1) Un amore, grazie, con tanta schiuma ma senza cioccolato
2) Le angiove di Cecè Laima
3) Briscola chiamata
4) Castelli di sabbia
5) Licia
6) I Magnagati
7) Mele verdi
8) Olive in calce
9) Palermo, Palermo
10) Piccola storia inutile, davanti a uno yogurt scaduto
11) Il sapore perfetto
12) Pizza al pecorino

 
 

 

 

 

"Cin Cin Tortellin"

Licia
di Anna Maria Bonfiglio

Quello fu l'ultimo Natale che passammo con Licia e i suoi bambini. Ma fu una festa speciale. Dicembre aveva rinnegato tutto ciò che gli apparteneva per diritto e tradizione: il freddo, il vento di maestrale che gonfiava il mare, la neve sulle cime dei monti che circondavano la città. L'aria era tiepida, il sole del pomeriggio si attardava all'orizzonte e rifletteva i suoi tenui barbagli sui vetri delle finestre socchiuse. Fra i rami degli alberi del viale Libertà erano nascoste piccole lampade che al tramonto si accendevano di luce d'oro; sulla spianata davanti al teatro Garibaldi stelline d'argento brillavano nel buio della sera. Sentivamo l'aria di festa scivolarci fra le dita, avvolgerci nel tepore rassicurante delle cose che si ripetono: la scelta dei doni, la ricerca degli addobbi natalizi, la selezione dei cibi da adagiare sulla rossa tovaglia che avrebbe ricoperto la tavola da pranzo. Tutto questo ci regalava il placido piacere di crogiolarci nell'attesa.
Licia preparava i dolci che avrebbero chiuso in bellezza il pranzo di Natale: mustaccioli col vino cotto, buccellati ripieni di pasta di fichi e cosparsi di confetti colorati, pignoccata col miele, minni di vergini, la cassata di ricotta e pasta reale e perfino la cubaita. Le sue mani grassocce, dalle dita segnate da fregi di scottature e tagli, lavoravano rapide ed esperte: impastavano farina, trituravano mandorle, friggevano, mantecavano, e intanto lei parlava, come se quegli arti non fossero stati comandati dal suo cervello. "Il segreto per una buona cubaita- diceva- sta nello stendere la pasta, ottenuta dalla cottura dei semi di sesamo e delle mandorle, sul marmo dove è stato spremuto abbondante succo di limone" L' aveva imparato da sua nonna, nella casa di campagna dove si riuniva tutta la famiglia per le feste natalizie. "Era tutto così bello allora- aveva sospirato -Mi sembra siano passati secoli da quando stavamo tutti assieme, nonni, zii, cugini…"
Nel dirlo i suoi occhi avevano avuto come uno spegnimento e aveva subito cambiato discorso. "Dai, passami il miele, Flora- aveva detto a mia moglie che la guardava sperando di imparare a preparare quelle leccornie anche lei. Io assistevo, inerte ma disponibile a sbrigare qualche piccola commissione esterna nel caso fosse mancato qualcosa -Devo versarlo sulla pignoccata mentre è ancora calda" Marco e Sara le si erano stretti addosso, quasi a volerla proteggere dalle domande indiscrete che avremmo potuto rivolgerle e che non le avremmo mai rivolto. Sapevamo quello che c'era da sapere.

Licia era arrivata la mattina di un lunedì di Pasqua. I suoi pochi mobili erano stipati in un camioncino e venivano trasportati a braccia, uno alla volta, fino al suo appartamento, situato a fianco al nostro. Il tramestio ci aveva incuriosito e Flora aveva aperto la porta di casa e messo fuori la testa. Due ragazzini stavano attaccati alla ringhiera delle scale, lo sguardo spaurito, le mani allacciate quasi a volere palesare il legame che li univa. Flora si era avvicinata a loro e aveva chiesto se avevano bisogno di qualcosa. Subito una donna vestita di nero, con una grossa treccia sulle spalle, si era parata davanti ai due ragazzi, come temendo che qualcuno o qualcosa potesse fargli del male. "Grazie, non abbiamo bisogno di niente" aveva detto. Aveva spinto i figli dentro casa ed era rimasta sulle scale ad aspettare che gli uomini di fatica finissero di portarle su i mobili.
Ma due giorni dopo aveva bussato alla nostra porta. Ad occhi bassi, come vergognandosi per quello che stava per chiedere, aveva detto che Sara, sua figlia, si era tagliata un dito, stava perdendo molto sangue e pensava che avesse bisogno di punti di sutura, ma era sola e non sapeva come fare. Sara stava sul pianerottolo, la mano avvolta in una salvietta di spugna già abbondantemente intrisa di sangue, lo sguardo impaurito chiedeva aiuto in un silenzio caparbio. Flora non ci aveva pensato un attimo a condurle al pronto soccorso. La gratitudine di Licia si era convertita presto in un'amicizia carica d' affetto.

