Io sono nato - Enrica Paresce

Io sono nato, da una donna, in grida soffocate e pianto lieve. Era un giorno d'autunno, senza nome, perché maledetto dagli Dei antichi che nelle cime degli alberi riposavano, prima, prima che il mostro venisse ad inghiottirli.
Il giorno in cui sono nato gli uomini venuti dalla piana, lontano e grigio mondo di nebbia e teneri colori, sradicarono la vecchia quercia rossa e le sue sorelle, strapparono il bosso e l'agrifoglio, la fragola e la felce silenziosa, facendo vuoto laddove per secoli si era cantato e danzato la notte di Ognissanti e in altre notti ed albe segrete e sacre.
Gli uomini e le donne, quelli del mio stesso sangue, carne della montagna, figli prediletti di coloro che scivolano fra le rocce dalla neve sino alle radici, erano solo un cerchio di ombre senza suono quel giorno, muti e immoti oltre i fucili dei soldati, mentre il loro futuro di sempre era venduto ad altri Dei. Ma la mia nonna dopo vent'anni ancora sputava irata sulla massicciata grigia della ferrovia, manufatto di una fede straniera che aveva preso il posto di coloro che avevano posto il muschio sulla roccia e che nessuno era mai riuscito a grattar via del tutto dall'animo ruvido di noi che ci aggrappiamo agli alpeggi come il vischio alla quercia. Il mio primo ricordo è il rollio lieve del vecchio tronco che mio padre aveva lavorato a mo' di culla, il suo calore chiaro, il fruscio dei tarli che incidevano labirinti al suo interno e il tintinnio minaccioso dei ferri vicino al fogolar quando il treno passava fischiando, e, insinuandosi fra le fessure delle travi, arrivavano sino a me canzoni sconosciute che si mischiavano ipnotiche al mio sonno lieve di neonato, cullandomi con lo scricchiolar dei rami inceneriti e le vecchie nenie, portandomi via di nascosto mentre andava verso luoghi senza nome.
Che poi quando furono scritti con attenzione sulla lavagna in stazione si son saputi quei nomi, quei luoghi, e andavano apposta a leggerseli i vecchi, rigirandoli in bocca per poi sputarli a terra con aria cupa, le lettere impronunciabili di quei paesi di miscredenti, di barbari, di quei luoghi privi di Dio e carità cristiana come tuonava il prete dalla cattedra della piccola pieve che dominava il villaggio.
Nomi di paesi lontani, ammucchiati a valle, quasi invisibili anche nelle giornate chiare, da cui saliva a monte gente grassa e bolsa, infida, malata e falsa, borbottavano gli uomini mentre lavoravano con i denti stretti e le mani irrigidite dal gelo. Città di perdizione, luoghi privi di morale e popolati da gente crudele e senza scrupoli chiocciavano le vecchie intrecciando cesti e stuoie e arrossandosi gli occhi per cucire panni e stivali, tovaglie e lenzuola.
Luoghi pieni di meraviglie, dove la frutta era miele e la vita spumeggiante come la cascata del ruscello sussurravano i ragazzi e le ragazze più giovani sforzandosi a guardare oltre le cime per scorgere almeno un pezzetto di quel lontano paradiso e passandosi l'un l'altro di nascosto la rivista regalata da un forestiero di passaggio piena di storie incredibili, di disegni con piante strane e visi ancor più estranei. Mappa indispensabile per poter sognare la vita nuova che ne erano sicuri li avrebbe attesi alla prima stazione.
Il treno passava e tornava, andava avanti e indietro spoletta che si trascinava dietro fili di vite da intrecciare ad altre.
Instancabile come la più svelta delle tessitrici del paese.
Fumaiolo, duomo, caldaia, tender. Insieme ai nomi delle erbe questi già nella mente incisi, e come ero
fiero di dare il nome esatto ai cerchioni alle bielle e alle boccole di metallo scintillante.
La piattaforma alla stazione diventava sempre più larga, troppa gente partiva sempre meno rimaneva a salutare affranta.
Il treno si regalava altre carrozze, erano doppi ora i binari che risuonavano come le lamine di un glockenspiel al passaggio della locomotiva in corsa.
Oramai degli alberi che si erano rizzati in cerchio dall'inizio del mondo, con le fronde sontuose di secoli che abbracciavano il cielo come tendaggi imperiali, della luce dorata che filtrava nello slargo, respiro di fate fra cielo e terra, del suono arcano del sottobosco che scompariva all'improvviso diventando roccia muschiosa laddove i primi dei si affacciavano richiamati dai fuochi sacri solo la vecchia nonna Cata si ricordava ancora.
Quel che non era riuscito a mille preti e a mille supplizi di streghe e stregoni era riuscito in poco tempo ad una manciata di lamiera e chiodi.
