I racconti di Kosta (Costantino Simonelli)

LA MULTA

La vedo, di scorcio, rientrando e chiudendo il portone di casa. Sta nella cassetta delle poste con l’odiosa, inconfondibile posa che hanno assunto certe cartelle della SRT. Beffardo e tragico messaggio meccanografico, invito- obbligo ad ottemperare ad un pagamento in tempi rateizzati ma la cui prima scadenza prossima ti è quasi già addosso . Se non adempi subito ti è già diventata "mora" . Sapore d’un frutto selvaggio, di rovo e dolce, ma che nell’accezione tributologica del termine, può diventare salata.
La sfogli sfuggentemente Ma ti colpisce una cifra iperbolica da pagare in unica soluzione. Con una scadenza a ridosso del poco più di domani. Leggi con rabbia il resto. Fatto di cifre, che fanno riferimento a numeri, che ti affidano ad una esplicazione di codici in sequenza numerica tra i quali affiorano finalmente lettere: CONTRAVV. COD. STRADA. A COSCO LUCIA
Capisco. Anzi, realizzo. E’ una multa non pagata. Di mia moglie.
Il primo sentimento è di offesa. Il secondo è di rabbia. Il terzo non è proprio un sentimento, piuttosto un coacervo di sentimenti liberati tutti insieme in una imprecazione. Secca., e , a modo suo, inconfondibile. Come è inconfondibile il grido del contribuente, (adempiente o moroso che sia) quando si accorge che gli si sta strizzando, con mani anonime ed impietose, l’ultimo goccio dal portafogli.
Una multa. Del 1996. Non pagata ! Di duecentosedicimilalire! Raddoppiata nella "zona Cesarini della prescrizione, con gli ammennicoli amministrativi e burocratici, diventata di quattrocentoenovemilalire!
Cosa avrà fatto mai di tanto grave mia moglie? E perché non me l’ha detto? Sa allora nascondermi qualcosa?Mia moglie interrogata, cade dalle nuvole. Con una costernazione sua che aumenta la voglia miadi sapere il dove e il quando e il perché. E la cartella è così laconica. Non ti da un posto di riferimento,neppure una data precisa di come s’è consumato il fatto. Solo quella data di scadenza assolutamente prossima, che assomiglia quasi ad un ricatto, ad una minaccia d’ un "cravattaro" che ti chiede il "pizzo".
Riorganizzi la mente offesa e stravolta. E ti ricordi di un amico Vigile Urbano a cui affidare lo scarno carteggio perché possa risalire alla fonte di uno straccio di verbale che ti dica se e perché e per chi devi pagare.

- Fai parte delle seimila.
- Delle seimila che?
- Delle seimila multe mandate a pioggia. -Capisci a me – dice in un campobassano ami-
che michevole eppure strascicato dall’imbarazzo -.
- Ma io quel verbale non l’ho ricevuto… Nessuno me l’ha notificato.
- O l’hai ricevuto e ti sei scordato di pagarlo… Capita!

Pensavo convintamente che tanta posta inutile arriva a casa; che nei meandri di essa e dei pensieri qualcosa di importante poteva essere finito inavvertitamente nel secchio della spazzatura.E il mio animo che era già sui blocchi di partenza della rivolta, non cominciava neppure la corsa; si rialzava sconsolato e dondolando il capo in un atto di diniego di se stesso, come di chi stesse facendo una falsa partenza. Capovolgendo la rabbia per un creduto sopruso, in sensi di colpa.
E la mattina dopo ero pesto, dominato da un sentimento di impotenza rispetto ad una folla di obblighi incompiuti, di rate scadute, di tasse non pagate. Carte a folate avevano tagliato a fette i miei sogni .Anche mia moglie, io svegliandomi più volte e rigirandomi verso di lei, mi sembrava una complice di contravvenzioni alla regola. La mia dolce moglie colpevole di non saper parcheggiare la macchina come si deve.

Sul tavolo dello studio mi ritrovai il risultato preciso e asettico della ricerca del mio amico Vigile Urbano: Fotocopia del VERBALE N.9191- DEL 2-12-1995, ORE 12,05. LOCALITA’ VIA INSORTI D’UNGHERIA, " Parcheggiava l’ autovettura sul marciapiede".
Fui saziato e abbeverato della mia voglia di sapere. Quasi contento perché scagionava mia moglie da qualsiasi intrigo. Intorno a quella via c’era il mio studio ed abitavano buona parte dei miei parenti.Ancora più contento perché la storia di quella multa mi era ,come in un lampo, tornata alla mente; come una cosa saputa, raccontata da mia moglie come l’ennesimo evento persecutorio d’un Vigile Urbano
coi baffi umbertini d’un giustiziere che aveva spiato per giorni e giorni le sue mosse.
Io conosco di vista quel Vigile. E conosco bene mia moglie. E come parcheggia lei. E come punta certi parcheggiandi lui. In virtù di questi elementi identificativi, ritornando a casa mi si aumentava addosso la convinzione che quella multa io l’avevo già regolarmente pagata. C’era però l’angoscia che coglie gli innocenti incapaci di trovare la prova della loro innocenza. Che doveva essere una carta, una ricevuta attaccata con una spilletta metallica all’originale di quel maledetto verbale numero novemilacentonovantuno. Che scagionava me, mia moglie e…
Io l’avevo vista già quella carta, quel numero.
Eppure entrando a casa mi chinai in ginocchio, come in un atto di devozione e di propiziazione, di fronte a quella austera cartelliera che nei due scomparti inferiori conteneva il carteggio ventennale di me soggetto pagatore. Con poca speranza di tirare fuori da quella caterva di cose atti e aliti di vento già pagati, quella ricevuta che mi avrebbe evitato l’umiliazione di pagare con doppia e tripla mora una cosa già pagata.
Sguainai lo sguardo più attento. Dietro gli occhiali pile di carte si assottigliavano. E la speranza di trovarla pure. Ma non completamente il desiderio di chi vuole aver ragione.
E alla fine la trovai. Cacciata negli ultimissimi piani di quella fila infinita di gabelle già esatte La confrontai, attaccata ancora con la spilla metallica a quel verbale originale.
Uguale uguale, come due gocce d’acqua, alla fotocopia che il mio buon amico Vigile Urbano mi aveva procurato. Pagata a tempo debito l’11 aprile del novantasei.
Sorrisi. O risi? Certo che subito dopo una decina di madonne si saranno chieste tra loro chi di loro avessi chiamato.
Salvo dall’angoscia esistenziale di sentirmi nel torto più lercio che fa la differenza tra un buon cittadino ed un evasore, non ebbi tempo di gioire del riacquistato possesso della mia dignità che mia moglie, alleviata anch’essa d’una colpa forse solo rimandata, mi gridò dalla cucina:
- "Fai qualcosa!"
- "Chè cosa ?"
- "Un esposto all’autorità".

