Il 
                sapore perfetto
                di Federica "Pikkina" Fortunati
               Pietro 
                non poteva staccare gli occhi da quella foto. Non era mai finita 
                in nessun album, era rimasta in un cassetto custodita tra magliette 
                profumate di lavanda, come tutte le foto importanti che si tirano 
                fuori ogni tanto e si tengono in mano tra gli occhi ed il cuore 
                nella solitudine di una stanza semibuia, con il silenzio che ronza 
                nella testa.
Pietro 
                non poteva staccare gli occhi da quella foto. Non era mai finita 
                in nessun album, era rimasta in un cassetto custodita tra magliette 
                profumate di lavanda, come tutte le foto importanti che si tirano 
                fuori ogni tanto e si tengono in mano tra gli occhi ed il cuore 
                nella solitudine di una stanza semibuia, con il silenzio che ronza 
                nella testa.
                C’erano dei giorni in cui tornando a casa provava l’irrefrenabile 
                istinto di aprire quel cassetto e recuperare quella foto, quelle 
                emozioni…
                Non era mai riuscito ad avere un segreto nella vita. Era più 
                forte di lui raccontare tutto ciò che gli capitava, come 
                se la sua vita fosse tanto interessante da non poter privare gli 
                altri della conoscenza di ogni suo dettaglio. Aveva raccontato 
                e confessato sempre tutto, perfino i tradimenti.
                Ma di quella storia, quella che la foto raccontava ancora con 
                ottima memoria, di quella non ne aveva mai parlato. Non per pudore, 
                non per discrezione, ma per gelosia. Perché quella storia 
                non voleva dividerla con nessuno.
              Era 
                stato dieci anni prima. Prima che si sposasse con Paola, prima 
                ancora che si fidanzassero, che imparasse ad apprezzare la sua 
                coerenza, la lucidità, la capacità di muoversi con 
                disinvoltura nella vita come se ne avesse imparato a memoria la 
                mappa. 
                Prima che qualcuno gli facesse sentire la necessità di 
                puntellarsi a terra per evitare di farsi portare via dal vento. 
                Non era stata un’esperienza negativa a cambiargli la vita, 
                ma la semplice e incredibile scoperta dei suoi limiti…
               L’odore 
                di cioccolato era tanto intenso da investire l’olfatto non 
                appena oltrepassata la Porta che dava sul borgo antico di Bolsena. 
                Il taxi lo aveva lasciato proprio lì, al limite dell’area 
                pedonale, dopo avergli dato le poche informazioni necessarie per 
                raggiungere l’albergo. Erano le sei e mezza ed aveva già 
                un certo appetito. A pranzo, come al solito, aveva mangiato giusto 
                un’insalata ed ora quell’aroma lo solleticava insistentemente. 
                Diede un’occhiata alla piazzetta circolare. Cominciava già 
                a scurire, i lampioncini di ferro battuto si erano accesi e c’era 
                tutto intorno una luce color arancio che scaldava un po’ 
                l’aria ancora gelida di quel fine marzo. Scrutò i 
                pochi negozi che si affacciavano sulla piazza: c’erano due 
                bar che non avevano nulla di attraente. Davano l’idea di 
                essere quei ritrovi per gli anziani, dove si gioca a carte, spartani, 
                con il bancone in metallo, i tavolinetti rotondi circondati da 
                seggiole con la seduta di fili di gomma colorata, e la televisione 
                sempre accesa a parlare da sola. C’era poi un alimentari 
                con le cassette di frutta in bella mostra ed una merceria. - Le 
                mercerie si trovano ormai solo nei paesi – si trovò 
                a pensare. – Forse ormai nessuno in città compra 
                più bottoni o chiusure lampo -. Poco più a destra, 
                dopo una nicchia dove fiori e candele rendevano grazie ad una 
                madonnina estatica, c’era un piccolo locale con portoncino 
                e finestrelle stile inglese. Sopra la porta campeggiava un’insegna 
                bianca, scritta in un elegante corsivo ed illuminata da tre faretti 
                azzurrati: “l’isola che non c’è”.
L’odore 
                di cioccolato era tanto intenso da investire l’olfatto non 
                appena oltrepassata la Porta che dava sul borgo antico di Bolsena. 
