Espressioni 
                di vita
               Fa caldo e non c’è davvero 
                un buon odore. E’ notte, le undici e trenta e questo vecchio 
                treno per Nizza partirà tra circa un quarto d’ora 
                per un viaggio di oltre 10 ore.
              Ho già preso possesso del mio letto. Ci ho appoggiato 
                l’ultimo romanzo di Marquez ed il lettore Cd. La cuccetta 
                più bassa, poco più di mezzo metro di spazio tra 
                il pavimento ed il letto superiore, a me da l’idea rassicurante 
                di una tana, dove raggomitolarmi, appartata, nascosta.
                Si, fa caldo e c’è un odore forte, acre, ma sono 
                serena e rilassata all’idea di godermi in solitudine queste 
                lunghe ore notturne, libera di non dormire e leggere ed ascoltare 
                la musica fino ad esserne stanca.
              Da qualche minuto è salito un ragazzo. E’ fermo 
                all’inizio del vagone e parla al cellulare in spagnolo, 
                con la dolce e lenta inflessione Sud americana. Appoggiata al 
                finestrino del corridoio, lo ascolto più che osservarlo, 
                non mi colpisce il suo aspetto, ma il suo idioma.
                Prende in spalla la sua sacca e viene dalla mia parte. Mi guarda 
                distratto mentre continua la sua conversazione poi controlla il 
                numero sul mio scompartimento ed entra. E’ disinvolto, forse 
                viaggia spesso in treno da solo. 
                Io, al contrario, ho appena realizzato che sarà il mio 
                compagno di viaggio, l’unico ormai, e la cosa non mi mette 
                fortemente a disagio. 
                E’ indaffarato, tiene il telefono incastrato tra spalla 
                ed orecchio. Lo osservo riflesso sul vetro. E’ alto e magro, 
                quasi ossuto. Il viso è piuttosto spigoloso ma addolcito 
                da labbra carnose. Ha capelli scuri, quasi neri, spettinati, ma 
                con stile.
                Ha attaccato. Si guarda attorno, appoggia la sua borsa sul porta 
                bagagli in alto e sistema una specie di cartella colma di fogli 
                sul letto sopra al mio. Forse è uno studente o magari (chissà!) 
                uno scrittore o un poeta.
                Torna nel corridoio, mi sorride cordiale e si siede a leggere 
                su uno strapontino. Rispondo al suo sorriso ma subito sfuggo, 
                intimidita e imbarazzata, sgattaiolando dentro lo scompartimento 
                con la scusa, piuttosto credibile, di aprire il finestrino. Il 
                caldo è soffocante all’interno.
                Immagino che tra poco verrà a dormire, visto che è 
                già mezzanotte. Non vorrei trovarmi faccia a faccia con 
                lui nel metro quadrato dello scompartimento, pertanto mi rifugio 
                nella mia “tana” e sdraiata, infilo nel lettore il 
                CD di Paul Simon. Mi chiudo a ciò che mi sta intorno tappandomi 
                le orecchie con gli auricolari e immergendomi nella biografia 
                di Gabo.
                …
              Cos’è questo fischio? Apro gli occhi. E’ buio, 
                deve aver spento lui la luce. Ma che ore saranno? Il libro mi 
                cade a terra…cavolo devo aver perso il segno! 
                Mi sento strana, conosco questa situazione tra il sonno e la veglia 
                e non mi piace. Rimango in attesa di qualcosa, sperando che non 
                arrivi. 
                Ma già le mani mi sudano. Cosa diavolo faccio? Mi alzo? 
                No! Rimango sdraiata! Devo rilassarmi, a pancia sotto. Una scossa 
                mi attraversa le spalle, brucia, la pelle sembra calda e ghiacciata 
                allo stesso tempo. Dio devo controllarmi, non posso svegliarlo, 
                cosa penserà?
                Ma niente, non passa. Non è come le altre volte, è 
                più forte… magari no…perché, perché 
                non passa?…devo respirare… respira…no niente! 
                Adesso che faccio,? Sento che sto morendo, il cuore mi scoppia…
                Mi alzo! 
