LA 
                MULTA  
              La vedo, di scorcio, rientrando e chiudendo il portone 
                di casa. Sta nella cassetta delle poste con l’odiosa, inconfondibile 
                posa che hanno assunto certe cartelle della SRT. Beffardo e tragico 
                messaggio meccanografico, invito- obbligo ad ottemperare ad un 
                pagamento in tempi rateizzati ma la cui prima scadenza prossima 
                ti è quasi già addosso . Se non adempi subito ti 
                è già diventata "mora" . Sapore d’un 
                frutto selvaggio, di rovo e dolce, ma che nell’accezione 
                tributologica del termine, può diventare salata. 
                La sfogli sfuggentemente Ma ti colpisce una cifra iperbolica da 
                pagare in unica soluzione. Con una scadenza a ridosso del poco 
                più di domani. Leggi con rabbia il resto. Fatto di cifre, 
                che fanno riferimento a numeri, che ti affidano ad una esplicazione 
                di codici in sequenza numerica tra i quali affiorano finalmente 
                lettere: CONTRAVV. COD. STRADA. A COSCO LUCIA 
                Capisco. Anzi, realizzo. E’ una multa non pagata. Di mia 
                moglie. 
                Il primo sentimento è di offesa. Il secondo è di 
                rabbia. Il terzo non è proprio un sentimento, piuttosto 
                un coacervo di sentimenti liberati tutti insieme in una imprecazione. 
                Secca., e , a modo suo, inconfondibile. Come è inconfondibile 
                il grido del contribuente, (adempiente o moroso che sia) quando 
                si accorge che gli si sta strizzando, con mani anonime ed impietose, 
                l’ultimo goccio dal portafogli. 
                Una multa. Del 1996. Non pagata ! Di duecentosedicimilalire! Raddoppiata 
                nella "zona Cesarini della prescrizione, con gli ammennicoli 
                amministrativi e burocratici, diventata di quattrocentoenovemilalire! 
                 
                Cosa avrà fatto mai di tanto grave mia moglie? E perché 
                non me l’ha detto? Sa allora nascondermi qualcosa?Mia moglie 
                interrogata, cade dalle nuvole. Con una costernazione sua che 
                aumenta la voglia miadi sapere il dove e il quando e il perché. 
                E la cartella è così laconica. Non ti da un posto 
                di riferimento,neppure una data precisa di come s’è 
                consumato il fatto. Solo quella data di scadenza assolutamente 
                prossima, che assomiglia quasi ad un ricatto, ad una minaccia 
                d’ un "cravattaro" che ti chiede il "pizzo". 
                Riorganizzi la mente offesa e stravolta. E ti ricordi di un amico 
                Vigile Urbano a cui affidare lo scarno carteggio perché 
                possa risalire alla fonte di uno straccio di verbale che ti dica 
                se e perché e per chi devi pagare.  
                 
                - Fai parte delle seimila. 
                - Delle seimila che? 
                - Delle seimila multe mandate a pioggia. -Capisci a me – 
                dice in un campobassano ami- 
                che michevole eppure strascicato dall’imbarazzo -. 
                - Ma io quel verbale non l’ho ricevuto… Nessuno me 
                l’ha notificato. 
                - O l’hai ricevuto e ti sei scordato di pagarlo… Capita! 
                 
                Pensavo convintamente che tanta posta inutile arriva a casa; che 
                nei meandri di essa e dei pensieri qualcosa di importante poteva 
                essere finito inavvertitamente nel secchio della spazzatura.E 
                il mio animo che era già sui blocchi di partenza della 
                rivolta, non cominciava neppure la corsa; si rialzava sconsolato 
                e dondolando il capo in un atto di diniego di se stesso, come 
                di chi stesse facendo una falsa partenza. Capovolgendo la rabbia 
                per un creduto sopruso, in sensi di colpa. 
                E la mattina dopo ero pesto, dominato da un sentimento di impotenza 
                rispetto ad una folla di obblighi incompiuti, di rate scadute, 
                di tasse non pagate. Carte a folate avevano tagliato a fette i 
                miei sogni .Anche mia moglie, io svegliandomi più volte 
                e rigirandomi verso di lei, mi sembrava una complice di contravvenzioni 
                alla regola. La mia dolce moglie colpevole di non saper parcheggiare 
                la macchina come si deve.  
                 
                Sul tavolo dello studio mi ritrovai il risultato preciso e asettico 
                della ricerca del mio amico Vigile Urbano: Fotocopia del VERBALE 
                N.9191- DEL 2-12-1995, ORE 12,05. LOCALITA’ VIA INSORTI 
                D’UNGHERIA, " Parcheggiava l’ autovettura sul 
                marciapiede". 
                Fui saziato e abbeverato della mia voglia di sapere. Quasi contento 
                perché scagionava mia moglie da qualsiasi intrigo. Intorno 
                a quella via c’era il mio studio ed abitavano buona parte 
                dei miei parenti.Ancora più contento perché la storia 
                di quella multa mi era ,come in un lampo, tornata alla mente; 
                come una cosa saputa, raccontata da mia moglie come l’ennesimo 
                evento persecutorio d’un Vigile Urbano 
                coi baffi umbertini d’un giustiziere che aveva spiato per 
                giorni e giorni le sue mosse. 
                Io conosco di vista quel Vigile. E conosco bene mia moglie. E 
                come parcheggia lei. E come punta certi parcheggiandi lui. In 
                virtù di questi elementi identificativi, ritornando a casa 
                mi si aumentava addosso la convinzione che quella multa io l’avevo 
                già regolarmente pagata. C’era però l’angoscia 
                che coglie gli innocenti incapaci di trovare la prova della loro 
                innocenza. Che doveva essere una carta, una ricevuta attaccata 
                con una spilletta metallica all’originale di quel maledetto 
                verbale numero novemilacentonovantuno. Che scagionava me, mia 
                moglie e… 
                Io l’avevo vista già quella carta, quel numero.  
                Eppure entrando a casa mi chinai in ginocchio, come in un atto 
                di devozione e di propiziazione, di fronte a quella austera cartelliera 
                che nei due scomparti inferiori conteneva il carteggio ventennale 
                di me soggetto pagatore. Con poca speranza di tirare fuori da 
                quella caterva di cose atti e aliti di vento già pagati, 
                quella ricevuta che mi avrebbe evitato l’umiliazione di 
                pagare con doppia e tripla mora una cosa già pagata. 
                Sguainai lo sguardo più attento. Dietro gli occhiali pile 
                di carte si assottigliavano. E la speranza di trovarla pure. Ma 
                non completamente il desiderio di chi vuole aver ragione. 
                E alla fine la trovai. Cacciata negli ultimissimi piani di quella 
                fila infinita di gabelle già esatte La confrontai, attaccata 
                ancora con la spilla metallica a quel verbale originale.  
                Uguale uguale, come due gocce d’acqua, alla fotocopia che 
                il mio buon amico Vigile Urbano mi aveva procurato. Pagata a tempo 
                debito l’11 aprile del novantasei. 
                Sorrisi. O risi? Certo che subito dopo una decina di madonne si 
                saranno chieste tra loro chi di loro avessi chiamato.  
                Salvo dall’angoscia esistenziale di sentirmi nel torto più 
                lercio che fa la differenza tra un buon cittadino ed un evasore, 
                non ebbi tempo di gioire del riacquistato possesso della mia dignità 
                che mia moglie, alleviata anch’essa d’una colpa forse 
                solo rimandata, mi gridò dalla cucina:  
                - "Fai qualcosa!" 
                - "Chè cosa ?"  
                - "Un esposto all’autorità". 
                 