Io , se avessi potuto, in quel momento all’autorità gli avrei fatto cacare vermi e sangue. Ma l’auto-rità non ha un culo. Per te almeno, non ha un culo. Resta una creazione eterea della mente inculcata in tenera età dall’educazione proba ed ossequiante dei tuoi genitori. E pertanto virginea e asessuata.
Lei, mia moglie, è la persona più istintiva e più pulita di questa storia.
Aveva parcheggiato il "musetto" della sua "Panda" sopra il marciapiede.
E non è detto che non lo faccia più.
Troverà ancora zelanti appiccicatori di verbali. Ed esattori zelantissimi che manderanno bollette a pioggia, come strali, come bombette ad orologeria depositati legalmente nel bassoventre di contribuenti prostrati, quasi già resi eunuchi dalla convinzione che pagare in silenzio è sempre solo parte d’un debito contratto alla nascita con l’autorità.
Gli evasori seri, quelli no. Quelli continuano a coniugare il loro verbo nei tre tempi.

Cambio tonalità al racconto.

Lei, mia moglie, è la protagonista più istintiva e più pulita di questa storia.
Ha parcheggiato il musetto della sua "Panda" sul marciapiede, uno qualunque di questa città dove ormaila mattina si esce buoni da casa e, prendendo la macchina, ci si incattivisce per strada, provando a marcare il vicino di fila, e quello davanti, e quello di dietro, per provargli a sficcare una distrazione, un assenso-consenso per passargli davanti, perché ti devi canalizzare in una certa situazione dove ti aspetti di trovare un semaforo che invece è spento e allora c’è il Vigile che se è sveglio ti riesce a calcolare la portata del traffico ma sennò agevola l’ingorgo con fare incazzato quasi napoleonico come se dicesse che sei tu che non capisci i suoi gesti che sono elementari eppure maestosi, pavoneggianti un fatto che qui non si va avanti, non si procede non si arriva all’ora in quel posto dove a quell’ora saresti dovuto già stare e invece picchieresti sul clacson volentieri se non fosse che non vorresti sembrare maleducato ma se picchiano altri dietro di te volentieri lo fai anche tu perché le migliori proteste sono sempre quelle di massa dove tu anonimo ti puoi sfogare e non è detto che poi non siano le più sentite perché possono arrivare fino al sindaco certe strombazzate di traffico che durano più di mezz’ora e se ci arrivano ti danno quasi l’idea di partecipare ad una giusta protesta popolare senza pensare che poi io senza accorgermene sto girando e girando e non mi ricordo più dove dovevo andare tanto che mi chiedo cazzo ma perché ho preso la macchina per andare dove non so più dove devo andare visto che adesso se deciderò di fare quattro passi a piedi questa fottuta macchina dovrò pure parcheggiarla da qualche parte e a guardare mi sembra la cosa più difficile che mi è capitata di dover fare da qualche anno a questa parte anche se adesso mi dicono che ci sono i parcheggi a pagamento ma sarà poi vero che la gente sa usarli e stare mezz’ora e poi andare via e lasciare spazio agli altri oppure sono tutti residenti o abbastanza ricchi in questa città che se ne fottono di abbandonare pure per il Corso la macchina parcheggiata duemilalire ad ora per cinque ore e noi che giriamo e giriamo e adesso adesso intravedo lì in mezzo ad una fila di macchine parcheggiate a spina di pesce un vuoto caspita ma dedicato al posto riservato ad un handicappato che io rispetto cazzo ma in questo momento mi dispiace ma che c’entra se per legge hanno dovuto fare quaranta posti nella città come questi però loro sono di meno perché togli quelli che non escono mai perché sono troppo troppo handicappati e togli quelli che la carrozzella non ce l’hanno quelli che non ci hanno nè la macchina loro né quella dl Comune quando cazzo escono per occupare tutti questi posti riservati e però se mi ci metto mi sembra di fare una cattiveria proprio a loro invece che farla a quelli che si fanno belli che i posti per parcheggiare ci sono per le persone handicappate ma non ci sono per quelle normali.
Curiosamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo divenuto poi anche un film il cui contenuto è anche abbastanza diverso da quello che l’immaginario popolare ha adottato come simbolo adottando il titolo. Giungla d’asfalto.
Per dire tutto quanto di nefando ha creato la civiltà delle automobili.