                Ma come diamine si apre questa porta?!
                Una voce: “Che pasa? Che succede? Stai male?” Chi 
                è? Oddio si è svegliato, mi dispiace… “Non 
                ti preoccupare è solo una crisi di panico, ora passa…ora 
                passa…credo..” Voglio rassicurarlo. A morire di paura 
                basto io. Ma non penso di averlo convinto.
                Mi stringe forte. Mi accarezza i capelli. “Tranquilla, non 
                sei sola, ci sono io”. Ma chi sei tu? Perché dovrei 
                stare tranquilla, non lo vedi che tremo come una foglia, cosa 
                mi succederà?
                Continua ad accarezzarmi i capelli… va bene mi lascio andare… 
                tanto non ho scelta. Mi aiuta a sdraiarmi sul letto e si sdraia 
                accanto a me. Comincia ad andare meglio. Ho ripreso il controllo.
                Mi vergogno, cosa starà pensando? Che sono pazza? 
                Mi accarezza il braccio. Ora scende sui fianchi…perché 
                non lo fermo? Dovrei farlo, ma… 
                Muove le sue dita sulla mia pelle come sui tasti di un pianoforte, 
                poi si ferma e affonda le dita con energia, ma senza farmi male. 
                Riprende a fare su e giù sulla linea dei miei fianchi… 
                mi giro, lo guardo. Come può essere tanto naturale?
                Lui non è un estraneo, lui è un sogno che accolgo 
                senza riserve. 
              Baciami, a lungo, con tutta la passione e la necessità 
                che sento anch’io. Non lasciare le mie labbra. Lascia cadere 
                i nostri vestiti su questo sudicio pavimento, fammi sentire il 
                calore della tua pelle e lasciala aderire alla mia fino a che 
                non la sentirò parte di me, prendi tutto ciò che 
                vuoi…
                …
              L’altoparlante: “Nice ville, station de Nice Ville”. 
              
              Il Capotreno mi prende la valigia e mi aiuta a scendere. 
              Io e Gabriel abbiamo preso il caffè insieme stamattina. 
                Siamo rimasti a lungo abbracciati, in silenzio, un silenzio meraviglioso, 
                che non chiedeva di essere riempito da parole inutili. “Io 
                sono arrivato” ha detto poi mentre il treno si fermava, 
                con il suo solito stridulo fischio, nella stazione di Monaco. 
                Si è alzato, ha preso la sua sacca. Dalla cartella piena 
                di fogli ne ha tirato fuori uno meno stropicciato. Me lo ha messo 
                sul letto. Mi ha dato un bacio sulle labbra, un soffio leggero. 
                “Buona fortuna” mi ha detto ed è andato via.
                …
              “Nice Ville station de Nice Ville”. 
              Ringrazio il capotreno e prendo la valigia. Mi asciugo le lacrime. 
                Mentre mi avvio verso l’uscita rileggo le sue parole ancora 
                una volta:
              “Non sei pazza, solo viva e piena di passione. Non sarai 
                mai completamente felice, ma sarai fortunata. Non sarai soddisfatta, 
                ma avrai quanto di più bello il mondo abbia in serbo per 
                te”.
              
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              Tum 
                Tum Tum
              La scorsa estate mi sei rimasto chiuso dentro. Hai 
                bussato e ti ho fatto entrare, ma avevo dimenticato quanto quella 
                giovane serratura fosse già difettosa. Certo se tu non 
                mi avessi distratta in quel modo, se avessi smesso di martellarmi…. 
                Dico almeno un momento! Magari me ne sarei ricordata, ci sarei 
                stata più attenta. 
                No invece. Tum, tum, tum, un continuo picchiettare come se avessi 
                avuto paura che non potessi sentirti. Come se tu non potessi attendere 
                quei quattro passi che mi separavano dalla porta. 
                Se mi avessi dato un attimo di tregua, magari avrei riflettuto, 
                avrei misurato mentalmente lo spazio, mi sarei accorta di quanto 
                stretto fosse e di quanto malandata fosse quella porta.