                Io , se avessi potuto, in quel momento all’autorità 
                gli avrei fatto cacare vermi e sangue. Ma l’auto-rità 
                non ha un culo. Per te almeno, non ha un culo. Resta una creazione 
                eterea della mente inculcata in tenera età dall’educazione 
                proba ed ossequiante dei tuoi genitori. E pertanto virginea e 
                asessuata. 
                Lei, mia moglie, è la persona più istintiva e più 
                pulita di questa storia. 
                Aveva parcheggiato il "musetto" della sua "Panda" 
                sopra il marciapiede. 
                E non è detto che non lo faccia più. 
                Troverà ancora zelanti appiccicatori di verbali. Ed esattori 
                zelantissimi che manderanno bollette a pioggia, come strali, come 
                bombette ad orologeria depositati legalmente nel bassoventre di 
                contribuenti prostrati, quasi già resi eunuchi dalla convinzione 
                che pagare in silenzio è sempre solo parte d’un debito 
                contratto alla nascita con l’autorità. 
                Gli evasori seri, quelli no. Quelli continuano a coniugare il 
                loro verbo nei tre tempi.  
                 
                Cambio tonalità al racconto. 
                 
                Lei, mia moglie, è la protagonista più istintiva 
                e più pulita di questa storia. 
                Ha parcheggiato il musetto della sua "Panda" sul marciapiede, 
                uno qualunque di questa città dove ormaila mattina si esce 
                buoni da casa e, prendendo la macchina, ci si incattivisce per 
                strada, provando a marcare il vicino di fila, e quello davanti, 
                e quello di dietro, per provargli a sficcare una distrazione, 
                un assenso-consenso per passargli davanti, perché ti devi 
                canalizzare in una certa situazione dove ti aspetti di trovare 
                un semaforo che invece è spento e allora c’è 
                il Vigile che se è sveglio ti riesce a calcolare la portata 
                del traffico ma sennò agevola l’ingorgo con fare 
                incazzato quasi napoleonico come se dicesse che sei tu che non 
                capisci i suoi gesti che sono elementari eppure maestosi, pavoneggianti 
                un fatto che qui non si va avanti, non si procede non si arriva 
                all’ora in quel posto dove a quell’ora saresti dovuto 
                già stare e invece picchieresti sul clacson volentieri 
                se non fosse che non vorresti sembrare maleducato ma se picchiano 
                altri dietro di te volentieri lo fai anche tu perché le 
                migliori proteste sono sempre quelle di massa dove tu anonimo 
                ti puoi sfogare e non è detto che poi non siano le più 
                sentite perché possono arrivare fino al sindaco certe strombazzate 
                di traffico che durano più di mezz’ora e se ci arrivano 
                ti danno quasi l’idea di partecipare ad una giusta protesta 
                popolare senza pensare che poi io senza accorgermene sto girando 
                e girando e non mi ricordo più dove dovevo andare tanto 
                che mi chiedo cazzo ma perché ho preso la macchina per 
                andare dove non so più dove devo andare visto che adesso 
                se deciderò di fare quattro passi a piedi questa fottuta 
                macchina dovrò pure parcheggiarla da qualche parte e a 
                guardare mi sembra la cosa più difficile che mi è 
                capitata di dover fare da qualche anno a questa parte anche se 
                adesso mi dicono che ci sono i parcheggi a pagamento ma sarà 
                poi vero che la gente sa usarli e stare mezz’ora e poi andare 
                via e lasciare spazio agli altri oppure sono tutti residenti o 
                abbastanza ricchi in questa città che se ne fottono di 
                abbandonare pure per il Corso la macchina parcheggiata duemilalire 
                ad ora per cinque ore e noi che giriamo e giriamo e adesso adesso 
                intravedo lì in mezzo ad una fila di macchine parcheggiate 
                a spina di pesce un vuoto caspita ma dedicato al posto riservato 
                ad un handicappato che io rispetto cazzo ma in questo momento 
                mi dispiace ma che c’entra se per legge hanno dovuto fare 
                quaranta posti nella città come questi però loro 
                sono di meno perché togli quelli che non escono mai perché 
                sono troppo troppo handicappati e togli quelli che la carrozzella 
                non ce l’hanno quelli che non ci hanno nè la macchina 
                loro né quella dl Comune quando cazzo escono per occupare 
                tutti questi posti riservati e però se mi ci metto mi sembra 
                di fare una cattiveria proprio a loro invece che farla a quelli 
                che si fanno belli che i posti per parcheggiare ci sono per le 
                persone handicappate ma non ci sono per quelle normali. 
                Curiosamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo divenuto 
                poi anche un film il cui contenuto è anche abbastanza diverso 
                da quello che l’immaginario popolare ha adottato come simbolo 
                adottando il titolo. Giungla d’asfalto. 
                Per dire tutto quanto di nefando ha creato la civiltà delle 
                automobili.  
                 