BRRRRRRRAMMMMMM e PPARAPARAPERO!!!!
Mi sono incazzato per davvero. Freno. Mi fermo. Scendo. Rificco la mano nell’abitacolo per suonare a festa, senza motivo alcuno, per l’ultima volta il clacson. Mi ficco le mani nella tasca e decido di mettere nella mano dell’amico parcheggiatore una grossa manciata di punti e di virgole.
Che decida lui come distribuirle nel racconto precedente che ne è mancante.
E, soprattutto, gli do in affidamento a vita la macchina. Lui pare non credermi.
Ma io lo convinco.
E lui si sente obbligato a restituirmela: "Quann’ vulit vuje , dotto’ ".
Io m’incammino a piedi e i miei piedi subito provano a prendere a calci una lattina di Coca Cola con la doppia carambola di Altafini. Piede desto, piede sinistro e poi ancora destro, a fregare il portiere!
"Quiss’s’è ‘mpazzut’ " ho idea che mi sentenzi dietro le spalle Giovanni il parcheggiatore , dondolando sconsolato ed incredulo la testa e buttando per terra quella manciata di punti e di virgole.
Che poi, con il piede pesta con rabbia , come un agglomerato di fastidiose formiche
Macchine incolonnate viste dall’alto.

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L'espianto

Forse prima della frenata non avevo capito nulla nemmeno io.
Così, improvvisamente sorpresomi a battere forte ed incessantemente e senza quelle pause che di solito mi aiutavano a capire la situazione, a riflettere.
Una luce di fari spalancata sulla visiera del casco di Nicola. Un rivoltarsi come dentro un vaso che rotola, un rumore di vetri rotti, un botto. E la motocicletta che ballonzola sulle gomme e poi scivola giù per la scarpata.
Come un clown colorato che esce di scena.
Per un momento lunghissimo pensai che tutto fosse finito anche per me. Come se ci fosse stato un cortocircuito con una scintilla e poi il buio assoluto. Nicola era scivolato anche lui nella scarpata, dalla parte opposta della motocicletta.


La prima sensazione che ebbi fu quella di ricominciare a salire delle scale con passo lento lento e leggero leggero. Tanto lento e tanto leggero che ero in dubbio se quell' azione fosse reale così da produrre un qualche movimento, un qualche rumore..
Poi però, progressivamente ,quelle sensazioni di movimento e di rumore diventarono più nette, più efficaci. Come se quelle scale portassero in cima ad un campanile dove udivo il rintocco di una campana, pieno, forte, quasi assordante. Ero io che avevo ricominciato a battere, a sentirmi riempito e svuotato. Riacquistai il pieno possesso di me solo qualche minuto dopo. Ma la
gradevole consapevolezza di essere vitale, era turbata dall'immagine di quel rivolo di
sangue che , scivo-ato dall'angolo dell'occhio, s'era già raggrumato all'angolo della bocca di
Nicola. Forse il cuore qualche volta parla con l'anima, forse no. Forse vive solo della volontà del cervello e ,quando questo è muto, si sente spaurito, perso. Ma proprio perché non mi rassegnavo a quel vuoto intorno, a quell' involucro silenzioso che era diventato il corpo di Nicola, mi ricordai di tutto il chiasso che avevamo fatto insieme . E gridai che Nicola non era morto, non era morto. Che poteva rialzarsi e che il suo primo pensiero sarebbe stato quello di riprendere la motocicletta nella
scarpata, riallacciarsi il casco intorno al collo e ,pigiato il pedale, rombato al massimo il
motore con due movimenti di andirivieni del polso, correre a trovare Maria. A raccontarle
che aveva visto un incidente incredibile in cui anche lui, per evitare una macchina, si era pure sbucciato un ginocchio . Avevo gridato così forte tutto questo che ,tra il rumore assordante di
sirene di autoambu lanze ed un vociare intorno del perché e per come, qualcuno mi ascoltò per
davvero e confermò che Nicola non era ancora morto.
Corremmo in Ospedale con una corsa piena di premure e di speranze in cui l'ascolto di me era diventato incessante, quasi estenuante, alternato solo dal sollevare le palpebre di Nicola che pareva continuasse a dormire .
E Alla fine arrivammo.

Le luci di una sala di Rianimazine in cui, su uno schermo verdognolo, impulsi biancastri spiavano la tua efficienza e , tra una miriade di fili e tubi, ogni tanto qualcuno passava per controllare se continuavi a respirare come volevano loro.
Fuori, schiacciati con il naso contro il vetro, i genitori di Nicola, il fratello e Maria spiavano anche loro ,tra le lamine della veneziana, un qualche segno di vita. Quando per qualche minuto entrava la madre , provava a parlargli accarezzandogli la vena della mano dove entrava l'ago della fleboclisi. E spingeva il dito da giù a su per quella vena, come per spingere, insieme alla medicina, qualche
parola, una traccia nel percorso dei ricordi, perché arrivasse chissà dove. Ma poi finiva per piangere e gridare e una buona infermiera doveva accompagnarla fuori. Anch'io vedevo scorrermi le giornate addosso e guardavo Nicola da dentro e provavo a stimolare a suon di battiti i suoi muscoli e , con questi, i nostri ricordi comuni che poi erano tutti , ma proprio tutti, quelli che avevo io e che aveva o non aveva più lui. In quei giorni di assoluto silenzio i nostri episodi più tristi glie li avrò raccontati come favole e frottole, e i nostri momenti migliori come un'apoteosi da festeggiare con una "volata" - dicevamo noi- sulla motocicletta.

