Il graffio di un treno sulla mia voce
Le scarpe
Napoleone e Maria Waleska
Non esistono ladri d'orizzonti

 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

I racconti di Sandra Palombo

Glauco

Glauco guardò con ansia l'alba, oltre le sbarre.
La sua detenzione durata dieci anni era terminata.

Era finito in carcere dopo aver ucciso, durante una banale lite, un suo vicino di casa.
Al bar gli uomini entravano e offrivano da bere a tutti e lui, quasi senza accorgersene, si era trovato alticcio. Quando entrò Ennio, il suo vicino, un tipo arrogante che da anni lo sfotteva per la sua abitudine di uscire con il cane al guinzaglio, Glauco, taciturno e schivo di carattere, si alzò per andarsene.
Si avviò alla porta. Ennio lo seguì cantilenando: " Bello bello Bibooo...".
Sentirsi deridere di fronte agli altri gli perdere il lume, lo afferrò per il giubbotto e gli si avventò contro. L'uomo cadde e la sfortuna volle che battesse la testa contro uno spigolo con una violenza tale che niente servì a rianimarlo.

Per anni quella scena l'aveva perseguitato, per anni si era chiesto il motivo che lo aveva indotto ad andare al bar quella sera.
Prima della disgrazia, la vita non gli aveva riservato grandi sorprese se non quelle comuni alla maggior parte delle persone. Era stato manovale, poi muratore. Si alzava all'alba e andava a dormire presto.
Aveva tentato di mettersi in proprio, di formare una piccola ditta, ma l'onestà con cui gestiva la società gli aveva impedito d'essere competitivo rispetto ad altri impresari.
I suoi uomini erano regolarmente assicurati, pagava le tasse, non chiedeva favoritismi per le gare d'appalto e la sua impresa non sopravvisse alle regole del mercato. Guadagnava poco e decise di tornare ad essere un dipendente.
Oltretutto, essendo esperto e abile, era ben pagato e alla fine del mese non aveva grane. A parte il lavoro, conduceva una vita schiva. Si era sposato, ma non aveva figli.
Forse questo fu il motivo del suo attaccamento eccessivo a Bibo un bastardo trovato fuori di un casale che stava ristrutturando.

I primi anni in carcere erano stati un inferno. Cercava di trovare una risposta al perché la sua vita avesse preso quella direzione, perché era successo proprio a lui che aveva sempre evitato di trovarsi in situazioni poco piacevoli.
Col tempo si era rassegnato, i giudici avevano compreso che si era trattato di un incidente, l'ergastolo gli era stato ridotto, doveva, in ogni modo, scontare dieci anni di pena.
In quest'arco di tempo, nella realtà carceraria, l'unica novità era stata l'introduzione dei permessi di semilibertà. All'interno le giornate erano scandite dalle tabelle imposte dalla direzione, sveglia, colazione, attività lavorative, ora d'aria, partite a pallone. Chiacchierava a lungo con gli agenti di custodia che per il loro mestiere gli apparivano talvolta doppiamente prigionieri.
All'esterno lavorava come muratore e a Pasqua o a Natale godeva di qualche giorno di libertà. Il breve viaggio era sempre un'avventura, sul treno e sul pullman guardava le persone e immaginava le loro vite, ricamando e fantasticando sulla base di ciò che leggeva sui giornali o vedeva nelle trasmissioni televisive.
Era tranquillo, rientrava in paese, stava in famiglia, scaduto il permesso faceva ritorno al carcere.