                BRRRRRRRAMMMMMM e PPARAPARAPERO!!!!  
                Mi sono incazzato per davvero. Freno. Mi fermo. Scendo. Rificco 
                la mano nell’abitacolo per suonare a festa, senza motivo 
                alcuno, per l’ultima volta il clacson. Mi ficco le mani 
                nella tasca e decido di mettere nella mano dell’amico parcheggiatore 
                una grossa manciata di punti e di virgole.  
                Che decida lui come distribuirle nel racconto precedente che ne 
                è mancante.  
                E, soprattutto, gli do in affidamento a vita la macchina. Lui 
                pare non credermi.  
                Ma io lo convinco.  
                E lui si sente obbligato a restituirmela: "Quann’ vulit 
                vuje , dotto’ ".  
                Io m’incammino a piedi e i miei piedi subito provano a prendere 
                a calci una lattina di Coca Cola con la doppia carambola di Altafini. 
                Piede desto, piede sinistro e poi ancora destro, a fregare il 
                portiere!  
                "Quiss’s’è ‘mpazzut’ " 
                ho idea che mi sentenzi dietro le spalle Giovanni il parcheggiatore 
                , dondolando sconsolato ed incredulo la testa e buttando per terra 
                quella manciata di punti e di virgole.  
                Che poi, con il piede pesta con rabbia , come un agglomerato di 
                fastidiose formiche 
                Macchine incolonnate viste dall’alto. 
              (Torna su) 
             
             
            L'espianto 
            Forse prima della frenata non avevo capito nulla nemmeno 
              io. 
              Così, improvvisamente sorpresomi a battere forte ed incessantemente 
              e senza quelle pause che di solito mi aiutavano a capire la situazione, 
              a riflettere. 
              Una luce di fari spalancata sulla visiera del casco di Nicola. Un 
              rivoltarsi come dentro un vaso che rotola, un rumore di vetri rotti, 
              un botto. E la motocicletta che ballonzola sulle gomme e poi scivola 
              giù per la scarpata. 
              Come un clown colorato che esce di scena. 
              Per un momento lunghissimo pensai che tutto fosse finito anche per 
              me. Come se ci fosse stato un cortocircuito con una scintilla e 
              poi il buio assoluto. Nicola era scivolato anche lui nella scarpata, 
              dalla parte opposta della motocicletta. 
             
              La prima sensazione che ebbi fu quella di ricominciare a salire 
              delle scale con passo lento lento e leggero leggero. Tanto lento 
              e tanto leggero che ero in dubbio se quell' azione fosse reale così 
              da produrre un qualche movimento, un qualche rumore.. 
              Poi però, progressivamente ,quelle sensazioni di movimento 
              e di rumore diventarono più nette, più efficaci. Come 
              se quelle scale portassero in cima ad un campanile dove udivo il 
              rintocco di una campana, pieno, forte, quasi assordante. Ero io 
              che avevo ricominciato a battere, a sentirmi riempito e svuotato. 
              Riacquistai il pieno possesso di me solo qualche minuto dopo. Ma 
              la 
              gradevole consapevolezza di essere vitale, era turbata dall'immagine 
              di quel rivolo di 
              sangue che , scivo-ato dall'angolo dell'occhio, s'era già 
              raggrumato all'angolo della bocca di 
              Nicola. Forse il cuore qualche volta parla con l'anima, forse no. 
              Forse vive solo della volontà del cervello e ,quando questo 
              è muto, si sente spaurito, perso. Ma proprio perché 
              non mi rassegnavo a quel vuoto intorno, a quell' involucro silenzioso 
              che era diventato il corpo di Nicola, mi ricordai di tutto il chiasso 
              che avevamo fatto insieme . E gridai che Nicola non era morto, non 
              era morto. Che poteva rialzarsi e che il suo primo pensiero sarebbe 
              stato quello di riprendere la motocicletta nella 
              scarpata, riallacciarsi il casco intorno al collo e ,pigiato il 
              pedale, rombato al massimo il 
              motore con due movimenti di andirivieni del polso, correre a trovare 
              Maria. A raccontarle 
              che aveva visto un incidente incredibile in cui anche lui, per evitare 
              una macchina, si era pure sbucciato un ginocchio . Avevo gridato 
              così forte tutto questo che ,tra il rumore assordante di 
              sirene di autoambu lanze ed un vociare intorno del perché 
              e per come, qualcuno mi ascoltò per 
              davvero e confermò che Nicola non era ancora morto.  
              Corremmo in Ospedale con una corsa piena di premure e di speranze 
              in cui l'ascolto di me era diventato incessante, quasi estenuante, 
              alternato solo dal sollevare le palpebre di Nicola che pareva continuasse 
              a dormire .  
              E Alla fine arrivammo. 
            Le luci di una sala di Rianimazine in cui, su uno schermo verdognolo, 
              impulsi biancastri spiavano la tua efficienza e , tra una miriade 
              di fili e tubi, ogni tanto qualcuno passava per controllare se continuavi 
              a respirare come volevano loro.  
              Fuori, schiacciati con il naso contro il vetro, i genitori di Nicola, 
              il fratello e Maria spiavano anche loro ,tra le lamine della veneziana, 
              un qualche segno di vita. Quando per qualche minuto entrava la madre 
              , provava a parlargli accarezzandogli la vena della mano dove entrava 
              l'ago della fleboclisi. E spingeva il dito da giù a su per 
              quella vena, come per spingere, insieme alla medicina, qualche 
              parola, una traccia nel percorso dei ricordi, perché arrivasse 
              chissà dove. Ma poi finiva per piangere e gridare e una buona 
              infermiera doveva accompagnarla fuori. Anch'io vedevo scorrermi 
              le giornate addosso e guardavo Nicola da dentro e provavo a stimolare 
              a suon di battiti i suoi muscoli e , con questi, i nostri ricordi 
              comuni che poi erano tutti , ma proprio tutti, quelli che avevo 
              io e che aveva o non aveva più lui. In quei giorni di assoluto 
              silenzio i nostri episodi più tristi glie li avrò 
              raccontati come favole e frottole, e i nostri momenti migliori come 
              un'apoteosi da festeggiare con una "volata" - dicevamo 
              noi- sulla motocicletta. 
            Dopo diciotto giorni di questa attesa ,qualcuno dei medici incominciò 
              a chiedere, prima timidamente, poi sempre più insistentemente, 
              cosa fare del corpo di Nicola. Qualcuno parlò di trapianto 
              così dolcemente persuasivo che ci accorgemmo che tutti noi 
              non aspettavamo altro . 
              Perché Nicola non si sarebbe svegliato più.  
            Lunedì 18 di aprile alle ore 9 , due calde mani mi presero 
              e mi posero, come bendato, come bendano un sequestrato quando lo 
              liberano ma non vogliono fargli ricordare nulla dell'immediato passato, 
              in un contenitore frigorifero. Lunedì alle ore 16 dello stesso 
              giorno altre mani mi posero e sentii di riacquistare calore quando 
              tornai a fare quello che avevo fatto da sempre. Battere per produrre 
              vita. 
              Come un anonimo operaio della vita. 
              Ora il mio si chiama Giuseppe ed ha due splendide figlie alla cui 
              ansia e alla cui gioia nell'averle, non ho partecipato.  
              Ma confido nell'emozione che lui avrà nel vedersele andare 
              spose. 
              Per ora, non guida la motocicletta. E questo, un po' mi manca. 
             
