1) Mi buttano su un letto di paglia in due
2) Di sicuro si amavano
3) E per sempre chiederai scusa
4) La tela
5) Analisi in tempo reale
6) Lo sento ancora denso quel boato
7) Quella sola notte del colonnello Tibbets
8) Senso di colpa
9) Uomini sul divano
10) Colpevole di libertà
 
 
 

 

 

 

"La colpa"

Tre no
di Giorgio Maimone

Prologo: u no

Fuori, come sempre, è aria di festa. Palloncini colorati a forma di cuore si intrecciano a corone luminose a formare una sorta di tunnel a Natale. Al bancone della reception il vecchio laido che sta dietro il banco ci prende i documenti come fossero infetti. Un po’ infetto, infatti, mi sento. Corpo estraneo, respinto. Fatto fuori. Io, di sicuro, non c’entro. Decide di farci passare “ma con pagamento in anticipo!” Anche questo è sesso a pagamento. Appagamento? Ogni tanto. Per un po’. Forse si può fare. Ma poi? Quale poi? Qui siamo al prima. Io e la sconosciuta che sale le scale davanti a me ci avviciniamo alla porta, l’apriamo, osserviamo il talamo e ci viene lo sconforto. Già romanticismo non ce n’è. Nella situazione in genere. Ma così …
“Senti, lasciamo perdere?”
“E come si fa? Tanto qua siamo … Meglio approfittarne, no” e sorride tentando un’espressione lubrica. Sarà il riflesso delle luci al neon da fuori la finestra, ma non le viene bene.
“No, sai, sarà che ho mangiato pesante…. Anzi, potremmo andare a mangiare … o a bere …?”
Il fruscio con cui scivola fuori dalla gonna mi lascia intendere che non c’è scampo. Un altro coito si avvicina. Lo pratico con fatica. Con sempre meno orgasmo ed entusiasmo. E nemmeno i gridolini che provengono da un altrove più lontano, assolutamente fuori da me, riescono a sollevare il mio interesse. Un compito da portare alla fine. Eseguito il quale sono libero. Scendo le scale molto più leggero. Perché indagare su quella punta d’amaro che mi porto negli angoli della bocca? Non ho niente da spartire.
“Andiamo a bere qualcosa?”
“No, guarda, credo sia tardi”
“Tardi? Ma sono le 7! E mi sento così bene. Lo facciamo ancora?”.
Lei. Io non mi sento altrettanto bene. Ma lei ci si mette d’impegno. Vuol fare vedere che le è piaciuto, che tutto è andato come da programma, anzi, meglio.
In realtà avrei voglia di andare a dormire. O comunque di essere lontano da lì. Ma dove sono finite le storie dei 18 anni? Quando al letto non si arrivava mai. Quando si faceva una fatica boia solo per avvicinarsi a un divano. E poi comunque restava da risolvere quella questione dei 30 centimetri di infinito da valicare?

In treno

Lo scossone del treno, più forte del previsto, mi fa cozzare la testa contro il finestrino. Sono solo. L’albergo è svanito nel disgusto dei retrobottega della memoria. Mi guardo nel riflesso sperso nel buio. Mi ritrovo uguale: sperso nel buio a mia volta. Un buio dentro e fuori, così difficile da levare, così impossibile da lavare. Di tanto in tanto un paese con lo spessore di un presepe volante interrompe la mia fisionomia, gli passa dentro, me la scompone in luci e me la restituisce intatta un attimo dopo. Mi alzo, cerco un bagno. Occupato. Attendo. Cosa si fa? Si fischietta in questi casi. Ma il fischio non mi esce. Ho le labbra secche come chi ha dormito male.
Il treno si ferma.Guardo dal finestrino.
Ø Il bambino
Un bambino, a fianco a sua madre, sfoglia fogli di carta e figurine colorate, le allinea le une accanto alle altre, le incolla sull’album. Lui ha Pizzaballa l’introvabile e Anquilletti e Aristide Guarnieri. Vedo pure lo scudetto della “Fiore”.
Il bambino non alza lo sguardo, si stringe alle figurine, si appoggia un poco a sua madre. Il ragazzo sfugge. Non arriva. Non può arrivare o non vuole? Il ragazzo è difficile, si dice. Pensa? E se pensa che cosa? Il bambino alza lo sguardo. Lui sa.