                Certo non posso dare a te tutta la colpa. Non dico che potevo 
                ignorarti, facevi un gran chiasso, ma in fondo i tuoi colpi erano 
                regolari, avrei potuto lasciarti bussare imparando a muovermi 
                al ritmo di quel picchiettio, finendo per non farci più 
                caso, per “assorbire”, per così dire, questa 
                variante.
                Ma, che vuoi, le circostanze.. non ero abbastanza sobria, non 
                sarei mai riuscita ad andare a tempo.
                E cosa credi che non lo abbia sentito quel cigolio abbassando 
                la maniglia? Magari tu non potevi saperlo, ma io, se solo avessi 
                avuto il tempo e la lucidità, avrei capito che quello stupido 
                congegno non avrebbe funzionato un’altra volta.
                Così sei entrato nella mia mente, con la stessa caparbietà 
                e l’incoscienza di un topo che corre verso il formaggio 
                e non si preoccupa della trappola. E ti sei trovato chiuso, in 
                uno spazio piccolo piccolo, quel poco rimasto, nel groviglio di 
                incertezze, memorie, paure, passioni, sentimenti… claustrofobico 
                tra alte pareti di incoerenza e indecisione, instabile su un terreno 
                vischioso, un letto fangoso di egoismo dove si andava asciugando 
                un fiume di sensi di colpa.
                Hai ammirato affreschi dai colori tenui e ascoltato versi poetici, 
                ma ti sei dovuto tappare le orecchie di fronte ai gridi e alle 
                risate da bambina.
                Hai afferrato la maniglia per tornartene fuori, ma quella traditrice 
                ti è rimasta in mano. 
                Ed allora hai ricominciato a bussare. tum, tum, tum. Di nuovo 
                come se avessi paura che non ti sentissi.
                Certo che ti sentivo, eri dentro di me, non solo ti sentivo battere, 
                ma mi facevi anche male alle volte.
                E non potevo farci nulla. 
                La cosa peggiore era averti dentro e non poterti vedere, toccare. 
                Anche solo parlare. Ho provato a decodificare i tuoi colpi, a 
                imparare (o inventare) quel tuo linguaggio. 
                Credo che tu mi abbia chiesto di smettere di amare, di avere paura, 
                di ricordare, di cercare di decidere, di desiderare… di 
                pensare. Anche solo per un attimo. E ti giuro che ci ho provato 
                a darti una tregua. Ma non ci sono riuscita. 
                Ansi. Cercando una soluzione ti ho gettato addosso un altro fiume 
                di sensi di colpa e per poco non ti affogavo. 
                Poi ho iniziato a capire. Qualcosa potevo fare. Mi sono concentrata 
                su quel tuo bussare: tum, tum, tum. Ho associato freudianamente 
                quel rumore ad un martello, con una bella testa pesante, un arnese 
                di grandi dimensioni con un bel manico lungo e solo a questo ho 
                pensato intensamente per qualche istante.
                Grazie a Dio lo hai visto. L’hai afferrato, con caparbietà 
                ed incoscienza. L’hai fatto roteare tra la paura e l’eccitazione. 
                Hai preso la mira, proprio lì, dove la maniglia traditrice 
                era venuta via. E TUM, TUM, TUM, ma molto più forte delle 
                altre volte, forte da sconquassare ogni mio pensiero, ogni affresco, 
                ogni fiume. 
                E così la porta si è aperta. Ma non con forza, insomma 
                con un simile baccano, uno si aspetta che quasi venga giù. 
                No. Lei con calma, si è leggermente schiusa. Mi piace pensare 
                che nel guardare fuori tu abbia avuto un attimo di dubbio, di 
                indecisione. Comunque sia, te ne sei uscito, anche se magari con 
                passo incerto. Ed io sto ancora cercando di far cessare questa 
                maledetta eco: tum, tum, tum…
              
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              Solitudine
              Marianna è avvolta nel suo soprabito delle grandi occasioni. 
                Il vestito di raso e chiffon color rosso bruno sfiora l’asfalto 
                bagnato, mentre lei con la chiave in mano è rimasta ferma, 
                davanti alla porta, invasa improvvisamente da un pensiero, inconsapevole 
                perfino della pioggia che la infradicia senza clemenza.