Dopo diciotto giorni di questa attesa ,qualcuno dei medici incominciò a chiedere, prima timidamente, poi sempre più insistentemente, cosa fare del corpo di Nicola. Qualcuno parlò di trapianto così dolcemente persuasivo che ci accorgemmo che tutti noi non aspettavamo altro .
Perché Nicola non si sarebbe svegliato più.

Lunedì 18 di aprile alle ore 9 , due calde mani mi presero e mi posero, come bendato, come bendano un sequestrato quando lo liberano ma non vogliono fargli ricordare nulla dell'immediato passato, in un contenitore frigorifero. Lunedì alle ore 16 dello stesso giorno altre mani mi posero e sentii di riacquistare calore quando tornai a fare quello che avevo fatto da sempre. Battere per produrre vita.
Come un anonimo operaio della vita.
Ora il mio si chiama Giuseppe ed ha due splendide figlie alla cui ansia e alla cui gioia nell'averle, non ho partecipato.
Ma confido nell'emozione che lui avrà nel vedersele andare spose.
Per ora, non guida la motocicletta. E questo, un po' mi manca.

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IL JOYCE DI ULISSE

Di tre ore ad Ulisse erano rimasti solo quindici minuti per poter dire cosa pensava di Joice.
Se l’era preparato tutto questa volta il compito del concorso.
Tutti gli autori del novecento.
Con quell’aria di studente che gli pesava ancora addosso , e che , a trentaquattro anni, sembrava ancora non averlo abbandonato.
Quattordici mesi a cambiare idea, leggendo, su tutti e su tutto.
Quattordici mesi ad ascoltare cosa ne pensavano gli altri.
Quegli opportunisti che dicono sempre di sapere tutto , quelle sanguisughe
della lettura presunta, gli antropobibliocefali in colletto inamidato, che , per
loro il pensiero, leggendo, è come un segnalibro.
Con Giacomino no , suo caro antico e minuto compagno di banco.
Con lui si parlava di donne, di seghe e...
“Che stai facendo?”
“Mi esercito alla vita”– aveva detto, buttando la sigaretta nel bidè e ritraendo la mano e gettando all’aria il giornale dove Magdalena ciancicata offriva, non proprio di nascosto, ma complice, zizze e culo.
Se fosse stata vera e non di giornale, Magdalena si sarebbe incazzata e glie ne avrebbe dette quattro alla mamma di Giacomino.
Ma Giacomino era rimasto solo seduto ed immobile. Se durava ancora la scena, il cesso l’avrebbe inghiottito, per togliergli il disturbo della vergogna.
E , tirato lo scarico, nulla più di lui.
Eppure resistette.
E ci aveva provato ad estenderlo tutto quel suo senso di colpa. Ma due schiaffoni in faccia dati dalla mamma glielo avrebbero azzittito per sempre quel suo senso di tutto.

Che dici Giacomì , sto cazzo di Joyce come lo interpreto?
“E’ nu strunze pure isse” – dice, leccando la bocca della settima
Birra Peroni – “e’ nu strunz’ pure isse.”

I minuti erano rimasti dodici. Doveva scrivere qualcosa Ulisse
su Joyce . E lo doveva fare in quei dodiciminutirimasti , che andavano
di fretta.
“Tic tac., tic tac”
Pare una fesseria questo “ tic tac” ma un certo tempo limitato fa così.
Se facesse “tic toc” o “toc tic” si potrebbe pure discutere, si potrebbe ricorrere pure al TAR, magari alla Cassazione: “ perché gli orologi da polso non fanno tutti lo stesso identico rumore?” E’ la disuguaglianza o la relatività del tempo che ci condanna?” Fanculo , il tempo è proprio una
stronzata. Quello per questo scritto di letteratura, di più!

Dieci minuti .
Per scrivere qualcosa di Joyce.
Ulisse s’immedesima e comincia a stracciare tutti gli appunti arrotolati
che riguardano Svevo e la sua coscienza del piffero, la sua voglia di smettere di fumare, come se fosse un modo per cambiare la sua condizione di perturbato, incappato in un matrimonio di necessità.
Avevano detto che di tema usciva questo.
- “Sta sicuro che esce Svevo”.
- “ Sì, Svevo” … venti sigarette al giorno per trent’anni. E ogni giorno provi
a pensare che sia l’ ultima, l’ultimo. Ti vedi, t’immagini certi inguacchi
nei polmoni; eppure, dopo, solo la mattina dopo, dopo il caffè, quella tua bocca ti cerca qualcosa - tu dici, tu lo dici - come il ciuccetto da bambino; una ricerca d’affetto , una mancanza d’affetto . E’ la vita adesso che ti manca d’affetto. Pure se , lo devi riconoscere, qualcosa t’ha dato. Cavolo se te l’ha dato.
E Ulisse si mette a pensare a Maria che l’aspetta di fuori, ancora più minuta di sempre, anche più minuta di Giacomino, quasi una miniatura
di persona, contrita e quasi pregante in quella sua assurda devozione abnegata per il suo professore decano dei precari. E quello sproposito di
Luigino, nato solo nove mesi e tre giorni dopo il matrimonio, – mo’ fanno sei anni – che le ronfa in petto scotendo tutto il suo cespuglio di riccioli castani. Anche lui ad aspettare fuori.
Otto minuti.
Otto minuti, quel che rimane per contendere al foglio rigorosamente protocollo gli spazi dell’ultima facciata, quelli essenziali e decisivi, rimasti
ancora vuoti e da conquistare penna in pugno, con un assalto finale
alla baionetta, alla ricerca d’un senso che possa compiacere la Commissione ed allungare le speranze che questa sia la volta buona.
Caro il mio buon signor Bloom, che giornata memorabile quelle diciotto ore
del 16 giugno del millenovecentoequattro, eh?!
Ti sei impicciato in più cose tu in quella giornata che io in tutta la mia vita.
Che degustazione magistrale ne hai fatto della vita, della sua sorprendente , irrinunciabile monotonia. Ecco, il godimento della monotonia, le cose già vissute uguali per tutti ma mai ripensate, mai finite di collaudare del tutto.
La monotonia che può spingere a riprovare le ali di Icaro. Come se non ci fosse un tempo per salpare ed un tempo per approdare.