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             IL JOYCE 
              DI ULISSE 
            Di tre ore ad Ulisse erano rimasti solo quindici minuti per poter 
              dire cosa pensava di Joice. 
              Se l’era preparato tutto questa volta il compito del concorso. 
              Tutti gli autori del novecento. 
              Con quell’aria di studente che gli pesava ancora addosso , 
              e che , a trentaquattro anni, sembrava ancora non averlo abbandonato. 
               
              Quattordici mesi a cambiare idea, leggendo, su tutti e su tutto. 
              Quattordici mesi ad ascoltare cosa ne pensavano gli altri. 
              Quegli opportunisti che dicono sempre di sapere tutto , quelle sanguisughe 
               
              della lettura presunta, gli antropobibliocefali in colletto inamidato, 
              che , per 
              loro il pensiero, leggendo, è come un segnalibro. 
              Con Giacomino no , suo caro antico e minuto compagno di banco.  
              Con lui si parlava di donne, di seghe e... 
              “Che stai facendo?” 
              “Mi esercito alla vita”– aveva detto, buttando 
              la sigaretta nel bidè e ritraendo la mano e gettando all’aria 
              il giornale dove Magdalena ciancicata offriva, non proprio di nascosto, 
              ma complice, zizze e culo. 
              Se fosse stata vera e non di giornale, Magdalena si sarebbe incazzata 
              e glie ne avrebbe dette quattro alla mamma di Giacomino. 
              Ma Giacomino era rimasto solo seduto ed immobile. Se durava ancora 
              la scena, il cesso l’avrebbe inghiottito, per togliergli il 
              disturbo della vergogna. 
              E , tirato lo scarico, nulla più di lui. 
              Eppure resistette. 
              E ci aveva provato ad estenderlo tutto quel suo senso di colpa. 
              Ma due schiaffoni in faccia dati dalla mamma glielo avrebbero azzittito 
              per sempre quel suo senso di tutto.  
               
              Che dici Giacomì , sto cazzo di Joyce come lo interpreto? 
              “E’ nu strunze pure isse” – dice, leccando 
              la bocca della settima 
              Birra Peroni – “e’ nu strunz’ pure isse.” 
               
              I minuti erano rimasti dodici. Doveva scrivere qualcosa Ulisse 
              su Joyce . E lo doveva fare in quei dodiciminutirimasti , che andavano 
              di fretta.  
              “Tic tac., tic tac” 
              Pare una fesseria questo “ tic tac” ma un certo tempo 
              limitato fa così. 
              Se facesse “tic toc” o “toc tic” si potrebbe 
              pure discutere, si potrebbe ricorrere pure al TAR, magari alla Cassazione: 
              “ perché gli orologi da polso non fanno tutti lo stesso 
              identico rumore?” E’ la disuguaglianza o la relatività 
              del tempo che ci condanna?” Fanculo , il tempo è proprio 
              una 
              stronzata. Quello per questo scritto di letteratura, di più! 
               
              Dieci minuti . 
              Per scrivere qualcosa di Joyce.  
              Ulisse s’immedesima e comincia a stracciare tutti gli appunti 
              arrotolati 
              che riguardano Svevo e la sua coscienza del piffero, la sua voglia 
              di smettere di fumare, come se fosse un modo per cambiare la sua 
              condizione di perturbato, incappato in un matrimonio di necessità. 
              Avevano detto che di tema usciva questo. 
              - “Sta sicuro che esce Svevo”. 
              - “ Sì, Svevo” … venti sigarette al giorno 
              per trent’anni. E ogni giorno provi 
              a pensare che sia l’ ultima, l’ultimo. Ti vedi, t’immagini 
              certi inguacchi  
              nei polmoni; eppure, dopo, solo la mattina dopo, dopo il caffè, 
              quella tua bocca ti cerca qualcosa - tu dici, tu lo dici - come 
              il ciuccetto da bambino; una ricerca d’affetto , una mancanza 
              d’affetto . E’ la vita adesso che ti manca d’affetto. 
              Pure se , lo devi riconoscere, qualcosa t’ha dato. Cavolo 
              se te l’ha dato. 
              E Ulisse si mette a pensare a Maria che l’aspetta di fuori, 
              ancora più minuta di sempre, anche più minuta di Giacomino, 
              quasi una miniatura  
              di persona, contrita e quasi pregante in quella sua assurda devozione 
              abnegata per il suo professore decano dei precari. E quello sproposito 
              di 
              Luigino, nato solo nove mesi e tre giorni dopo il matrimonio, – 
              mo’ fanno sei anni – che le ronfa in petto scotendo 
              tutto il suo cespuglio di riccioli castani. Anche lui ad aspettare 
              fuori.  
              Otto minuti. 
              Otto minuti, quel che rimane per contendere al foglio rigorosamente 
              protocollo gli spazi dell’ultima facciata, quelli essenziali 
              e decisivi, rimasti 
              ancora vuoti e da conquistare penna in pugno, con un assalto finale 
              alla baionetta, alla ricerca d’un senso che possa compiacere 
              la Commissione ed allungare le speranze che questa sia la volta 
              buona. 
              Caro il mio buon signor Bloom, che giornata memorabile quelle diciotto 
              ore  
              del 16 giugno del millenovecentoequattro, eh?!  
              Ti sei impicciato in più cose tu in quella giornata che io 
              in tutta la mia vita. 
              Che degustazione magistrale ne hai fatto della vita, della sua sorprendente 
              , irrinunciabile monotonia. Ecco, il godimento della monotonia, 
              le cose già vissute uguali per tutti ma mai ripensate, mai 
              finite di collaudare del tutto. 
              La monotonia che può spingere a riprovare le ali di Icaro. 
              Come se non ci fosse un tempo per salpare ed un tempo per approdare. 
               