Antico no

Riparte il treno. Trovo posto nel bagno. “Non utilizzare a treno fermo”, Ma ora il treno ballonzola via. Con acrobatici ondeggiamenti centro la mira. Cosce di muscoli tonici. Lei li toccava.
Diceva: mi piacciono, fammi sentire ancora. È come se fosse tutto osso! Non c’è carne!
Ciccia, vorrai dire? Carne ce n’è.
Ma come fai?
Non faccio niente. Sono così.
Mi piace come cammini.
E come cammino?
Come se non te ne fregasse niente.
Ho una camminata cinematografica.
Sì, ma posi?
No, peso. Ci sto attento.
In che senso?
Cerco di capire dove cade il peso, come faccio a muovermi, perché una serie d’azioni normali si converte in movimento.
Menate.
Sempre. Mi pagassero per quello sarei ricco.
Non stacchi mai?
Mai, nemmeno di notte.
Passiamo una notte insieme?

Su questa domanda scuoto la testa e caccio via i pensieri. Morbidi colli mi stanno a guardare dallo schermo fuggevole di un finestrino. Restituisco l’occhiata con fare cosciente. Mi imprimo negli occhi nomi a paesi che andrò a ricercare su carte e su mappe. Una mappa del cuore che strade può fare? Percorre autostrade o strade sterrate? Una mappa del cuore conosce le strade bianche che si inerpicano e scendono sul rivo di un fiume? Una mappa del cuore non porta binari, perché qui c’è maestria di chi conosce il suo scopo. Un treno, non sbanda, ma scoda feroce, ti sgroppa di groppa ma non ti abbandona. Un treno non ferma nemmeno a pisciare. Lo ferma, se vuole, solo l’uomo che guida. E di tutti gli amori lasciati passando, affacciati a finestre o a pensiline di stazioni irrisorie, non restano che immagini frali che il vento in un solo momento scompone e rimuove. Amo il movimento che mi porta via. Amo anche la stazione in cui ci si va, di nuovo a fermare.
Ø Il ragazzo di blues
“Cestini da viaggio”. Una pasta ed un pollo. Patate da forno o da sacchetto di chips. Un quarto di vino, di acqua o di birra. Me le porge un ragazzo dai lunghi capelli, lo sguardo stonato di chi ha troppo sognato, lo sguardo remoto di chi non vede oltre il bordo del binario ma non cede al vizio di lente, all’occhiale fatale che poi non ti molla. Il giovane ride dal suo viso lungo, gli manca anche un dente. Mannò, è solo rotto. Un lungo ragazzo dai tratti di uomo, da amori sognati ma poco sbocciati, vestito di blu dalla testa ai piedi, con il cuore in un blues che gli picchia da dietro, sul maglione di Shetland, sui capelli di lambswool, sui polpastrelli impacciati con cui conta il mio resto. Un ragazzo di blues non dà mai il resto esatto.
Rami secchi

Ritorno al mio posto e mi metto a contare. I paesi che mancano, le valli da fare, gli incroci sbagliati in cui potrei scantonare, Fatica di vivere, ma fatica anche a scappare. Per dove e da cose non sono fatti da dire. Permette signora che abbassi quel vetro? Non mi entra qui dentro il sole di fuori. Ho bisogno di sciogliere un cuore di neve, di dare un po’ d’aria a pensieri d’aceto. Ho bisogno di vento che mi gonfi le gote di parole remote rimaste nel cuore. Di parole che poi non sono riuscito mai a dire. Come dice? Fastidio di vento? Sono altre le cose che danno fastidio! È il tedio di dentro, l’immoto passare, il non saper trasalire e nemmeno giocare. Oppure essere stanchi e non aver più voglia di fare. Per questo allora bisogna partire. Cercare su un treno le occasioni smarrite? Non sente che ritmo? È un ritmo di treno. Mi sale alla gola come fosse un buon canto. Come fosse Bob Dylan che elettrifica il basso, che pesta sui piatti canzoni d’autore. Come fosse Hard rain che mi pizzica il cuore “And it’s a hard … it’s a hard … it’s a hard rain-a-gonna-fall”. Glielo alzo il finestrino, ma cambio pure posto. Alla prossima fermata c’è un bivio e allora scendo. Non c’è senso a perdurare quando un bivio sta a invitare, quando un bivio sta a mostrare nuove occasioni per viaggiare. Lo vede quel ramo? È secco. Non passerà molto che lo taglieranno. Toglieranno i treni. Tutti i treni. È un’era di aerei e macchine. Che restano a fare qui i treni? E se poi è vietato fumare che viaggiano a fare? Signora le lascio il mio posto e il giornale. Ne faccia buon uso, io li devo lasciare. Dove vado non ha senso portarsi il giornale e il mio posto? Il mio posto era caldo ora è freddo e tra un’ora, un minuto non sarà nemmeno mio. Tanti posti per culi di tante persone. Ma se una lo lascia non rimane mai vuoto. Resta un’aura almeno, un’assenza presente con cui ci si può confrontare ma non a carte giocare. Discorsi un po’ vuoti? Di aria ripieni? Glieli lascio anche questi. Cambio treno costì.