Ulisse, senza quasi accorgersene, s’era scaraventato sul foglio con la foga dei quattro minuti restanti, dimenticandosi però via via del tempo e dello spazio. Soggetto solo all’estro del suo quotidiano, misurato , finalmente, con la misura del quotidiano del signor Bloom.
E scrisse, scrisse.
Non si può dire quanto scrisse in quei due minuti restanti.
Come se in quei due minuti restanti si fosse accorto di colpo che sarebbe potuto restare per una vita a scrivere della sua vita e di quella del signor Bloom.
Tanto che un ora dopo, forzuti bidelli dovettero trascinarlo fuori dal banco con lui col foglio in mano e con la penna che ancora provava a scrivere di Giacomino, di Maria e di Luigino. E , forse, anche qualcosa di Joyce.

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ANGELINA


Gesualdo era rimasto un attimo perplesso quando il sacerdote paffuto gli aveva messo nella bocca
il pane di Dio.
Stava in ginocchio di faccia all’altare e non se ne voleva andare più.
Era come se quel pane volesse assaporarlo di più.
Il sacerdote di fronte s’era spazientito un poco.
Ma lui è come se gli dicesse: “aspetta mo’ che ti dico cosa sto provando”
E si rigirava l’ostia santa nella bocca e la stava facendo sciogliere tra lingua e palato.
Erano decine d’anni che non si comunicava. Probabilmente non lo avrebbe fatto ora e non lo avrebbe fatto mai più. Se non era che gli era morta una figlia di diciotto anni solo tre mesi prima.
Tre mesi prima. Tanto ce n’era voluto per chiedere un qualche aiuto ad uno grosso assai.
Così succede. E quando succede così, può capitare di tutto. Pure che t’aggrappi alle premure
d’un Dio che ti promette d’accudire al meglio quella tua figlia nell’Aldilà.
- Ma tu ci credi in Dio – gli aveva sparato in faccia di brutto il prete nel confessionale solo mezz’ora prima.
Gesualdo non voleva barare, ma per sua figlia non voleva lasciare nulla d’intentato.
- Sì, ci credo – aveva risposto.
Adesso quella dietro a lui, faccia all’altare , una donna in fazzoletto nero, gli stava toccando con la mano la spalla sinistra, leggermente. E dolce dolce gli stava dicendo in un orecchio:
- Dai, alzati, per favore, e lasciami il posto. Che c’ho una figlia pure io, anche lei è morta da poco.
Gesualdo era tornato a casa con quel tocco sulla spalla e con quella voce nell’orecchio destro.
Solo nel destro, gli pareva.
E la settimana dopo l’aveva passata così e così. Niente di speciale.Ma con la stessa giacchetta della toccata e con quella vocetta nell’orecchio.
Era andato pure al cimitero a mettere i fiori ad Angelina. La moglie, da quando era successa la disgrazia, l’aveva pregato più di una volta: “andiamoci insieme”. Lui un paio di volte, all’inizio, c’era andato insieme a lei. Ma poi non sopportava quelle troppe grida e quelle troppe lacrime di lei. Quel suo dovere, alla fine, pensare a lei e non ad Angelina. Perciò, le volte successive, aveva sempre trovato una scusa per mandarla da sola. Ed andarci da solo al cimitero.
E’ che a lui piaceva stare zitto a guardarla quella fotografia di Angelina. Ogni volta pensava la stessa cosa. Che quella non era la fotografia migliore, anzi, che ce n’erano sicuramente di migliori.
E che poi, in fondo, Angelina era molto meglio da viva, perché in fotografia assumeva sempre quel fare da timida. ”Come il suo papà”- pensava.
Ci stava lì dieci minuti o poco più, a guardarla fisso. Poi, bastava un qualcosa, un rumore , un fruscio di gente che trascinava la scala e poi la posizionava verticale per salire alle campate superiori del caseggiato dei morti posti in alto, e lui si scuoteva. E, dato che era uno che parlava poco, anche da solo, e non sapeva stare mai con le mani in mano, cominciava quei dieci minuti di
pulizia alle lapidi ed ai portafiori di lei e di suoi vicini.
Matilde Corbello 1927- 1998, sopra, e Francesco Criscimanni 1924- 1993, sotto.
Cosa avrebbe voluto dire a loro, i vicini, in quel condominio, in quel piccolo salotto di morte.
Gli sarebbe scappato di dire: pensateci voi che siete più grandi di lei e siete vissuti più di lei .
Fate un po’ come foste i suoi mamma e papà, o magari i suoi nonni.
Ma poi, dondolando la testa, per disapprovarsi, avrebbe quasi sorriso d’una tale scemenza pensata.
Stava inginocchiato . Non sapeva neanche lui come ci fosse finito in quella posizione: inginocchiato a riguardarsela per l’ultima volta; quando sentì sulla spalla la stessa toccata della Domenica prima.
Solo che questa volta gli parve subito più forte, più insistente, fino a provocargli un vero dolore che, negli istanti successivi, si andò propagando per tutto il petto.
Sorrise un'altra volta sebbene il dolore si stava facendo sempre più intenso e lui aveva incominciato a sudare profusamente.
Si volse indietro appena di un tanto; quanto bastò per scorgere un pizzo di fazzoletto nero.
E mentre s’accorse che stava scivolando lungo disteso, si sentì preso da dietro da due braccia.
che lo sorreggevano da sotto le ascelle.