              Ulisse, senza quasi accorgersene, s’era scaraventato sul foglio 
              con la foga dei quattro minuti restanti, dimenticandosi però 
              via via del tempo e dello spazio. Soggetto solo all’estro 
              del suo quotidiano, misurato , finalmente, con la misura del quotidiano 
              del signor Bloom.  
              E scrisse, scrisse. 
              Non si può dire quanto scrisse in quei due minuti restanti. 
              Come se in quei due minuti restanti si fosse accorto di colpo che 
              sarebbe potuto restare per una vita a scrivere della sua vita e 
              di quella del signor Bloom. 
              Tanto che un ora dopo, forzuti bidelli dovettero trascinarlo fuori 
              dal banco con lui col foglio in mano e con la penna che ancora provava 
              a scrivere di Giacomino, di Maria e di Luigino. E , forse, anche 
              qualcosa di Joyce.  
               
             
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            ANGELINA 
             
              Gesualdo era rimasto un attimo perplesso quando il sacerdote paffuto 
              gli aveva messo nella bocca 
              il pane di Dio. 
              Stava in ginocchio di faccia all’altare e non se ne voleva 
              andare più. 
              Era come se quel pane volesse assaporarlo di più. 
              Il sacerdote di fronte s’era spazientito un poco. 
              Ma lui è come se gli dicesse: “aspetta mo’ che 
              ti dico cosa sto provando” 
              E si rigirava l’ostia santa nella bocca e la stava facendo 
              sciogliere tra lingua e palato. 
              Erano decine d’anni che non si comunicava. Probabilmente non 
              lo avrebbe fatto ora e non lo avrebbe fatto mai più. Se non 
              era che gli era morta una figlia di diciotto anni solo tre mesi 
              prima. 
              Tre mesi prima. Tanto ce n’era voluto per chiedere un qualche 
              aiuto ad uno grosso assai. 
              Così succede. E quando succede così, può capitare 
              di tutto. Pure che t’aggrappi alle premure  
              d’un Dio che ti promette d’accudire al meglio quella 
              tua figlia nell’Aldilà. 
              - Ma tu ci credi in Dio – gli aveva sparato in faccia di brutto 
              il prete nel confessionale solo mezz’ora prima. 
              Gesualdo non voleva barare, ma per sua figlia non voleva lasciare 
              nulla d’intentato. 
              - Sì, ci credo – aveva risposto. 
              Adesso quella dietro a lui, faccia all’altare , una donna 
              in fazzoletto nero, gli stava toccando con la mano la spalla sinistra, 
              leggermente. E dolce dolce gli stava dicendo in un orecchio: 
              - Dai, alzati, per favore, e lasciami il posto. Che c’ho una 
              figlia pure io, anche lei è morta da poco. 
              Gesualdo era tornato a casa con quel tocco sulla spalla e con quella 
              voce nell’orecchio destro. 
              Solo nel destro, gli pareva.  
              E la settimana dopo l’aveva passata così e così. 
              Niente di speciale.Ma con la stessa giacchetta della toccata e con 
              quella vocetta nell’orecchio. 
              Era andato pure al cimitero a mettere i fiori ad Angelina. La moglie, 
              da quando era successa la disgrazia, l’aveva pregato più 
              di una volta: “andiamoci insieme”. Lui un paio di volte, 
              all’inizio, c’era andato insieme a lei. Ma poi non sopportava 
              quelle troppe grida e quelle troppe lacrime di lei. Quel suo dovere, 
              alla fine, pensare a lei e non ad Angelina. Perciò, le volte 
              successive, aveva sempre trovato una scusa per mandarla da sola. 
              Ed andarci da solo al cimitero. 
              E’ che a lui piaceva stare zitto a guardarla quella fotografia 
              di Angelina. Ogni volta pensava la stessa cosa. Che quella non era 
              la fotografia migliore, anzi, che ce n’erano sicuramente di 
              migliori. 
              E che poi, in fondo, Angelina era molto meglio da viva, perché 
              in fotografia assumeva sempre quel fare da timida. ”Come il 
              suo papà”- pensava.  
              Ci stava lì dieci minuti o poco più, a guardarla fisso. 
              Poi, bastava un qualcosa, un rumore , un fruscio di gente che trascinava 
              la scala e poi la posizionava verticale per salire alle campate 
              superiori del caseggiato dei morti posti in alto, e lui si scuoteva. 
              E, dato che era uno che parlava poco, anche da solo, e non sapeva 
              stare mai con le mani in mano, cominciava quei dieci minuti di  
              pulizia alle lapidi ed ai portafiori di lei e di suoi vicini. 
              Matilde Corbello 1927- 1998, sopra, e Francesco Criscimanni 1924- 
              1993, sotto. 
              Cosa avrebbe voluto dire a loro, i vicini, in quel condominio, in 
              quel piccolo salotto di morte. 
              Gli sarebbe scappato di dire: pensateci voi che siete più 
              grandi di lei e siete vissuti più di lei .  
              Fate un po’ come foste i suoi mamma e papà, o magari 
              i suoi nonni. 
              Ma poi, dondolando la testa, per disapprovarsi, avrebbe quasi sorriso 
              d’una tale scemenza pensata. 
              Stava inginocchiato . Non sapeva neanche lui come ci fosse finito 
              in quella posizione: inginocchiato a riguardarsela per l’ultima 
              volta; quando sentì sulla spalla la stessa toccata della 
              Domenica prima. 
              Solo che questa volta gli parve subito più forte, più 
              insistente, fino a provocargli un vero dolore che, negli istanti 
              successivi, si andò propagando per tutto il petto. 
              Sorrise un'altra volta sebbene il dolore si stava facendo sempre 
              più intenso e lui aveva incominciato a sudare profusamente. 
              Si volse indietro appena di un tanto; quanto bastò per scorgere 
              un pizzo di fazzoletto nero.  
              E mentre s’accorse che stava scivolando lungo disteso, si 
              sentì preso da dietro da due braccia. 
              che lo sorreggevano da sotto le ascelle. 
               