                Ma dura pochi istanti l’incoscienza, riprende a respirare, 
                apre la porta. Non ha tempo di accendere la luce, si butta sul 
                divano, si rannicchia, si chiude. 
                Riprende il pensiero sospeso.
                Lo riprende da capo, per non perderne il senso, come se stesse 
                leggendo lo scritto di qualcun altro.
              La prima dello spettacolo è stata un successo. Marianna 
                ha dato il meglio di se: giusta l’intonazione della voce, 
                giusti i tempi, mai un eccesso, perfetto. Eh, ma quanto lavoro 
                dietro! Quanto l’hanno assorbita le prove, quanto ha cercato 
                quella perfezione, ogni giorno un piccolo ma sostanziale miglioramento.
                Il pubblico di una prima è esigente, Marianna è 
                una stella perché sa ogni volta come conquistarlo, come 
                appassionarlo, qualunque ruolo le venga chiesto di interpretare.
                Sulla scena si è sentita di nuovo infallibile, ha sentito 
                il cuore di centinaia di persone battere per lei, ha avvertito 
                tutta l’invidia e l’ammirazione delle donne, tutto 
                il desiderio e l’approvazione degli uomini. 
                Che frastuono di emozioni si sono rincorse nella sua testa quando 
                si è chiuso il sipario sotto uno scroscio di applausi!
                Ancora inebriata si è seduta sul sedile posteriore dell’auto, 
                e stanca e soddisfatta ha permesso al silenzio di calare pian 
                piano su lei. Solo a metà strada, mentre osservava le traiettorie 
                diagonali delle gocce nel fascio di luce dei lampioni, ha sentito 
                quel fastidio, quel malumore sottile che veniva a rovinarle la 
                festa. E visto che proprio non le sovveniva nulla che potesse 
                essere andato storto, ha dato la colpa alla stanchezza, senza 
                però esserne troppo convinta
              Pochi istanti dopo, davanti alla sua porta, mentre l’autista 
                faceva manovra per ripartire, Marianna ha improvvisamente capito. 
                
                E’ incredibile come, alle volte, in un solo istante, tutto 
                il contenuto della nostra vita ci si illumini davanti agli occhi 
                come rischiarato da un fulmine, come da un momento all’altro 
                troviamo il coraggio di affrontare quel mostro che abbiamo chiuso 
                nel più profondo degli anfratti senza neanche averlo mai 
                visto bene in faccia. Ed ora, stretta a se stessa sul suo divano 
                Marianna chiede a se stessa la verità.
              Dov’è adesso tutta quella gente che era a teatro, 
                cosa stanno facendo i giornalisti che in conferenza stampa l’hanno 
                adulata?
                Per tutta quella gente che la lusinga, che conquista ad ogni rappresentazione, 
                che la osanna alle volte.. quanto è importante lei in questo 
                momento, in ogni momento?
                Per questi estranei che, passate due ore ad ammirarla, riprendono 
                la loro vita, bella o terribile, magari solo normale, mediocre, 
                cos’è lei?
                Marianna conosce la risposta da sempre, anche se per la prima 
                volta si pone la domanda.
                Lei è uno spettacolo teatrale, un breve pausa di fantasia, 
                e dopo, nient’altro che l’argomento di cui discutere 
                con la moglie, con un’amica o con i colleghi, forse entra 
                anche nelle fantasie erotiche di qualcuno.. 
                ma è solo un’immagine di contorno. Giusto che sia 
                così
                E lei, sciocca, che vive per loro. Vive per avere il loro calore 
                le loro attenzioni. Lei non ha una vita propria, perché 
                non le basta, lei che vuole entrare nella vita di tutti e crede 
                di farlo come un dono. Ed è misera perché non possiede 
                nulla che davvero le piaccia, perché ciò che desidera 
                è farsi amare dal mondo intero.
                Perché non ha un complice e cerca la complicità 
                di un mondo che invece sa solo guardarla e ammirarla, che non 
                può capirla, perché neanche ci prova. 
                Perché è sola, sola nel cuore.
              
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