                Il taxi lo aveva lasciato proprio lì, al limite dell’area 
                pedonale, dopo avergli dato le poche informazioni necessarie per 
                raggiungere l’albergo. Erano le sei e mezza ed aveva già 
                un certo appetito. A pranzo, come al solito, aveva mangiato giusto 
                un’insalata ed ora quell’aroma lo solleticava insistentemente. 
                Diede un’occhiata alla piazzetta circolare. Cominciava già 
                a scurire, i lampioncini di ferro battuto si erano accesi e c’era 
                tutto intorno una luce color arancio che scaldava un po’ 
                l’aria ancora gelida di quel fine marzo. Scrutò i 
                pochi negozi che si affacciavano sulla piazza: c’erano due 
                bar che non avevano nulla di attraente. Davano l’idea di 
                essere quei ritrovi per gli anziani, dove si gioca a carte, spartani, 
                con il bancone in metallo, i tavolinetti rotondi circondati da 
                seggiole con la seduta di fili di gomma colorata, e la televisione 
                sempre accesa a parlare da sola. C’era poi un alimentari 
                con le cassette di frutta in bella mostra ed una merceria. - Le 
                mercerie si trovano ormai solo nei paesi – si trovò 
                a pensare. – Forse ormai nessuno in città compra 
                più bottoni o chiusure lampo -. Poco più a destra, 
                dopo una nicchia dove fiori e candele rendevano grazie ad una 
                madonnina estatica, c’era un piccolo locale con portoncino 
                e finestrelle stile inglese. Sopra la porta campeggiava un’insegna 
                bianca, scritta in un elegante corsivo ed illuminata da tre faretti 
                azzurrati: “l’isola che non c’è”. 
                
                Sembrava una sala da tè. L’odore di cioccolato doveva 
                venire da lì. In fondo mancava ancora molto alla cena e 
                magari avrebbe potuto saltare il dolce…
                Spinse avanti il portoncino ed un campanello tintinnò delicato. 
                Il locale era molto grazioso. L’ingresso era quadrato ed 
                alle pareti erano fissati due grandi scaffali di mogano ricolmi 
                di libri e di piccoli oggetti artigianali in legno e pietra. L’ingresso 
                dava sulla saletta dove erano stati disposti in ordine sparso 
                una decina di tavolinetti in ferro battuto con il piano in marmo 
                attorno ai quali erano disposte, tre per ciascuno, delle graziose 
                seggioline in ferro nero e paglia. Sul fondo c’era il bancone 
                in muratura sul fronte del quale erano state dipinte, stilizzate 
                ed in tenui tinte pastello, figure che potevano essere elfi, o 
                giù di lì. Alle spalle del bancone erano disposti 
                vasi di ceramica come quelli che si usavano nelle vecchie farmacie 
                per tenere le erbe, nelle più svariate tinte pastello. 
                Una ragazza, seminascosta dietro la cassa, aveva distolto lo sguardo 
                dal libro che teneva in mano e lo osservava sorridendo.
                - Buona sera, desidera?- 
                - Volevo sapere… servite cioccolato qui? Si sente un forte 
                odore…
                - Il miglior cioccolato che possa trovare, signore. Si sieda dove 
                vuole e dia un’occhiata alla lista. Arrivo subito- 
                Pietro scelse un tavolo più o meno nel mezzo, si sedette 
                e prese a consultare il menù. Lei arrivò dopo qualche 
                minuto e con un fiammifero accese la graziosa candela al centro 
                del tavolo. Quando alzo lo sguardo dalla lista, Pietro non poté 
                fare a meno di osservarla per qualche secondo. Era alta e bruna 
                ed aveva i capelli raccolti in una treccia. Il viso era particolare, 
                quasi esotico, con grandi occhi neri, folte sopracciglia ed una 
                bocca morbida e perfettamente disegnata. Indossava un vestitino 
                di lana leggera color ruggine che le illuminava il miele della 
                pelle. Era molto magra, ma non ossuta, solo esile.
                - Come le dicevo il mio cioccolato è speciale, se ne accorgerà 
                da solo tra poco. Ma servo solo cioccolato fondente, senza panna, 
                che ne rovina la perfezione del sapore e la consistenza. Lo aromatizzo 
                solo con scorzette di arancia candita, o menta, menta vera, non 
                sciroppo, o frutti di bosco. Queste cose, insieme alle fragole, 
                ma non è stagione, esaltano il sapore del cioccolato senza 
                coprirlo.- Dal tono della voce sembrava davvero che non ci fosse 
                spazio per alcun dubbio in proposito. A Pietro venne da sorridere. 