              ***************** 
              Non è sicuro da come racconta adesso, perché pare 
              ancora molto debole e molto confuso, ma dice di aver sentito quella 
              voce – gli pare, solo all’orecchio destro – che 
              gli aveva chiesto: 
              “Vuoi venire o vuoi restare?”  
             
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            MONOLOGHI E DIALOGHI WEBBIANI
Di amori e di virus 
              nel web. 
            I virus prima dell'era del Web vivevano di una vita tranquilla. 
              Facendo male o bene.  
              Mandando al creatore molti e qualcuno risparmiandolo. Qualche curioso 
              c'era pure allora che, spiaccicatolo sopra un vetrino, lo guardava 
              nelle sue parti più intime e s'accorgeva dalle mutandine 
              e se aveva il reggipetto o no, se era un virus maschio o femmina. 
              Naturalmente, se era scienziato maschio, indugiava di più 
              se lei era virus femmina e gli strizzava l'occhietto miope dietro 
              le lenti del microscopio. Poi gli dava un nome usando le reminiscenze 
              più altisonanti che aveva allora. Che pescavano inevitabilmente 
              nel greco e nel latino maccheronizzato per l'occasione. Con quel 
              tocco di romanticheria che pure dava senso al tempo ed alla sua 
              passione.  
              "Hemofilus influenzae " aveva una dolcezza dentro quelle 
              quattro sillabe che, a pronunciarle, la bocca dei medici si riempiva 
              di dulcore. Eppure era un virus che, a tenerlo allora, faceva sputare 
              sangue dalla bocca.  
              "Bacillus fragilis" poi era il classico eroe romantico. 
              Debole amante sino allo spasimo. E spasimo era quello che lo costringeva 
              ad andare di corpo sette volte sette al giorno, in tutti i luoghi 
              di fortuna cercando di capire, nel' trepidante mentre della premura, 
              perché chi aveva inventato i campi con le ortiche non aveva 
              ancora inventato il cesso padronale.  
              Come il "mal sottile" del melodramma. Tu muori in scena 
              e, se insisti, ti dicono che è morta per "tisi". 
              Ancora oggi, certe pazienti vecchie mi vengono allo studio e prima 
              di spogliarsi ficcano la testa sotto il lettino quando io gli chiedo 
              "cosa ha avuto da ragazza?" "Il mal sottile, dottore" 
               
              Io abbozzo e poi sbotto." la tisi vuole dire"?  
              Quante cazzo di Violette traviate ci sono ancora al mondo, dovete 
              credermi. Con la Tubercolosi ,cazzo, morta nelle statistiche epidemiologiche 
              ma mai scordata. Come fosse un offesa al benessere di adesso.  
              Di Alfredi di meno. Il loro primato l'avevano già realizzato 
              a fine ottocento col loro  
              "mal francioso" Dolce "Spirocheta pallida" che 
              sanciva la più romantica delle scopate sbagliate , ma effettuate 
              al chiaro di luna, in una atmosfera immaginata di lago alpestre 
              con gli alberi e le montagne ed il verso d'un lupo che aveva ululato 
              quella notte. E che tre settimane dopo ululava ancora. Ma di un 
              ululato diverso guardandosi il primo pensiero bruciante che gli 
              usciva dai pantaloni.  
              La spirocheta pallida gli aveva disegnato sulla capocchia una fantasia 
              di cerchietti  
              rossi. Ed era solo il primo atto. Del dramma e della malattia. Che 
              oggi sputa il nome di Sifilide.  
            Adesso la fisionomia del virus si sta perdendo. L'HIV ti sta dietro 
              ? ti sta davanti?  
              Te lo portano le scimmie o te lo da in pegno tua moglie per farti 
              reinnamorare di lei in "punto mortis" dopo essersi abnegata 
              una vita a dirti che non valevi un cazzo?  
              La premura che riavvicina le mogli e allontana le amanti.Quanto 
              può quel virus. Roba da non crederci.  
            Meno male che ci sono i virus da computer. E i loro quotidiani 
              scopritori che vivono l'esistenza globale con la loro memoria depositata 
              in un hard disk, mica nel cervello.  
              Sono gli stessi che vedono morirsi di "MKucca Pazzxa , (scritto 
              così non per semplice errore di battitura, ma perchè 
              proprio la  
              malattia , non so, prende un poco la tastiera ed un poco le dita) 
              e che si fanno il loro Chek up mentale come un Back up di salvataggio 
              scaricandosi l'antivirus più aggiornato dalla galassia del 
              Web. Come un vaccino.  
              E' un fenomeno che sto sperimentando. La paura della morte telematica. 
               
              Il dire: tu non esisti più perchè sei stato cancellato 
              dalla rete. Ogni tuo passo,  
              ogni tua orma è stata cancellata. Torna, se puoi, ad avere 
              una storia fuori.  
              " Sì ... sì ... dico : " FUUOOOORIIII !!!! 
               