I vecchi Dei, gli elfi, le fate, gli gnomi eran fuggiti via oltre le cime, e il cibo fuori alla porta rimaneva intatto. Il caglio del latte nella nuova fabbrica non dipendeva più dalla benedizione degli antichi ma dalle procedure imposte dall'ufficio d'igiene
Io, incosciente del male, ruzzolavo spesso per la graniglia secca e tagliente della massicciata. Accoccolato a terra attendevo l'arrivo del treno, l'orecchio gelato sul metallo, poi ecco l'attimo proibito in cui rizzarsi di fronte alle ruote, impavido san Giorgio contro il drago, prima di rotolar via felice di non esser stato divorato, senza sapere che così facendo il treno entrava in me, ed io in lui.
Il fumo, l'urlo stridulo e il battito del mio cuore a soffocare ogni altra realtà lo ricordo ancora vivido come in quel momento, che il treno mi riempiva i panni di strappi e di profumo di fuori.
Un sentore aspro di carbone e di mondi sconosciuti che mi inebriava come quello delle arance dorate che qualche benefattore regalava alla parrocchia per Natale.
Mia madre a casa mi gonfiava di botte sentendo quell'odore straniero, metteva la mano alla cinghia consunta della coramella o alla verga flessibile con cui sbatteva le stuoie.
Ramo di prugno o di rovo, elastico tentacolo strappato al salice che si abbeverava alla fonte su, verso la malga, unico albero del genere per miglia e miglia, tanto simile ad una fata delicata che quando lo vedevi apparire seminascosto in una forra tiepida di acqua termale, ammantato di muschio chiaro come una promessa di primavera ti sembrava di aver varcato una magica porta e di ritrovarti in uno di quei paesi esotici verso i quali il treno correva.
Ma quel salice sarebbe scomparso un giorno impreciso fra l'avvento della giovinezza e la prima infanzia, priva della durezza della riga del maestro. Ed insieme al salice anche mia madre scivolò via dalla mia vita, portata a valle anch'essa da un inverno troppo rigido e bagnato di sangue innocente, mentre al rombo del treno si univa oltre l'orizzonte il tuono dell'artiglieria e il temporale era presenza familiare e non più spaventosa.
Mia nonna annodata su se stessa stava sempre seduta sul treppiede sulla soglia della casa che ora che gli alberi non davano più la loro legna in cambio di preghiere si era fatta ossa di sassi per sopportare il lento disgregarsi della montagna, privata di Dei e radici, c'erano andate a valle sul treno troppe anime di uomini, di donne, di animali e di alberi sradicati. La montagna spoglia di vita si scioglieva in fango. La nonna no, che non aveva più lacrime, secca e gelida stava, opponendo la forza delle sue braccia al tempo del dolore. Le labbra serrate ed oramai invisibili, che mio padre, mio zio e due dei miei fratelli erano fra quelli trascinati a valle dalla corrente di qualche torrente, i polmoni arsi dal veleno umano, ultimo lutto festeggiato dal suo sbiadito vestito nero. Gli occhi fissi al treno, al suo nemico, stava seduta ore e ore cucendo e ricamando per mantenere i nipoti in vita e mormorando parole senza suono. Non ricordo di averla udita parlare per anni ad essere umano, mentre mi arrampicavo sui muretti e sulle tabelline, imparavo a scandire i nomi dei luoghi verso i quali andava il treno, gli orari del suo passaggio, a conoscere i nomi delle parti che formano una locomotiva, le sue forme, i volti degli uomini che la facevano vivere.
Mentre il treno si impossessava di me, del mio futuro. Invadeva il mio spirito ed i miei polmoni con polvere di metallo e fuliggine oleosa, mentre riempiva i miei sogni con il suo sbuffare sovrastando il lieve canto della foresta intorno.
La nonna metteva in tavola minestra e pane nero, borbottava fra se mentre osservava con gli occhi cisposi di troppe lacrime il mio liscio viso di sognatore. Sino a che un giorno mi lesse in volto la scelta che mi apprestavo a fare e afferrò il mio braccio mentre le passavo accanto per entrare in casa a prendere la vecchia cesta in cui avevo messo i miei pochi averi. Primo gesto da uomo, ultimo da bambino.
Mi fermò, mentre stavo per salire sul treno e partire per la vita, finalmente chiamato a rispondere alla Patria e a me stesso del materiale con cui erano forgiati i miei sogni.
La sua mano di roccia e ghiaccio, scabra, invincibile, forgiata dal dolore e dalla devozione al potere antico mi prese, e subito capii di non aver scampo.
Alzandosi lenta e spaventosa si mosse, non più curva ma dritta e fiera nel tempo che per lei era finito. Mi trasse con se sino alla ferrovia senza guardarmi in volto.