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Non è sicuro da come racconta adesso, perché pare ancora molto debole e molto confuso, ma dice di aver sentito quella voce – gli pare, solo all’orecchio destro – che gli aveva chiesto:
“Vuoi venire o vuoi restare?”


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MONOLOGHI E DIALOGHI WEBBIANI

Di amori e di virus nel web.

I virus prima dell'era del Web vivevano di una vita tranquilla. Facendo male o bene.
Mandando al creatore molti e qualcuno risparmiandolo. Qualche curioso c'era pure allora che, spiaccicatolo sopra un vetrino, lo guardava nelle sue parti più intime e s'accorgeva dalle mutandine e se aveva il reggipetto o no, se era un virus maschio o femmina. Naturalmente, se era scienziato maschio, indugiava di più se lei era virus femmina e gli strizzava l'occhietto miope dietro le lenti del microscopio. Poi gli dava un nome usando le reminiscenze più altisonanti che aveva allora. Che pescavano inevitabilmente nel greco e nel latino maccheronizzato per l'occasione. Con quel tocco di romanticheria che pure dava senso al tempo ed alla sua passione.
"Hemofilus influenzae " aveva una dolcezza dentro quelle quattro sillabe che, a pronunciarle, la bocca dei medici si riempiva di dulcore. Eppure era un virus che, a tenerlo allora, faceva sputare sangue dalla bocca.
"Bacillus fragilis" poi era il classico eroe romantico. Debole amante sino allo spasimo. E spasimo era quello che lo costringeva ad andare di corpo sette volte sette al giorno, in tutti i luoghi di fortuna cercando di capire, nel' trepidante mentre della premura, perché chi aveva inventato i campi con le ortiche non aveva ancora inventato il cesso padronale.
Come il "mal sottile" del melodramma. Tu muori in scena e, se insisti, ti dicono che è morta per "tisi". Ancora oggi, certe pazienti vecchie mi vengono allo studio e prima di spogliarsi ficcano la testa sotto il lettino quando io gli chiedo "cosa ha avuto da ragazza?" "Il mal sottile, dottore"
Io abbozzo e poi sbotto." la tisi vuole dire"?
Quante cazzo di Violette traviate ci sono ancora al mondo, dovete credermi. Con la Tubercolosi ,cazzo, morta nelle statistiche epidemiologiche ma mai scordata. Come fosse un offesa al benessere di adesso.
Di Alfredi di meno. Il loro primato l'avevano già realizzato a fine ottocento col loro
"mal francioso" Dolce "Spirocheta pallida" che sanciva la più romantica delle scopate sbagliate , ma effettuate al chiaro di luna, in una atmosfera immaginata di lago alpestre con gli alberi e le montagne ed il verso d'un lupo che aveva ululato quella notte. E che tre settimane dopo ululava ancora. Ma di un ululato diverso guardandosi il primo pensiero bruciante che gli usciva dai pantaloni.
La spirocheta pallida gli aveva disegnato sulla capocchia una fantasia di cerchietti
rossi. Ed era solo il primo atto. Del dramma e della malattia. Che oggi sputa il nome di Sifilide.

Adesso la fisionomia del virus si sta perdendo. L'HIV ti sta dietro ? ti sta davanti?
Te lo portano le scimmie o te lo da in pegno tua moglie per farti reinnamorare di lei in "punto mortis" dopo essersi abnegata una vita a dirti che non valevi un cazzo?
La premura che riavvicina le mogli e allontana le amanti.Quanto può quel virus. Roba da non crederci.

Meno male che ci sono i virus da computer. E i loro quotidiani scopritori che vivono l'esistenza globale con la loro memoria depositata in un hard disk, mica nel cervello.
Sono gli stessi che vedono morirsi di "MKucca Pazzxa , (scritto così non per semplice errore di battitura, ma perchè proprio la
malattia , non so, prende un poco la tastiera ed un poco le dita) e che si fanno il loro Chek up mentale come un Back up di salvataggio scaricandosi l'antivirus più aggiornato dalla galassia del Web. Come un vaccino.
E' un fenomeno che sto sperimentando. La paura della morte telematica.
Il dire: tu non esisti più perchè sei stato cancellato dalla rete. Ogni tuo passo,
ogni tua orma è stata cancellata. Torna, se puoi, ad avere una storia fuori.
" Sì ... sì ... dico : " FUUOOOORIIII !!!!
" Fuori nel senso di vita vera? Quella vissuta con papà e mamma e fidanzata e moglie e figlia e amici e condomini e cani e gatti e tutto il resto? E tutti veri , carnalmente veri? Ma no... ma chi ce la fa più. E chi se le ricorda più quelle sensazioni di faccia a faccia.