              " Fuori nel senso di vita vera? Quella vissuta con papà 
              e mamma e fidanzata e moglie e figlia e amici e condomini e cani 
              e gatti e tutto il resto? E tutti veri , carnalmente veri? Ma no... 
              ma chi ce la fa più. E chi se le ricorda più quelle 
              sensazioni di faccia a faccia.  
            Cazzo, allora è meglio morire di virus romantici che fottono 
              i computers ed i loro legali possessori.  
              Come "Melissa" od " I love you"  
              Con quelli sì che ci piange il cuore e ci si ribella l'anima 
              digitante, a scomparire.  
              E' come scomparire in un attimo con ancora il sapore in bocca della 
              corrente elettica.  
              Non quella sulla sedia elettrica che t'hanno dato. Ma quella sulla 
              sedia elettrica che t'hanno tolto.  
              E di colpo, e dopo aver partecipato da primattore alla storia d'amore 
              più sensuale, massì, più erotica che ci sia 
              finita così,  
              rispondendo a kappakappa-fi-fi-desiderio @/ tuttoquellochevuoi/ 
              punto/universo/punto.it con un:  
              "E' stato bello, molto bello. Ma io sono sposato con figli. 
              Ho un lavoro avviato che non posso abbandonare  
              E tu sei lontana, troppo lontana per continuare a sentirci. Non 
              ci vedremo mai. (badate bene, dice "mai", non "mai 
              più")  
              Addio, hai versato in me tutto il tuo universo ed io, per quanto 
              ho potuto, l'ho bevuto (bevuto cosa? ,se è lecito chiedere) 
               
              Ho cercato di penetrarti nell'intimo, nell'impossibile, nel proibito. 
              (ah sì? E come? con un tridimensionale scaricabile? )  
              Ma tutto, la realtà soprattutto, ma poi le circostanze... 
              tutto ci impediscono...  
              E' il momento di lasciarci.  
              Per non dimenticarci più ti lascio questo Download. Non è 
              carino, è bellissimo!!! Il mio amore per te lo porterà 
              a spasso  
              per l'Universo quel gattino blù"  
              Commovente, vero.  
              Eppure questa "storia" durava ormai da solo duecentomilioniseicentonovantasette 
              byte.  
             
             
              Capelli 
            Io invece a 33 anni ho capito che non c'era più niente da 
              fare. 
              La moria di capelli sulla mia cervice e sulla fronte assumeva ormai 
              la 
              portata d'una epidemia pestilenziale. L'ecatombe documentata nel 
              fondo del 
              lavandino ad ogni schampo era l'inconfutabile fallimento di ogni 
              cura, 
              anche eroica, di ogni piano annuale di preservazione del mio partimonio 
              capillifero. Paurosamente lo stempiamento iniziato anni prima, aveva 
              cominciato a progredire fino a congiungersi col diradamento dell'occipite 
              che , in alcuni punti, mostrava già zone glabre e lucide. 
              Passavo decine di minuti tragici davanti al controspecchio figurandomi 
              una fine atrocemente calva. O già tiepidamente consolandomi, 
              verificavo 
              le possibilità reali di effettuare la mistificante ed estrema 
              operazione dei 
              calvi non rassegnati: il riporto. 
              Ogni tanto, prendendoli tra pollice ed indice, parlavo coi miei 
              morti e, 
              guardandoli intensamente, chiedevo loro: 
              - "Perchè? Cosa vi è mancato? Dove ho sbagliato?" 
              Intanto consultavo colleghi dermatologi quasi quotidianamente aspettandomi 
              che mi allungassero la prognosi. 
              - Quanti mesi? 
              - Ma quali mesi,... anni. 
              - Quanti anni? 
              - Oh , senti ... in fin dei conti c'è.... 
              - Dillo.. dai... c'è il..... 
              - Il trapianto. 
              Eccolo là. Il guado da attraversare. Il fosso da saltare. 
              La coscienza 
              estrema della tua vanità. Ed il tuo bell'aspetto giovanile 
              ... la tua stessa 
              giovinezza che se ne stà andando.?.. Tu che non sopporti 
              di cambiare 
              te stesso... che gli altri ti cambino.... un manufattore di capelli 
              poi... 
              ma anche... come dicono, che ti spostino i tuoi ... da quà 
              a là..., no.. 
              senza lasciar fare alla natura ... al destino.... alla mia dignità... 
              ai 
              miei principi 
              inamovibili. 
              Nella sottile angoscia del dubbio esistenziale m'ero scoperto a 
              non guardare 
              più , per strada e dovunque mi recassi, le donne, le belle 
              donne. No, 
              m'interessavano gli uomini calvi. E cercavo di cogliere nel loro 
              viso e nel loro fare e muoversi un sottile senso di imbarazzo, di 
              menomazione, di inefficienza. Oppure, quando capivo che portavano 
              bene la loro calvizie, li vedevo floridi, efficaci, come se la menomazione 
              li avesse temprati ad essere più forti e più veri 
              e più seri e più 
              indispensabili. 
              Insomma più uomini essenziali, senza il bisogno la mattina, 
              alzandosi, 
              di dover aggiustare in un qualsiasi modo quel superfluo che erano 
              i capelli. 
              Finii per vederli quasi tutti, indistintamente, belli. 
              E per qualche mese assiduamente frequentai qualcuno di loro, mio 
              coetaneo. 
              Con discrezione, tra i vari discorsi, arrivavo sempre a chiedere 
              loro come avessero vissuto quella condizione acquisita. 
              Uno di loro lo ricordo perfettamente come fosse ora . Alla mia domanda 
              mi guardò prima negli occhi e poi in testa. E non mi rispose 
              nulla. 
              La sua bocca, già gioviale, si atteggiò ad un sorriso 
              di complice ironia, 
              a cui non potetti che rispondere con un sorriso d'altrettanta ironia, 
              ma 
              dolce amara e rivolta tutta a me stesso. Avevo capito una gran cosa. 
              Il cadimento dei capelli non si è mai arrestato da allora, 
              ma non è stato 
              poi così tragico e repentino come temevo. 
              M'ha lasciato il tempo per farmene una ragione. Ed ha lasciato il 
              tempo al 
              mio specchio perchè imparasse a mentirmi docilmente, giorno 
              per giorno, un 
              poco alla volta, riarmonizzando quei pochi capelli al mio volto 
              di ora. 
              Il mio lavandino non inorridisce più per quei miei sguardi 
              persi nel vuoto 
              e i miei colloqui coi defunti, se ce ne sono ancora, sono di pura 
              tenerezza, 
              abbandoni tristi ma necessari. 
              All' idea del trapianto ho dato un calcio definitivo dopo la nascita 
              di mia 
              figlia che è nata con una esuberanza di capelli neri come 
              il papà, ma che 
              poi mi ha fregato imbiondendosi naturalmente, sputando fuori tutti 
              i geni 
              della madre. 
              Quindi posso dire di aver ritrovato la pace dell'accettazione, almeno 
              quella 
              fisica. 
              Eppure, di notte , nei sogni, mi sogno sempre con la capigliatura 
              dei 
              vent'anni, anche adesso, sulla mia faccia di ora che data quarant'anni 
              e 
              passa. 
            PS. E, si badi bene, per strada sono tornato a guardare indefessamente 
              le 
              donne, scambiandoci sguardi senza complessi di sorta, tanto senza 
              complessi 
              che sfidano il fiancheggiare invadente delle occhiatacce di mia 
              moglie. 
              Cara Carla, vorrei dirti : tutte le donne, con o senza tette. Ma 
              sarebbe 
              una bugia pietosa. Diciamo che di fronte, dopo quelle, mi colpiscono 
              gli 
              occhi, e ... di dietro.... se la moglie lo consente.... 
              