Quel giorno invece sarebbe partito per non tornare.
Si guardò attorno, prese la valigia che aveva preparato da una settimana, respirò a lungo e salutando in fretta e furia gli amici, per non cadere nella nostalgia, uscì dal carcere.
La strada gli apparve subito diversa dal solito, più rumorosa, più affollata e si guardò attorno, come se non fosse mai uscito dal carcere. Si diresse a piedi verso la stazione per evitare la calca dei ragazzini sui tram.
Nell'andare il suo passo si fece incerto, la vista gli si annebbiò, iniziò a sudare freddo.
Strinse forte i manici della sua borsa, quasi a cercare un appoggio. L'edificio della stazione, a pochi metri da lui sembrava irraggiungibile.
Aumentò l'andatura per attraversare il piazzale nel minor tempo possibile, ma sbandava, il cuore batteva con un'insolita velocità.
Prese a correre, guardando ai lati per controllare se arrivavano auto.
C'era quasi. Era quasi riuscito ad arrivare al marciapiede.
Gli rimaneva solo superare i binari del tram.
Lo vide arrivare, ma era ancora lontano. Esitò incerto se attraversare o no.
"Sono libero" si disse e andò avanti, il tram frenò ma i tempi in dieci anni erano cambiati in fretta. Gli orologi del conducente e di Glauco segnavano ore diverse.
Glauco morì sul colpo il suo orologio si era fermato il giorno dell'omicidio, fuori la vita era andata avanti.

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LE SCARPE
di
Sandra Palombo

Le scarpe sono sempre state fondamentali nella mia vita.
Ho ancora presente il piacere che provavo quanto scioglievo le stringhe delle alte pantofole di panno scozzese a sfondo rosso, tiravo via i calzini e camminano scalzo sul pavimento.

Sul ripiano dello scaffale metallico sono poggiate due paia di scarpe, quelle da lavoro, moderne, firmate, con la forma quadrata e accanto le vecchie scarpe da ginnastica che da tempo si sono adattate ai miei piedi sino a perdere la forma originaria.
Infilo le ultime con aria soddisfatta.
Fausta scodinzola, anche lei è contenta. Sa che nelle prime ore del pomeriggio di ogni sabato, lavoro e cielo permettendo, usciamo a passeggiare.
Non cammino per tenermi in forma, per quello frequento la palestra, e neppure per abbronzare il mio viso, vado semplicemente perché sto bene in mezzo al verde.

Il mio corpo ha bisogno di compensare.
Ogni mattina, infatti, prendo la macchina e arrivo al piazzale della stazione, parcheggio, monto sul treno e scendo in città dove con un tram raggiungo l’ufficio. La sera, ogni sera, ripeto il tragitto contrario. Il sabato mi metto le scarpe e accompagnato da Fausta finalmente esco in campagna, tra le colline.
Chiudo il cancello del giardino e andiamo.

L’aria è tiepida, la neve non c’è ancora, ottobre è il mese ideale per vagare nei campi.
Scelgo un sentiero sterrato e inizio la mia passeggiata che mi porterà a scendere, a salire, a camminare in piano.
Su di una strada laterale si ferma un camioncino, Fausta abbaia, l’accarezzo sul collo, la calmo e scambio due parole con il conducente, un vicino. Taglio di traverso il sentiero ed entro in una vigna.
Le scarpe affondano leggermente e si sporcano di terra, Fausta annusa e corre veloce avanti e indietro.

Vorrei ci fosse Anna al mio fianco per condividere questi momenti d’ossigeno puro, ma lei non vuole sporcarsi le scarpe. L’ho sposata dopo una delusione d’amore, mi voleva bene, era una cara ragazza. Adesso mi cura, a modo suo: abbigliamento firmato, viaggi in località esotiche, cene con gli amici e serate al cinema. E’ bella Anna, la corteggiano scherzando i miei amici, io sorrido e li lascio fare sapendo che non oserebbero andare oltre.

Ma se fosse? Se mi liberassero dalle scarpe di marca?
Se potessi andare alla ricerca di una donna che nel fine settimana si sentisse libera di camminare scalza sul cotto ? Se volesse poi infilarsi un vecchio paio di scarpe da infangare ?
Esco da una vigna e rientro sul sentiero sterrato, tiro un pezzo di ramo secco a Fausta che corre a prenderlo e lo riporta nelle mie mani.

Arrivo nei pressi di una villa padronale, molto diversa dall’appartamento che ho ricavato da un’ala della casa colonica di nonno Giovanni, ma il proprietario attuale ha ospiti e mi limito a salutarlo con il cenno della mano. Attorno alla costruzione signorile è nato un piccolo borgo in miniatura composto da casolari di servizio, un tempo adibiti a pollaio, cantina, forno e stalla che sono stati ristrutturati e inseriti nel circuito turistico della nuova economia.

