, posso offrirti un caffè?
"Se ci riesci…Puoi attraversare il video"
"Dai, fissa tu l'appuntamento"
"Non mi piace il caffè"
"Allora un gelato"
"Forse…vedremo"
"Ci sentiamo al telefono?"
"A che serve?"
"Vorrei sentire la tua voce. Com'è la tua voce?"
"Roca,per via delle sigarette"
"Adoro le voci roche,sono sexy"
"La mia è solo roca"
"Lascia che lo decida io"
"Non voglio"
"Sei ostinata,ma io lo sono di più. Perché non vuoi?
"Non voglio complicazioni, la mia vita è già abbastanza incasinata"
"Complicazioni…per un caffè…"
"Anche…sono troppo vulnerabile…mi conosco"
"Basta solo lasciarsi andare…"
"Io non mi lascio andare, mi consegno…"
Sulla finestrella si andava componendo il mio numero di telefono.
Due telefonate. La sua voce soffiata, il tono pacato, convincente. La mia voce calda, avvolgente come una sciarpa di velluto (così disse), ma che cercava di differire.
"No,oggi non è possibile"
"Allora domani, alle 17"
"No, giovedì,alle 18"

Era bastato il gesto. E mi sembrava di averlo sempre atteso. Uno sconosciuto, un uomo che entrava per la prima volta in casa mia e del quale non riuscivo a diffidare. Quelle sue mani eleganti, dalla pelle scura e sottile, mi davano i brividi. Avrei voluto sentirle su tutto il corpo. Da quanto tempo non provavo questo desiderio? Chiusa nel buio della solitudine, non avevo accolto nessun richiamo, avevo ignorato ogni sollecitazione. Ed ora da questo sconosciuto avrei accettato tutto. Senza riserve,senza esitazione, senza paura.
Le nostre dita si intrecciarono. Lentamente condussi la sua mano sul mio seno e lui diresse la mia sul suo sesso. Non c'era lussuria ma una dolcezza estrema, uno sfinimento. Silenzio, solo i nostri occhi parlavano. Ed era uno struggimento quel volersi senza dirselo, quel cercarsi senza fretta.
Mi sorprendeva il mio arrendermi ai sensi. Una vita vissuta nella convinzione che solo l'amore generasse il desiderio e legittimasse il sesso. Ora tutto si capovolgeva: era il mio corpo che chiedeva attenzione, era il desiderio che mi inviava i segnali di una possibilità d' amore.
Che cadessero tutte le barriere, via dalla prigione dei falsi convincimenti.
La sua nudità m'intenerì, il suo sesso mi travolse: bruno, imponente, leggermente arcuato. Il mio sguardo si perdeva nella breve superficie del suo corpo e sentivo che era quello che volevo,quello e niente altro.
Le mie mani si strinsero attorno al suo collo. I nostri fiati erano vicini. La sua lingua sapeva di mare ed io ne assaporavo il gusto con voracità. Poi sarebbero venute le parole.

(torna sù)