              (Torna su)  
             
             Macchia 
              su macchia 
             
              Adolescenza di fine anni sessanta. Feste da ballo in casa 
              di amici (più raro amiche). Occasione più unica che 
              rara per iniziare o concludere un acchiappo timido tramato da mesi 
              con puntate di sguardo a scuola o lungo lo struscio del Corso. Feste 
              organizzate ed aspettate da mesi, generalmente domenicali, con genitori 
              scongiurati ad andarsene fuori o di chiudersi in cucina per tre 
              ore almeno a vedere la TV e non rompere il cazzo (ma la cosa si 
              pensava così come ora, ma non si diceva proprio così 
              come ora). 
              Sedie ai tre lati del soggiornino dignitosino che faceva tanto piccola 
              borghesia post boom economico, con, d'estate, sfogo sul terrazzo. 
              Quindici metriquadrati complessivi a farlo grosso. Essere invitati, 
              i maschi, era come ottenere un posto al sole, era vincere una lotteria. 
              Di solito si invitavano dieci donne e cinque maschi e ci si ritrovava 
              puntualmente con quattro donne e dieci maschi di cui cinque fottutamente 
              imbracatisi all'ultimo momento, con il padrone di casa e gli invitati 
              ufficiali a fare buon viso a cattivo sentimento. Addossato alla 
              quarta ed ultima parete della stanza, un tavolo, e sul tavolo lui, 
              il giradischi. E sul giradischi lui il divin vinile, nero, 
              rigorosamente microsolco, a quarantacinque giri. C'era da sentirlo, 
              stridere e gracchiare sotto la puntina spuntata: che musica celestiale 
              ne fa il ricordo. Allora andava a grido la consolidata canzonetta 
              all'italiana con il "ballo del mattone" di Rita Pavone 
              ed il  
              " non so degno di te" di Morandi. Il gusto di trasgressione 
              si incarnava nella preistoria dei gruppi bit di casa nostra: furoreggiavano 
               
              l' Equipe 84 , I Giganti , I Profeti, i Camaleonti i Dik Dik e quant'altro 
              di curiosi nomi ci si poteva inventare allora. Arrivavano come pregiate 
              primizie da oltre Manica le prime canzoni dei Beatles.La musica 
              era importante sì, ma come pretesto. In fondo, allupati come 
              si era, si sarebbe provato a ballare stretti stretti anche un minuetto. 
              Ma c'era da rispettare un rigoroso palinsesto, nel senso che c'erano 
              pezzi "lenti " dedicati al ballo avvinghiato e semipomiciante. 
              Quello di quando s'abbassavano le luci e tu nella penombra incominciavi 
              la manovra di accerchiamento.  
              Quella sera, Io semifidanzato con Teresa( nel senso che non ti aveva 
              detto ancora sì ma neppure no, ed anzi, ti aveva fatto dire, 
              attraverso una amica comune, un'incoraggiante "forse") 
              .  
              - Balli?  
              - Sì. 
              Nella stanza semibuia andava in onda l'ultima mezzaciofeca languidosa 
              di Fred Buongusto: era l'ideale.Teresa, con una minigonna 
              a mezza coscia e con un profumo al collo e sottoascellare di pura 
              essenza feromonica, mi avvicina la guancia. Io, maledettamente confuso 
              ed istintivo le avvicino il bacino. Lei piega la testa sulla spalla. 
              Io con le mani scese sui suoi glutei me l'attraggo dal basso 
              mentre il mio muso sale e scende a sfioro dalle labbra al petto. 
              Quel coglione di Fred continua a dire "doce doce" E come 
              dargli torto. Il fatto è che sotto, irreversibile e prepotente, 
              è iniziato il processo di esubero. Quanto può durare 
              una canzone? tre minuti? 
              Ebbene, a mezza canzone era già all'alzabandiera; non dissimulabile 
              più, non più sistemabile neppure di lato, esercitava 
              imperterrito  
              una pressione frontale, da sfondamento. Teresa inizia ad agitarsi 
              , cerca altre posizioni, si guarda intorno, prova a divincolarsi, 
              cerca di allontanarmi con la scusa di ravviarsi i capelli. Io mi 
              stacco, ma è troppo tardi. All'imbarazzo segue una languidezza 
              dolcissima 
              annunciata da un fiotto di saliva in bocca e seguita in basso da 
              un efflusso caldo lungo...  
              La canzone finisce come se l'avessero accorciata. Si riaccendono 
              le luci. Teresa, paonazza in volto, è gia scappata dalle 
              sue amiche. Io resto come un ebete al centro della stanza. Mi guardo 
              sotto: una patacca enorme sul pantalone. 
              Genialità, freddezza o disperazione? In un attimo sono vicino 
              al tavolo, frenetico prendo una bottiglia di aranciata, la verso 
              nel bicchiere, lo faccio colmo, mi guardo furtivo intorno. Dietro 
              di me c'è Faustino. Benissimo. Mi giro di scatto, gli sbatto 
              contro con una violenza inaudita e ci versiamo tutto il bicchiere 
              addosso, ma soprattutto lì. 
              Macchia su macchia. 
               
             
               
            (Torna 
              su) 
             
               
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