                Lei se ne accorse e sorrise a sua volta, senza imbarazzo, come 
                se ci fosse abituata. 
                - Beh, allora immagino che prenderò un cioccolato nero. 
                E per le variazioni sul tema scelgo l’arancia. Ma, cos’ha 
                di speciale questo cioccolato?- disse in tono quasi beffardo.
                - E cioccolato artigianale e per renderlo denso lo preparo io 
                con un po’ di farina ed altri piccoli trucchi. Non è 
                liofilizzato, solo polverizzato. La farò aspettare qualche 
                minuto di più della cioccolateria Eraclea, ma molti dicono 
                che ne valga la pena. La differenza, a parte il sapore che è 
                molto più intenso, è che questo cioccolato non stanca. 
                Lavoro qui da due anni e quando ne sento l’odore mentre 
                lo preparo mi viene ancora l’acquolina.-
                - Tutta la piazza ha l’acquolina per quest’aroma, 
                signorina e lei mi sta deliberatamente rovinando la cena. Non 
                potrò prendere il dolce e penseranno che sono a dieta. 
                Non mi piace che si pensi che sono a dieta.- Pietro aveva già 
                rotto gli indugi. Gli bastava poco per prendere confidenza e quella 
                ragazza gli piaceva davvero molto. 
                - Oh, non mi faccia sentire in colpa. Forse dovrei portarle un 
                te verde bancha al gelsomino…- La ragazza faceva dell’ironia. 
                La cosa gli piaceva. 
                - Non se ne parla. Si assuma le sue responsabilità e mi 
                faccia del male con un cioccolato denso e forte!- Lei sorrise 
                di nuovo e tornò dietro al bancone bisbigliando – 
                agli ordini!-
                Pietro si alzò e andò a curiosare tra gli scaffali. 
                I libri erano divisi per autore e per ciascun titolo c’era 
                una copia per la lettura ed altre da acquistare. Né sfoglio 
                diversi e pensò che tutto sommato avrebbe potuto ingannare 
                il tempo leggendo, sempre che non fosse riuscito a convincere 
                la ragazza ad avventurarsi in una conversazione. Ne prese uno 
                e tornò a sedersi proprio mentre lei si avvicinava con 
                il vassoio.
                - Ecco il suo cioccolato all’arancia e qualche fetta di 
                pane di girasole con la marmellata. Questo è un gentile 
                omaggio della ditta per farsi perdonare di averla tentata.- Poi 
                diede un’occhiata al libro che lui aveva appoggiato sul 
                tavolo. – Le piace leggere?- sembrava lo stesse valutando. 
                – Si molto, ma sono incapace di scegliere un libro. I più 
                belli che ho letto me li hanno regalati. Io mi faccio attirare 
                dal titolo o dal nome dell’autore…- 
                - Innamorarsi di un titolo o di un nome… Succede anche a 
                me. È insito nell’innata incapacità dell’uomo 
                di scegliere. Troppo difficile rinunciare a qualcosa che è 
                potenzialmente piacevole. E cosa c’è di più 
                armonioso del suono delle parole una accanto all’altra, 
                della capacità di un titolo di essere coinciso, chiaro 
                e melodioso allo stesso tempo?- Sembrava stesse parlando a se 
                stessa, con lo stesso sguardo estatico della madonnina nella nicchia. 
                Poi si rivolse di nuovo a lui- In questo caso, però, credo 
                che tutto ciò l’abbia portata un po’ fuori 
                strada, a mio giudizio almeno. ‘L’alchimista’ 
                è un buon libro se ha bisogno di trovare una frase carina 
                da scrivere sul diario della sua fidanzata. È come una 
                gita in barca sul lago. Piacevole. Ma se vuole qualcosa che la 
                scavi dentro come le onde del mare, allora forse potrei consigliarle 
                qualcos’altro.-
                - Non credo comunque che avrei il tempo di leggerlo. Tra poco 
                devo andare, altrimenti salterò molto più che il 
                dolce!-
                In realtà sarebbe rimasto volentieri ancora a lungo. Quella 
                ragazza aveva qualcosa di intrigante. Sembrava incredibilmente 
                convinta di tutto ciò che diceva, come se avesse imparato 
                a non mettere più in discussione le sue idee pur accettando 
                che qualcuno potesse non condividerle. La conversazione con lei, 
                per quel poco che aveva potuto sperimentare, sembrava non essere 
                banale.