Vedo un bambino camminare lungo il sentiero di ghiaino tra i filari d’ulivi ai cui lati brilla il verde dei pampini, gli guardo le scarpe, sono comode e usate e sorrido. Lo osservo scegliere un breve viottolo che porta ad altre vigne degradanti verso la pianura. La madre lo chiama, anche lei calza scarpe comode, è carina, mi piace. A suo agio si avvia verso il bambino, come fosse nata dalla terra.

Guardo l’orologio, è tardi devo rientrare per non sentire i brontolii di Anna.
Stasera si esce a mangiare una pizza con gli amici e dovrò rimettermi le scarpe firmate.


NAPOLEONE E MARIA WALEWSKA
racconto storico di Sandra Palombo


Sierra Ventosa (Isola d’Elba), 1° settembre 1814

Con il cannocchiale appoggiato sulla spalla dell’ufficiale d’ordinanza Bernotti, Napoleone Bonaparte scrutava il mare, lo stesso mare che dopo aver visto la sua ascesa, lo osservava relegato su un’isola in cui non poteva far altro che fantasticare la rinascita: il ritorno trionfale in Francia e in tutta Europa.
Apparve una vela e dall’immobilità passò all’azione, impartì ordini, disposizioni e si preparò a ricevere gli ospiti, la cui identità era conosciuta solo a pochi.
A sera inoltrata, dalla fregata inglese alla fonda nel golfo di Portoferraio, complice il buio, scese una donna velata accompagnata da un bambino, da una dama e da un ufficiale polacco.

Scomparvero in una carrozza tirata da quattro cavalli, diretta al romitorio della Madonna del Monte, sopra il paese di Marciana, dal quale si domina lo specchio di mare che unisce il Mar Ligure al Mar Tirreno e, in esso, Corsica, Capraia, Gorgona, il continente.
Raggiunto il bivio di Procchio, la carrozza si fermò. Napoleone scese da cavallo, salutò la dama velata, si unì agli ospiti e insieme ripresero il viaggio. L’incontro, a quel che tramandano le cronache, fu commovente, baci e abbracci, lacrime e sorrisi.
Per giungere a destinazione era necessario percorrere una strada impervia accessibile solamente a cavalli e a muli. La dama montò a cavallo e il tragitto si fece penoso. La luna era scomparsa, il buio sempre più fitto, i pericoli, precipizi e scogliere, incombevano.
Alle tre di notte, Napoleone davanti alla sua tenda, accolse la donna minuta, delicata, bionda, esile quasi eterea, dolcissima nei tratti e nei modi, con queste parole: «Ecco il mio palazzo».
E avvenne quel che doveva avvenire: due notti e due giorni d’amore in uno dei più bei luoghi dell’isola, dove castagni, rocce, cielo e mare si fondono in un panorama suggestivo, quasi da favola. La dama rimase invisibile, il figlio chiamava papà Napoleone, ma non era Maria Luisa, come tutti credevano e speravano.

Maria Walewska, contessa polacca, corteggiata a lungo e poi amata da Napoleone al punto che dalla Polonia la volle a Parigi, madre di suo figlio, non aveva retto al desiderio di vederlo e abbracciarlo, di correre da lui.
Maria Walewska, moglie di uno degli uomini più potenti della Polonia, spinta dalle autorità polacche a cedere alla corte del Bonaparte per salvare il suo paese, perché liberasse la sua terra, aveva sofferto, si era tormentata, aveva temporeggiato.
L’imperatore a lungo l’aveva corteggiata inviandole mazzi di rose rosse, ma alla ragion di stato subentrò ben presto la passione e con l’amore venne meno anche la promessa di fedeltà eterna al marito. Con lei, all’Elba, Napoleone assaporava di nuovo l’ebbrezza dei giorni felici, ma Maria, sull’isola, era anche il cordone che lo univa alla Francia, all’Europa intera, uno degli anelli che lo avrebbero portato di nuovo a regnare.
Proprio questo sogno fece sì che l’incontro rimanesse segreto, il corso non voleva che giungesse alle orecchie della moglie Maria Luisa d’Austria.
Arrivò il giorno della partenza.

