1) Mi buttano su un letto di paglia in due
2) Di sicuro si amavano
3) E per sempre chiederai scusa
4) La tela
5) Analisi in tempo reale
6) Lo sento ancora denso quel boato
7) Quella sola notte del colonnello Tibbets
8) Senso di colpa
9) Uomini sul divano
10) Colpevole di libertà
 
 

 

 

 

"La colpa"

Mi buttano su un letto di paglia in due
di Mario Robusti

Mi buttano su un letto di paglia in due. Sembro un sacco di spazzatura che vola dentro un cassonetto. Atterro. Sbattendo la testa contro il muro perdo i sensi.
Mi risveglio dopo non so quanto con un occhio chiuso dal sangue raggrumato. Mi fa male dappertutto. Cerco di biascicare qualcosa, un urlo, un imprecazione, non lo so. La lingua batte su un incisivo e lo fa saltare. Mi devono aver picchiato anche in faccia. Sento l'odore dei peli bruciati. Si sono divertiti con un tizzone sulle mie braccia. Ieri, o forse l'altro ieri... no, probabilmente era lunedì, due giorni dopo la cattura.
Mi hanno condannato a morte. Lo so, devo solo aspettare che entrino a prelevarmi, mi portino sul piazzale e mi sparino. Niente di più. Ho sbagliato a fare il partigiano in questa guerra, lo sapevo che sarebbe finita male. Anche Giselle me lo aveva detto, prima di lasciarmi partire. Stai attento, non andare, ti prego. Parole che non sentivo. Andavo a sparare a chi ha invaso la mia casa, e lo facevo anche per lei.
Che strano... tutto questo silenzio... cerco di muovermi, ma subito qualcuno mi ordina "ssssshhhtt!". Mi blocco per cercare di ascoltare anch'io. Un ordine in lingua sconosciuta, violento, rapido. La porta del braccio della morte viene spalancata. Sento i passi di più persone nel corridoio. Cercano di seguire un ritmo, ma li sento nervosi, sono un pelo fuori tempo. Nemmeno questo sanno fare.
"Condannati 4558F, 4355A, 3988B e 1994A!"
1994A... cerco di guardare il numero della mia camicia mentre fuori iniziano le urla dei prelevati. Qualcuno sta piangendo. Io sono il numero 4550F. Forse è il 1994A... dev'essere da tanto che aspetta questo momento. Magari sta piangendo dalla felicità. Chissà cosa vuol dire passare tanto tempo in mezzo a dei condannati a morte. Però ha vissuto più degli altri, forse. Dal corridoio si sentono pugni e calci. Le urla diminuiscono in lamenti. Dalle altre celle solo silenzio.
I soldati stanno parlottando fra di loro. Non riesco a capire. "un, due, tre". Poi i passi si allontanano, più precisi, ritmati. Dietro di loro, strascicati, i passi dei detenuti. Sento un condannato pregare a bassa voce; "Ave maria, piena di grazia, il signore è con te...".
4550F... devo cercare di ricordare. Prima delle torture, mi hanno processato. Hanno catturato assieme a me Walter, Franco, Michele e Lupo, quel bastardo traditore cane di merda. Forse il 4558F è uno di loro. Forse è proprio quella testa di cazzo che facendo il doppiogioco pensava di cavarsela.
La porta viene richiusa. Sta piovendo, me ne accorgo solo adesso. Una goccia di infiltrazione cade dal soffitto per terra, con regolarità.
"Se non vuoi altre botte la prossima volta che entrano per chiamare al muro, stai zitto e fermo, chiaro?"
Cerco di alzarmi. Mi stupisco del fatto che le mie gambe reggano quella poca carne di me che è restata. Mi appoggio alla feritoia per guardare la cella di fronte. Ne esce un dito puntato verso di me. Mi viene da ridere a guardare quella mano nella penombra e il dito bianco, che stona totalmente con la porta piombata e verniciata di nero della cella. Ma appena muovo la mandibola mi prende una fitta mostruosa e mugugno.
"Non ti serve parlare, ragazzo. Primo perchè ti avranno già spezzato la mandibola per farti parlare, canaglia, e poi perchè il vecchio Ribben non riuscirà mai a sentirti. Gli hanno forato i timpani con un chiodo. Ormai quando entrano fa sempre questa sceneggiata. Vede le ombre e si piscia sotto dalla paura."
Il tizio dell'ultima cella ha ragione. La mandibola mi fa un male cane, non riesco a muoverla. Le mani mi tremano mentre cerco di capire cosa mi hanno fatto. No. La mandibola è solo spostata. Cerco di appoggiare una mano sul mento e l'altra sullo zigomo sinistro. Con una torsione la mandibola torna a posto. Mi piscio addosso ed urlo. Continuo per un paio di minuti a mugugnare il mio dolore. Mi addormento piangendo. 4 spari in successione mi svegliano, ma sono troppo stanco. Mi sono addormentato per terra, sotto la goccia d'acqua. Vedo una ciotola di pane e minestra, ormai fredda. Sento l'odore e mi viene da star male. Sorseggio la brodaglia e poi mi trascino sul letto.