Cazzo, allora è meglio morire di virus romantici che fottono i computers ed i loro legali possessori.
Come "Melissa" od " I love you"
Con quelli sì che ci piange il cuore e ci si ribella l'anima digitante, a scomparire.
E' come scomparire in un attimo con ancora il sapore in bocca della corrente elettica.
Non quella sulla sedia elettrica che t'hanno dato. Ma quella sulla sedia elettrica che t'hanno tolto.
E di colpo, e dopo aver partecipato da primattore alla storia d'amore più sensuale, massì, più erotica che ci sia finita così,
rispondendo a kappakappa-fi-fi-desiderio @/ tuttoquellochevuoi/ punto/universo/punto.it con un:
"E' stato bello, molto bello. Ma io sono sposato con figli. Ho un lavoro avviato che non posso abbandonare
E tu sei lontana, troppo lontana per continuare a sentirci. Non ci vedremo mai. (badate bene, dice "mai", non "mai più")
Addio, hai versato in me tutto il tuo universo ed io, per quanto ho potuto, l'ho bevuto (bevuto cosa? ,se è lecito chiedere)
Ho cercato di penetrarti nell'intimo, nell'impossibile, nel proibito. (ah sì? E come? con un tridimensionale scaricabile? )
Ma tutto, la realtà soprattutto, ma poi le circostanze... tutto ci impediscono...
E' il momento di lasciarci.
Per non dimenticarci più ti lascio questo Download. Non è carino, è bellissimo!!! Il mio amore per te lo porterà a spasso
per l'Universo quel gattino blù"
Commovente, vero.
Eppure questa "storia" durava ormai da solo duecentomilioniseicentonovantasette byte.



Capelli

Io invece a 33 anni ho capito che non c'era più niente da fare.
La moria di capelli sulla mia cervice e sulla fronte assumeva ormai la
portata d'una epidemia pestilenziale. L'ecatombe documentata nel fondo del
lavandino ad ogni schampo era l'inconfutabile fallimento di ogni cura,
anche eroica, di ogni piano annuale di preservazione del mio partimonio
capillifero. Paurosamente lo stempiamento iniziato anni prima, aveva
cominciato a progredire fino a congiungersi col diradamento dell'occipite
che , in alcuni punti, mostrava già zone glabre e lucide.
Passavo decine di minuti tragici davanti al controspecchio figurandomi
una fine atrocemente calva. O già tiepidamente consolandomi, verificavo
le possibilità reali di effettuare la mistificante ed estrema operazione dei
calvi non rassegnati: il riporto.
Ogni tanto, prendendoli tra pollice ed indice, parlavo coi miei morti e,
guardandoli intensamente, chiedevo loro:
- "Perchè? Cosa vi è mancato? Dove ho sbagliato?"
Intanto consultavo colleghi dermatologi quasi quotidianamente aspettandomi
che mi allungassero la prognosi.
- Quanti mesi?
- Ma quali mesi,... anni.
- Quanti anni?
- Oh , senti ... in fin dei conti c'è....
- Dillo.. dai... c'è il.....
- Il trapianto.
Eccolo là. Il guado da attraversare. Il fosso da saltare. La coscienza
estrema della tua vanità. Ed il tuo bell'aspetto giovanile ... la tua stessa
giovinezza che se ne stà andando.?.. Tu che non sopporti di cambiare
te stesso... che gli altri ti cambino.... un manufattore di capelli poi...
ma anche... come dicono, che ti spostino i tuoi ... da quà a là..., no..
senza lasciar fare alla natura ... al destino.... alla mia dignità... ai
miei principi
inamovibili.
Nella sottile angoscia del dubbio esistenziale m'ero scoperto a non guardare
più , per strada e dovunque mi recassi, le donne, le belle donne. No,
m'interessavano gli uomini calvi. E cercavo di cogliere nel loro
viso e nel loro fare e muoversi un sottile senso di imbarazzo, di
menomazione, di inefficienza. Oppure, quando capivo che portavano
bene la loro calvizie, li vedevo floridi, efficaci, come se la menomazione
li avesse temprati ad essere più forti e più veri e più seri e più
indispensabili.
Insomma più uomini essenziali, senza il bisogno la mattina, alzandosi,
di dover aggiustare in un qualsiasi modo quel superfluo che erano i capelli.
Finii per vederli quasi tutti, indistintamente, belli.
E per qualche mese assiduamente frequentai qualcuno di loro, mio coetaneo.
Con discrezione, tra i vari discorsi, arrivavo sempre a chiedere
loro come avessero vissuto quella condizione acquisita.
Uno di loro lo ricordo perfettamente come fosse ora . Alla mia domanda
mi guardò prima negli occhi e poi in testa. E non mi rispose nulla.
La sua bocca, già gioviale, si atteggiò ad un sorriso di complice ironia,
a cui non potetti che rispondere con un sorriso d'altrettanta ironia, ma
dolce amara e rivolta tutta a me stesso. Avevo capito una gran cosa.
Il cadimento dei capelli non si è mai arrestato da allora, ma non è stato
poi così tragico e repentino come temevo.
M'ha lasciato il tempo per farmene una ragione. Ed ha lasciato il tempo al
mio specchio perchè imparasse a mentirmi docilmente, giorno per giorno, un
poco alla volta, riarmonizzando quei pochi capelli al mio volto di ora.
Il mio lavandino non inorridisce più per quei miei sguardi persi nel vuoto
e i miei colloqui coi defunti, se ce ne sono ancora, sono di pura tenerezza,
abbandoni tristi ma necessari.
All' idea del trapianto ho dato un calcio definitivo dopo la nascita di mia
figlia che è nata con una esuberanza di capelli neri come il papà, ma che
poi mi ha fregato imbiondendosi naturalmente, sputando fuori tutti i geni
della madre.
Quindi posso dire di aver ritrovato la pace dell'accettazione, almeno quella
fisica.
Eppure, di notte , nei sogni, mi sogno sempre con la capigliatura dei
vent'anni, anche adesso, sulla mia faccia di ora che data quarant'anni e
passa.