Due no

Scendo e mi incammino per il marciapiede solitario. La sera prende il posto del sole di prima. Su piste di decollo atterrano i treni. Qui si cambia, si viaggia, si va per le terre. Ma qui è un’isola ferma in mezzo ai binari. Può fare malinconia, può fare anche spazio per una pausa in mezzo a tanto viaggiare. Il mio bagaglio è leggero e non sporca. Una sporta da spalla in cui ci sta il mio mondo. Tante tasche da fuori per le piccole cose. E la luce di un bar che si accende più in fondo. È tempo di dare uno sfogo alla sete. La limatura di ferro che lascia i binari si posa su tutto, tonsille comprese. Entro nel bar sui binari e c’è odore di tango. Una musica antica mi suona di dentro, fisarmonica a spira dai seni di donna, quella donna che sta oltre il banco e mi guarda e il suo seno sorride per offrire da bere. Questa notte, ancora una, ho trovato una cuccia. Una camera bianca in cui posare le ossa. E se mi fermo più a lungo? Mi potrei anche adattare: casellante di giorno e amante di sera. Scende il buio e mi spegno, soffiando sulla candela, una notte consunta di carezze consuete. Un orgasmo urlato in sinergia con un treno, con quell’urlo da fiera con cui il motore sorpassa le distese di case raccolte a paese.

Il giovane uomo di valzer

Il mattino del dopo si annuncia di valzer. Mi vesto con calma, abbottono i bottoni, guardo fuori dai vetri. Uno sguardo al disordine ansante del letto. Esco ed aspetto il mio treno. Sul binario una coppia di uomo e di donna, giocan tra loro aspettando il mio treno o nessun treno o chissà. Forse il loro gioco è aspettare e qualcosa verrà. Gentile e affettuoso lui le si prodiga intorno. Scostante e distratta, lei, si perde in pensieri, ma si ritrovano poi, in fondo a un sorriso, un viale alberato che porta a domani. Camminano per mano e sembra che abbiano (e che sempre avranno) cose in comune da fare. Bella lei? Bello Lui? Belli insieme. Coppia normale, da jeans decorati, astratti dal tempo, quasi evaporati. C’è un po’ di foschia, non si vede poi bene, ma forse era sabbia, un bruscolino nell’occhio. Non vedo poi bene. Ho lo sguardo appannato. Appannato di dentro. Sono surriscaldato. Per far cessare l’appanno dovrò abbassare qualche finestra all’interno che non riesco a trovare. Uso i tergicristallo, quelli li so manovrare. Mi spazzano via la pioggia di dentro. Come dici? Sono lacrime e si vedono da fuori? Può darsi … può darsi, non stiamo guardare! La commozione degli altri, negli altri sta male.

Tre no

Arriva il mio treno, anzi un treno sbagliato, ma pure ‘sta corsa va verso un confine. Salgo lo stesso. Mi dirotto da solo. È meglio partire e lasciare alle spalle un’altra notte, un altro letto, un altro strazio. Il vagone è elegante, vietato fumare, coi posti allineati che pare un po’ un pullman. Sei sempre seduto alla spalle a qualcuno. C’è sempre qualcuno che ti guarda di nuca. Ho poco bagaglio, mi muovo leggero. Mi basta una borsa che appoggio di fianco. Così, per errore, nessuno si siede. Deve proprio volerlo. Non è dato sbagliarsi. Deve chiederlo, ma in fondo, i posti son tanti. Non c’è molta gente il mattino buon ora che prenda un treno diretto al confine. Ma ecco che sale. La guardo, mi guarda. È il sogno che tutti hanno fatto da svegli. È bionda, è alta, è snella e benfatta, si veste da uomo, ma si vede che è donna. Si siede più avanti, poi si gira a guardare. Mi vede che leggo, la vedo, lei legge. Un romanzo straniero, scritto in inglese. Si gira di nuovo, mi guarda e sorride, poi prende la borsa e viene da me. Mi si rivolge in inglese.
Mi scusi, non parlo
Parliamo in francese?
Mi sa che vien meglio
È lungo il tuo viaggio?
Non so. Non ho scelto. Tu vieni da lungi?
No, ma vado lontano.
Viaggi per studio o viaggi d’amore?
Viaggio di viaggi. Io vivo viaggiando.
Tour operator? O mosca cocchiera?
Non so ridere, sai, in lingue foreste
Ti capisco, davvero. Io non so ridere per niente.
Però ridere fai. E sai, dai che lo sai.
Sì, ma non di mattina. Se rido il mattino mi si formano grumi, qui, sotto l’occhio sinistro .. o era il destro?
Quello è il destro, non sbagliare a contarli. Son due, sai? Uno per lato del capo.
Vabbè, prima che languisca il parlare ,,, come dire .. mi vorresti sposare?
Uhm, chiesto in francese come si fa a rifiutare? Ma dimmi di più, convincimi un po’.
Dovrei provare a sedurti?
Non qui sopra un treno!
Oh, può essere bello! Ci hai mai fatto l’amore?
Di sicuro non seduta in vagone
Toilet? O Wagon-Lits?
Wagon-Lits !
Non ce n’è. Mi spiace, ma non è cosa da fare.
Però si può scendere …
Dopo il confine…
…?