All'alba mi sveglio. Il rumore della serratura risuona per tutto il corridoio. Ancora passi non ritmati, stavolta più lenti.

"Numeri 4355A, 3990B, 4553F e 4550F"
La mia cella si apre. No,no,no. No!!! NON VOGLIO MORIRE! NON VOGLIO MORIRE! NON VOGLIO MORIRE!
Urlo un po', mi divincolo, ma loro sono in 4, non posso fare niente, niente, NIENTE! Mi legano i polsi e iniziano a picchiarmi in faccia, nei reni. Non toccano solo le gambe. Mentre mi picchiano ridono e chiacchierano fra loro, ed io non voglio morire! Ci legano i polsi e ci portano fuori. Hanno ai piedi dei grossi anfibi con la punta di ferro. Appena si chiude la porta sento il vecchio Ribben che ripete la sua nenia: "Se non vuoi altre botte la prossima volta che entrano per chiamare al muro, stai zitto e fermo, chiaro?".

Primo colpo di pistola. Ho paura. Il corpo di 4355A cade nel fango. Alza qualche zampillo d'acqua sporca, assieme alla piccola fontana che gli esce dalla nuca. Il cranio è ancora intero. Vedo tutto perfettamente, anche i gerarchi che compiaciuti osservano i nostri corpi cadere a terra. Sto tremando come una foglia.
Secondo colpo di pistola. Il corpo di 3990B fa la stessa fine del precedente. Il giustiziere non ha avuto molta perizia, e qualche schizzo di sangue mi finisce sulla faccia. Piango disperato e mugugno tutta la mia paura, ma non servirà a niente, a niente! fra poco la pallottola mi entrerà nel cervelletto e smetterò di soffrire. Perchè? Perchè? Perchè?
Dietro di me si avvicinano due passi. Sento il terzo colpo di pistola. Mi accascio. E' proprio vero, ti passano davanti i momenti più strani della vita l'attimo prima di morire. E' come se una cassetta arriva alla fine e il videoregistratore riavvolge automaticamente il nastro. Ma dura molto tempo questa cosa, non pochissimo come dicono tutti. Smette quando un calcio ai reni mi sposta e mi fa urlare. I gerarchi ridono. Mi arriva il manico di un fucile in testa. Svengo.

Mi risveglio nella mia cella. C'è da mangiare, vicino alla porta. L'acqua infiltrata dal soffitto mi è caduta tutta addosso perchè stavolta mi hanno buttato per terra, in mezzo alla cella. Ma non è acqua. E’ rossa, tutta la mia maglia è rossa, appiccicosa. Non è acqua. Qualche scarafaggio mi cammina sulla schiena. Mi straccio di dosso la maglietta. La goccia d’infiltrazione, capisco che è voluta. Sopra le celle c’è il piazzale. Sotto cola tutta l’acqua e il sangue. E poi entra come gocce nelle celle. Cerco di trascinarmi fino al letto, ma non ci riesco. Mi giro sulla schiena ed inizio a piangere. Un’altra goccia sulla pelle. Tremo. Poi mi trascino fino alla minestra. E' ancora calda. La bevo. Mi torna in mente tutto quello che è successo prima. Mi addormento ancora e sogno di essere il proiettile che si avvicina alla mia testa, ai miei capelli. E poi, sorridendo, di colpo decide di deviare e di entrare nella testa di 4553F.