Le sue dita mi costrinsero a posare la mia sul ferro gelato di una traversina che vibrava già e i suoi occhi privi di colore mi fissarono appiccando il fuoco alle mie illusioni. Mi disse una parola, una parola sola:- Mai. –
Prima di distendersi ed attendere la morte. Fuggii ma fui costretto a girarmi come se la nonna fosse diventata vento selvaggio ed io banderuola di ferro arrugginito. Vidi la locomotiva impennarsi e roteare, sconfitta dal suo corpo così fragile, e quando si alzò lo stridulo lamento, eco dello sciogliersi del metallo surriscaldato e l'odore di ferro tagliò come gelida ascia il profumo di gemma nuova di pino allora, solo allora compresi che mai sarei salito sul treno, che mai sarei andato altrove.
La strada era sbarrata.Dal sangue, dal potere, dalla mia stessa natura. Tornai a casa in silenzio, gettai libri e sogni nel pozzo, presi lo zaino e mi rivolsi alla foresta dei miei avi.
Mi ci immersi.
Vissi arrampicandomi alto, raspando fra le radici e il fango, fra le pietre ed il muschio.Vissi come cinghiale e cervo, come ghiandaia e lupo. Ubriacandomi di acqua pura e cibandomi d'erbe e bacche. Mai più varcando la soglia di una casa fatta da mano d'uomo.
Senza più parlare ad essere umano, che io ero quercia e rovo, che erano scivolati in me gli Dei quel giorno e solo guardando negli occhi di vetro di mia nonna avevo visto chi ero. Potere privo di forma, anima priva di sollievo. No, per quanto alte si alzassero le voci dei miei familiari affranti non era cosa da condivider con altri il mio fardello.
Solo fra rocce e ghiacciai abbeverando l'anima con la bellezza di un fiore nella neve e la mia voglia d'amore con la carezza del muschio sulla guancia, guardando le stelle oltre le cime senza osare immaginare cosa si stenda ai loro piedi.
Lo sguardo ai monti ed il cielo, senza mai chinare lo sguardo al treno a valle, al treno, al villaggio, al treno, alla ferrovia, al treno.
Al mondo oltre. mai.
Anche così, muto sordo e cieco, sapevo: li vidi andare i miei fratelli, i miei amici, i miei nipoti.
Li vidi salire sui vagoni, mettere piano il piede sul predellino incerti, e poi venir risucchiati via in una nuvola di fumo, per andare oltre l'orizzonte.
A volte li sentivo ritornare, antichi di rimpianti e stranieri di cibi sconosciuti e parole. La loro essenza filtrava per radici la loro voce mi veniva portata dal vento divisa in mille echi e trattenute dalle dita contorte delle foglie d'autunno, il loro odore impigliato negli aghi degli abeti. Io li spiavo, sorridevo della loro gioia, piangevo ai loro dolori, seduto sulle radici della terra, nel sottobosco umido o nel secco scricchiolare del terreno nudo sotto le abetaie più in alto, dove c'era solo il cielo a farmi da soffitto.
Ed è venuto il giorno, un giorno privo di nome e di passato, che la mia vita è sgorgata via dalle troppe incrinature del mio corpo.
L'ho sentito arrivare quel giorno, e son tornato a casa per sedermi vicino al vecchio pozzo sbocconcellato e attendere l'alba che non avrei visto arrivare, accanto ai miei vecchi sogni di ragazzo, ai libri e al cappello da capostazione che erano marciti già da tempo senza dar frutti.
Mi hanno sepolto lì vicino, lontano dalla terra consacrata, ma accanto al treno che non ho mai potuto prendere da vivo.
Vicino.
Tanto vicino da sentirne il battito, il respiro. Tanto vicino.
È stato, mentre il sangue evaporava in altre vite e i vermi mi liberavano del peso della materia, e la coscienza di esserci ancora mi rischiarava l'anima, solo allora, all'improvviso, ho sentito che ero finalmente libero. Certo ero solo fango e desiderio, ma non vi era più confusione ora, solo un pensiero. Il potere c'era però, quel potere che mi aveva invaso e condannato, ora era mio, e mi son fatto acqua, humus, polvere ed erba. Mi sono arrampicato per le radici dei nontiscordardimé, per quelle del trifoglio e la gramigna. Son filtrato lentamente, centimetro per centimetro a guadagnarmi quello a cui la mia vita aveva teso per tanto tempo, un tempo. ma il tempo ormai per me non ha confini. sino a raggiungere la massicciata ad impregnare il legno e i ferri, sino ad aggrapparmi alle ruote di questo treno in corsa.
E sono qui ora.
Che fischio, che rido e mi dispero.
Mi vengono incontro l'acqua verde del fiume, l'azzurro del mare il turbinare inconsulto delle città, il giallo dei campi, la pianura, le montagne dalle forme ignote, risuonano gli scambi e le fanfare.
Vita che mi brulica intorno e poi deserto.
E vado e vado e vado e vado e vado e vado.
Suono, velocità, odore, ardore.
Io.
Il treno.
Figlio di carne un tempo, ora metallo.