Ogni mattina, quando passavo davanti alla guardiola, Don Paolino, nel salutarmi, indugiava con lo sguardo nella mia direzione come se volesse dirmi qualcosa, ma ogni volta una sorta di incomprensibile imbarazzo lo frenava.
"Allora, Don Paolino- avevo detto un giorno, incuriosito dal suo atteggiamento -si può sapere cosa volete dirmi? Ogni mattina mi sembrate un questuante che ha vergogna di chiedere l'elemosina"
"Sì, è vero, vi volevo parlare ma mi facevo scrupolo"
"Via, ditemi cosa vi passa per la testa. Ci sono dei quattrini da tirare fuori?"
"No, no, niente di tutto questo"
Era uscito dalla guardiola e mi si era accostato con fare circospetto. "Sapete della signora Licia?" Mi aveva chiesto a bassa voce.
"Cosa dovremmo sapere?"
"Vi siete accorti che non ha marito"
"Sì, è vedova"
"E sapete come è morto il marito?"
"No, certo che no, perché dovremmo saperlo?"
Don Paolino aveva abbassato ulteriormente la voce: "Il marito glielo ha ammazzato la mafia"
Mi ero mostrato indifferente. "Sono cose che non ci riguardano" avevo detto.
Ma lui ormai aveva superato lo stallo della sua inibizione. "Suo padre è un pentito, fa il collaboratore di giustizia e la mafia si è vendicata ammazzando il marito della figlia"
Il mio silenzio non lo aveva scoraggiato. "Questo è un palazzo di gente per bene- aveva continuato -perché se n'è venuta ad abitare qui?"
"E perché no? Che colpa hanno la signora e i suoi figli per ciò che è accaduto? Buona giornata, Don Paolino"
Le mie parole l'avevano zittito. "Buona giornata a lei" aveva risposto abbassando il capo.

Percorrendo la piazza del Borgo Vecchio avevo pensato alla mia adolescenza vissuta fra quelle pietre antiche. Il rione era alle spalle del porto e in quegli anni era il ritrovo dalla piccola delinquenza: contrabbando, furtarelli, prostituzione. Lo frequentavano i marinai, i bottegai dei dintorni, i picciotti che si atteggiavano a bulli. Ero cresciuto lì, avevo fatto a pugni e giocato con i ragazzi che un giorno sarebbero diventati i boss della città. Ero stato spalla a spalla con quelli che in seguito avrebbero superato il limite della liceità, ma ero riuscito a restarne fuori. Non so come e perché ero stato in grado di non oltrepassare quella sottilissima linea di confine che divide il bene e il male. Un passo falso, un minimo errore, un'offerta che non va rifiutata e anche io avrei potuto ritrovarmi dall'altra parte.
Con Licia continuammo a frequentarci. Lei aveva allentato la tensione, era serena, faceva progetti per il futuro di Marco e Sara. Di altro non si parlò mai.

Quell'ultimo Natale era trascorso nella letizia. I ragazzi erano stati felici dei doni ricevuti e noi ci sentivamo appagati dalla loro felicità. I dolci che aveva preparato Licia erano così tanti che ancora ne restavano sulla tavola, rimasta apparecchiata per due giorni. La piramide della pignoccata era una montagnola alla quale un malanno della natura aveva portato via il cocuzzolo; la cassata stava sciancata sul vassoio, dei mustaccioli rimanevano ancora abbondanti avanzi che procuravamo di sbocconcellare fra una partita a carte e un'altra. Marco e Sara avevano voluto giocare al mercante in fiera e si erano divertiti nella compravendita delle carte, avevano riso e si erano scalmanati nel fare a gara a chi offriva di più. Ci eravamo salutati con un "arrivederci a domani", come facevamo ogni sera scambiandoci la buonanotte sul pianerottolo di casa.
La mattina dopo Flora aveva bussato alla porta di Licia, come ogni mattina, per prendere il solito caffè assieme. Aveva premuto il campanello più volte ma non aveva ottenuto nessuna risposta, nessun segno che dall'altra parte ci fosse qualcuno. Preoccupata per quel silenzio aveva provato a telefonare. Niente. Ci chiedevamo a chi avremmo potuto rivolgerci per sapere cosa fosse successo ma per quanti sforzi mentali facessimo non trovavamo soluzione: non avevamo nessun punto di riferimento. Ci restava solo di informarci con don Paolino, nel caso avesse visto o sentito qualcosa che potesse fornire una spiegazione a quell'assenza.
"Io non ho visto né sentito niente -ci aveva detto quando l'avevamo interpellato- però un'idea ce l'ho"
"Che idea, don Paolino? Se sapete qualcosa ditelo"
"Non so niente, io, però…"
"Però cosa?"
La preoccupazione si andava tramutando in angoscia.
"Secondo me se li portarono ammucciuni -indugiava. Poi, con le mani a coppa intorno alla bocca, accostandosi al mio orecchio, aveva detto: "Programma di protezione"
Avevamo allora capito che nessuno avrebbe potuto aiutarci, che Licia e i suoi ragazzi erano stati inghiottiti da un pozzo oscuro dal quale non sarebbero emersi mai più. Almeno per noi. Ci restava il ricordo di quel Natale e il profumo antico di quei dolci.

Ndr. Le fotografie che illustrano il racconto sono di Ferdinando Scianna