Quando i militari tornano nella mia cella dovrebbe essere il tramonto. Dal corridoio entra poca luce, che va via via affievolendosi. Ho ancora paura. Stavolta mi chiedono qualcosa nella loro lingua. Io giro il volto e vedo le loro facce rasate e pulite. Uno ha gli occhi azzurri ed un naso grosso come una patata. Porta un cappello da graduato. E' grasso, lo è per forza anche se non vedo bene il corpo. La divisa nera stagliata sulle pareti nere mi fa sembrare i due soldati solo facce cattive che si muovono come fantasmi, nella mia testa. Il grasso fa un cenno all'altro, che ha la faccia scolpita nella roccia. Mascella quadrata, occhi neri, naso da corvo. Mi sputa in faccia e poi punta il suo stivale destro sull'indice della mia mano sinistra. dice "figlio di puttana" e sposta tutto il peso del corpo sul mio dito. Si rompe. Mugugno. Non voglio dargli la soddisfazione di sentirmi urlare. Passa al medio. Sento la suola appoggiarsi sull'unghia e poi spostarsi lentamente su fino alle nocche. Il grasso si abbassa e mi chiede "parla. Avanti, parla. Dove si nascondono i tuoi amici?"
Voglio parlare, lo voglio fare, non ne posso più. Devo parlare!
Ma non ho abbastanza reattività e prima ancora di poter aprire bocca, l'altro sposta il peso sul dito. Urlo. Si rompe.
Ancora, sadico, ride, sposta l'anfibio sull'anulare. Il grassone mi sputa addosso e urla nella sua lingua qualcosa di incomprensibile. Poi mi indica un punto del corpo, su cui il bestione posa tutto il suo peso. E' l'inguine. Urlo, cerco di spostarmi, ma ci riesco solo quando il grasso dice "alt..", con lo stesso tono di voce che uno userebbe per dire "prego, si accomodi, gradisce un the?". Poi mi chiede ancora di parlare:" Avanti, parla. Non vuoi smettere di soffrire?"
Capisco che se dico qualcosa, vorranno sapere sempre di più. Mi tortureranno sempre di più. Sto zitto.
Il grassone allora si ferma, pensa. Dall'odore di tabacco si dev'essere acceso una sigaretta. Intravedo lontano, quasi provenga da un altro luogo, la luce della brace che si illumina e disegna i contorni di una faccia lardosa, grigia, con due occhialetti rotondi da porco schifoso dei cartoni animati. Sto per vomitare dal dolore.
"Sai, io credo che la paura sia il metodo migliore per far parlare la gente. Da oggi tu morirai tutti i giorni. Prima giustiziamo tutte le persone che ci sono qui, poi tutti i giorni ti portiamo davanti ai loro corpi e decidiamo cosa fare. Se parlerai bene, forse troverai pace nella morte. Se starai zitto...".

Non avevo niente da dire. Quindi hanno fatto di peggio.
Ammazzavano un compagno di cella ogni settimana. Prima di ucciderlo lo portavano dentro alla mia cella. E per 7 giorni vivevamo insieme. Il primo è stato Ribben. Quando ci hanno portato nel cortile, stavo piangendo. Ci hanno fatto sedere su due sedie, una di fronte all'altra. Dovevo guardarlo in faccia, mentre lo giustiziavano. Sorrideva, canticchiava. era felice di morire. Oppure pensava che avrebbero ucciso me, o tutti e due. Ribben era sordo ma leggeva il labiale. Mai conosciuto una persona più meravigliosa di lui. Parlava sottovoce di Dante, citava poesie, una dietro l’altra, piano, piano, come a convincersi di essere in un luogo diverso. Quando c’è stato il sole e ha visto il celo azzurro ha iniziato a descrivermi il paradiso. Dev’essere stato dentro tanto tempo. Voleva solo vedere come erano davvero i cieli danteschi.
Quando mi hanno portato in cella il secondo carcerato, Carlo, 4561F, gli ho raccontato tutto. Ha cercato di soffocarmi 4 volte. Hanno deciso di ammazzarlo prima. Hanno avvicinato le sedie e mi è caduto in braccio. Ho inventato quattro fregnacce per cercare di farli smettere. Hanno smesso, per picchiarmi. “Non mentire, devi parlare. Dove vi nascondete, parla!”
Hanno continuato con tutti i compagni, ed uno alla volta li ho guardati negli occhi morire. Dopo il quinto, sono diventato apatico.
Allora hanno portato nella mia cella una donna, Michela. La trappola era perfetta. Ci hanno lasciati in cella per 2 settimane. Abbbiamo fatto l’amore. Pensavo di averla messa incinta. Quando sono venuti per ammazzarla di fronte ai miei occhi hanno dovuto picchiarmi ancora. Ho giurato di dire tutto, mi sono inventato che stavamo sull’Adamello e che i nostri contatti erano a Riva. Mi hanno lasciato in pace per tutto il giorno. Sentivo i camion e i soldati partire.

Durante la notte le ho messo un cuscino sulla faccia, e l’ho abbracciata il più forte possibile. E’ stata la mia ultima notte. Al mattino hanno scoperto il corpo di Michela. Mi hanno picchiato, rotto qualche costola, credo, perchè poi non ero più in grado di muovermi senza sentire forti dolori.
E’ iniziata la demenza da lì. Per due giorni mi hanno usato come pupazzo. Rannicchiato sulle ginocchia non facevo che dondolarmi e cercavo di dimenticare i suoi occhi e i mugugni. Davanti ai miei occhi avevo le mani piene di graffi. Non riuscivo più nemmeno a piangere, ma solo ad emettere una “a” prolungata, quando mi picchiavano. Alla fine hanno deciso di liberare la cella. Mi hanno portato nel piazzale, mi hanno legato le mani. Ridevo e mugugnavo, con un filo di bava alla bocca. Aspettavo di vedere Michela, mia guida nei cieli danteschi.
Poi il proiettile, come nel sogno, è uscito dalla canna della pistola e, sorridendo, è entrato nel cranio.