PS. E, si badi bene, per strada sono tornato a guardare indefessamente le
donne, scambiandoci sguardi senza complessi di sorta, tanto senza complessi
che sfidano il fiancheggiare invadente delle occhiatacce di mia moglie.
Cara Carla, vorrei dirti : tutte le donne, con o senza tette. Ma sarebbe
una bugia pietosa. Diciamo che di fronte, dopo quelle, mi colpiscono gli
occhi, e ... di dietro.... se la moglie lo consente....


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Macchia su macchia


Adolescenza di fine anni sessanta. Feste da ballo in casa di amici (più raro amiche). Occasione più unica che rara per iniziare o concludere un acchiappo timido tramato da mesi con puntate di sguardo a scuola o lungo lo struscio del Corso. Feste organizzate ed aspettate da mesi, generalmente domenicali, con genitori scongiurati ad andarsene fuori o di chiudersi in cucina per tre ore almeno a vedere la TV e non rompere il cazzo (ma la cosa si pensava così come ora, ma non si diceva proprio così come ora).
Sedie ai tre lati del soggiornino dignitosino che faceva tanto piccola borghesia post boom economico, con, d'estate, sfogo sul terrazzo. Quindici metriquadrati complessivi a farlo grosso. Essere invitati, i maschi, era come ottenere un posto al sole, era vincere una lotteria. Di solito si invitavano dieci donne e cinque maschi e ci si ritrovava puntualmente con quattro donne e dieci maschi di cui cinque fottutamente imbracatisi all'ultimo momento, con il padrone di casa e gli invitati ufficiali a fare buon viso a cattivo sentimento. Addossato alla quarta ed ultima parete della stanza, un tavolo, e sul tavolo lui, il giradischi. E sul giradischi lui il divin vinile, nero,
rigorosamente microsolco, a quarantacinque giri. C'era da sentirlo, stridere e gracchiare sotto la puntina spuntata: che musica celestiale ne fa il ricordo. Allora andava a grido la consolidata canzonetta all'italiana con il "ballo del mattone" di Rita Pavone ed il
" non so degno di te" di Morandi. Il gusto di trasgressione si incarnava nella preistoria dei gruppi bit di casa nostra: furoreggiavano
l' Equipe 84 , I Giganti , I Profeti, i Camaleonti i Dik Dik e quant'altro di curiosi nomi ci si poteva inventare allora. Arrivavano come pregiate primizie da oltre Manica le prime canzoni dei Beatles.La musica era importante sì, ma come pretesto. In fondo, allupati come si era, si sarebbe provato a ballare stretti stretti anche un minuetto. Ma c'era da rispettare un rigoroso palinsesto, nel senso che c'erano pezzi "lenti " dedicati al ballo avvinghiato e semipomiciante. Quello di quando s'abbassavano le luci e tu nella penombra incominciavi la manovra di accerchiamento.
Quella sera, Io semifidanzato con Teresa( nel senso che non ti aveva detto ancora sì ma neppure no, ed anzi, ti aveva fatto dire, attraverso una amica comune, un'incoraggiante "forse") .
- Balli?
- Sì.
Nella stanza semibuia andava in onda l'ultima mezzaciofeca languidosa di Fred Buongusto: era l'ideale.Teresa, con una minigonna
a mezza coscia e con un profumo al collo e sottoascellare di pura essenza feromonica, mi avvicina la guancia. Io, maledettamente confuso ed istintivo le avvicino il bacino. Lei piega la testa sulla spalla. Io con le mani scese sui suoi glutei me l'attraggo dal basso
mentre il mio muso sale e scende a sfioro dalle labbra al petto. Quel coglione di Fred continua a dire "doce doce" E come dargli torto. Il fatto è che sotto, irreversibile e prepotente, è iniziato il processo di esubero. Quanto può durare una canzone? tre minuti?
Ebbene, a mezza canzone era già all'alzabandiera; non dissimulabile più, non più sistemabile neppure di lato, esercitava imperterrito
una pressione frontale, da sfondamento. Teresa inizia ad agitarsi , cerca altre posizioni, si guarda intorno, prova a divincolarsi, cerca di allontanarmi con la scusa di ravviarsi i capelli. Io mi stacco, ma è troppo tardi. All'imbarazzo segue una languidezza dolcissima
annunciata da un fiotto di saliva in bocca e seguita in basso da un efflusso caldo lungo...
La canzone finisce come se l'avessero accorciata. Si riaccendono le luci. Teresa, paonazza in volto, è gia scappata dalle sue amiche. Io resto come un ebete al centro della stanza. Mi guardo sotto: una patacca enorme sul pantalone.
Genialità, freddezza o disperazione? In un attimo sono vicino al tavolo, frenetico prendo una bottiglia di aranciata, la verso nel bicchiere, lo faccio colmo, mi guardo furtivo intorno. Dietro di me c'è Faustino. Benissimo. Mi giro di scatto, gli sbatto contro con una violenza inaudita e ci versiamo tutto il bicchiere addosso, ma soprattutto lì.
Macchia su macchia.

 

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