Eddai!
Se mi guardi così è dura rinviare. Scendiamo!

Il padre

Prendiamo i bagagli e scendiamo alla prima. L’aria è frizzante di pura montagna. Le case di legno hanno gli occhi socchiusi. La signora che accoglie ha un’aria tedesca. Gli spigoli duri, la bocca amara che tende al ribasso. I capelli raccolti in crocchia severa. Di fuori, in giardino c’è un padre che gioca ridendo coi suoi molti bambini. Forse non tutti suoi, ma biondi di pelo. E l’uomo si fa locomotiva, cavallo o nave spaziale. Non è giovane l’uomo, ma gioca da giovane. Forte come un torello fa volare i bambini, sulla testa, le spalle, li fa scendere da dietro, come un ascensore vivente che si diverte a lasciarsi scalare. Mi perdo a guardare, Non ascolto la donna. Capisco da gesti che sta chiedendo dei soldi. Eh già la pensione. Pagamento anticipato. Colazione domani? No, meglio di no. Tanto è compresa. E allora perché lo domanda? Così so se un bricco in più dovrò metter sul fuoco. Lo metta, lo metta. Se si butta è acqua sporca, se si beve è caffè. Saliamo le scale. Chissà se quell’uomo è il marito. E i figli? Che figli saranno? E di chi? L’uomo è di sole, la donna di luna. Li vedo anche insieme sorseggiare un passito, la sera davanti al camino coi figli dormienti. E poi che accadrà? Faranno l’amore? L’hanno fatto più volte per sfornar quell’asilo! O magari son prestiti? O un asilo davvero. Che qualcuno domani verrà a reclamare.

Il vecchio

La notte non dormo. Non si può dire stia male. Ma sono agitato. Qualcosa di dentro ribolle sbagliato. Sarà il bricco sul fuoco? Mi alzo che è l’alba e me ne vado da solo. Le strade deserte, la luna sui monti. Da un bosco un lupo mi saluta da lupo. Riconosce un suo pari. Lo saluto pur io,. Nel linguaggio dei lupi. C’è una nuova stazione che mi attende a partire. Film di notte e di freddo, di tempo sereno che si srotola fuori dal campo visivo. Vedo il lupo che corre (o forse un cane, chissà) nel ruscello che scorre qualche metro più in giù. Vedo un vecchio che avanza e cammina a fatica. Un vecchio che ancora lavora perché porta fascine su spalle che penso odorose di muschi e licheni. Le ossa gli dolgono e fanno rumore. Potresti sentirne gli scrocchi a distanza, ma sembra avanzare e deciso ad andare; inarrestabile sembra procedere innanzi. Come una ruota che gira stridendo, ma gira e procede e niente la ferma. Sono gli ultimi sforzi. È stato lungo il cammino. E quando è partito magari pensava che fosse soltanto una tratta, magari breve e in fors’anche in discesa. Non pensava di lasciare mogli, nipoti, dolori e piaceri, amici trovati e poi morti man mano. Non un solo amico che non abbia tradito. Non un solo amico che non l’abbia tradito. Non una notte passata a dormire, senza incubi in testa né oscuro sentire. E il cammino, da breve, si era presto allungato. Troppo, troppo, troppo.

Epilogo – Binario. Morto

Il mattino si affaccia a gettare la sveglia alle mucche al pascolo, agli armenti, alle greggi, ai cacciatori feroci che mi voglion sparare, che mi prendon di mira dall’alto del piano. Ma la mia fuga, se è fuga, può quasi finire. Appena oltre quei monti, quel ghiaccio lontano. Tra pochi minuti il confine, qualche chilometro in là l’occasione di chiudermi una porta alle spalle e gettare la chiave dove non la si possa trovare.

Un tunnel.
Nel buio una curva.
Una scintilla.
Estraggo pure io.
Brilla la lama che vola nel buio.
Un colpo centrale sul petto.
Molto forte.
Rumore
Buio

Poi nulla