La sera del 3 settembre, mare in burrasca e vento sconsigliavano di salpare le ancore, ma l’esule fu inflessibile, l’amata doveva lasciare l’isola.
Il brick inglese da Portoferraio fu portato nel golfo più riparato di Porto Longone.
Napoleone accompagnò la contessa fino a Marciana, dove senza congedarsi e salutare, si voltò e ritornò indietro in sella al suo cavallo.
Fu l’ufficiale Bernotti a scortarla sino al brigantino ancorato nella cala di Mola.
Una volta rientrato al romitorio l’ufficiale «rinvenne l’Imperatore assiso sopra un tronco di castagno, col capo pesantemente reclinato sulla mano destra, solo, silenzioso, immobile, assorto forse nelle rimembranze destate in lui dalla recente visita»(1).
L’esule attese sei giorni, inquieto, scostante, agitato, scontroso, prima di sapere che madre e figlio erano in salvo sulla terraferma.
Da allora ricominciò a sperare e a sognare.
Maria Walewska, in Francia lavorava per lui per preparare il ritorno trionfale dell’Imperatore Napoleone Bonaparte.

1) Vincenzo Mellini Ponce De Leon, Napoleone I all’Isola d’Elba, Firenze, Leo S. Olschki, 1962, p.146



NON ESISTONO LADRI D’ORIZZONTI
di
Sandra Palombo


Il treno partirà a minuti e i tuoi occhi già indugiano sull’orizzonte alla ricerca dei segni
apparsi alla vigilia di un’altra partenza.
Lassù solo Sirio, bianca come un diamante, ti guarda silenziosa e distante.
Tutto si è compiuto. Tace il cielo.

La psiche aveva provato ad avvertire il tuo corpo, a suggerirgli di non oltrepassare la diga.
La paura d’esser abbandonata t’accecò.
Con lui, in lui, per lui,
ribelle sempre,
contro tutti e contro tutto,
andasti avanti lungo il sentiero intrapreso.
Nella tuo tratturo vedesti i suoi - i tuoi - ideali assorbiti da una madre tiranna.
I segni si fecero verbo, i sogni forme deformi.

Avevi forme e misure perfette.
90 di seno – 60 di vita – 90 di fianchi.
Lui colse il nettare migliore,
ne fece miele e lo ricoverò, in un barattolo, nel pensile in cucina, per assaporarlo al bisogno.
Ogni giorno ti fece sua e ti mise in un vaso, in bella vista, sul tavolo di sala.
Eri un bel fiore.

Minuti, ore, mesi ad aspettarlo alla finestra, davanti alla televisione con le gote bagnate.
Anni di solitudine, rami secchi che scricchiolano, senza spezzarsi mai.
Anni di ribellione messa a tacere da cenni di violenza fisica o mentale.
Anni di cattività, anni di rassegnazione.
Anni di germogli e di frutti agrodolci.

Libri e Martini dry.
Libri e sigarette.
Libri e ragazzi e bambini,
accompagnati con pazienza per un tratto di strada.
Avvocati, musicisti, giornalisti, interpreti,
ora e sempre, in giro per il mondo
e tu, ora e sempre, nella stanza a girare per il mondo sulle orme di Giulio Verne.

Per loro fosti fortezza, lo sarai per la carne della tua carne?

Una cometa, non segnalata dagli astrologi ,dipinse una scia dorata nella notte.
Incantata rimanesti alla finestra.
Poi svanì, come le altre stelle.
Per lui tornasti a essere sorella, madre, nonna amata , ma non donna.
Della donna coglieva solo il sesso, a lui bastava.

La rete cade e lui appeso a un filo, oscilla nel vuoto.
Chiede aiuto per ricostruire la trama assieme a te, ma è tardi per creare un nuovo imene.
Troppa storia, troppi affetti lungo le stazioni .
Non ti resta altro che capire, capire e accettare, accettare ed amare.

Guardalo,
guardalo come un figlio adulto,
soddisfa i suoi desideri con i balocchi,
e con aria materna controlla che non cada e non si faccia male.

Verrà la vecchiaia a porre la parola fine ai doveri o forse arriverà prima la morte .
Comunque sia, l’Ostia spezzata tornerà ad essere tonda e la materia non avrà più peso.