                - Come si chiama?- le chiese. 
                - Maria.- Semplice e non banale anche nel nome.
                - Maria, questo posto è suo o ci lavora soltanto? –.
                - È mio e con me lavora solo una ragazza per qualche ora 
                al giorno. In questo periodo non c’è molto da fare 
                per cui ci sto da sola.-
                - Tra una settimana è Pasqua e in un negozio che vende 
                cioccolata non c’è da fare?- Lei sorrise di nuovo 
                con quell’aria di chi ne sa di più.
                - Questo è un piccolo paese, qui le uova di cioccolata 
                si comprano con almeno tre settimane di anticipo. Si comprano 
                a tutti i conoscenti per cui si cerca di non spendere troppo. 
                Inoltre le mie uova sono particolari. Sono solo di cioccolato 
                fondente e già questo sembra essere un grosso limite. Inoltre 
                sono spesse almeno un centimetro, perché a me la cioccolata 
                piace così, che ad ogni morso mi si riempia la bocca. E 
                non sono decorate con colori ma solo con altro cioccolato fondente. 
                Diciamo che tra i miei clienti ci sono solo qualche fidanzato 
                che vuole mettere l’anello con diamante nell’uovo 
                di Pasqua e una decina di amanti del cioccolato nero. Ma va bene 
                così. Il suo nome, mi scusi?
                - Mi chiamo Pietro.- 
                -Ah, Pietro. Come Peter Pan. È lui dipinto sul bancone. 
                Quella più piccola è campanellino, che trovo bellissima, 
                così delicata. Lo ha visto no, questo posto è “l’isola 
                che non c’è” ed infatti non tutti la trovano 
                e spesso chi la trova non la riconosce.-
                Con gli occhi fissava il dipinto sul bancone. Sembrava quasi che 
                fosse altrove - Parla del suo locale, o di altro?- Si azzardò 
                a chiedere.
                - Parlo di tante cose Peter, ma non so se riusciresti a capire…- 
                non lo disse con tristezza. Non sembrava affatto capace di essere 
                triste. Aveva un viso così aperto. Sembrava critica. A 
                priori. E gli aveva parlato con una confidenza fuori luogo, come 
                se avesse dimenticato il tenore della precedente conversazione.
                Finì di bere il cioccolato e si avvicinò al bancone 
                per pagare. – Visto che ormai per te sono Peter e ci diamo 
                del tu, credo che passerò a salutarti ed a bere un cioccolato 
                anche domani. Sono qui per lavoro, sono un chimico e sto facendo 
                delle analisi giù al lago. Stasera devo cenare con i miei 
                colleghi, non posso trattenermi a leggere… ma domani ho 
                quasi tutto il pomeriggio libero. Questo cioccolato merita un 
                bis! - Si era lanciato. Voleva assolutamente conoscere meglio 
                quella donna. Ne era attratto, ma non era solo il suo aspetto. 
                Sembrava davvero di essere nel suo mondo quando lei parlava, e 
                di essere sottoposti ad una valutazione sulla base di uno schema 
                diverso.
                Lei chiuse il libro che aveva davanti e glielo porse – prendi 
                questo, me lo ridarai prima di partire. Ci sono colori e sapori 
                meravigliosi, che sembrano rimanerti attaccati addosso. E si parla 
                di semplicità. Ti aspetto domani. Se non passi ci resterò 
                male – Gli sorrise e lui si sentì avvampare. 
                Diede un’occhiata al libro: ‘Gabriella garofano e 
                cannella’ di Jorge Amado. Suonavano magnificamente entrambi, 
                titolo e nome dell’autore. - Che strana alchimia alle volte 
                si crea tra le persone- si disse sorridendo e, salutandola, uscì 
                dal locale.
              Non fece altro 
                che pensare a lei tutta la sera. Fu stranamente silenzioso a cena 
                e dimenticò che non avrebbe dovuto mangiare il dolce. Appesantito 
                dal cibo ed eccitato per l’incontro si addormentò 
                molto tardi e sognò di volare, ma non fu una bella sensazione, 
                perché pur sentendosi libero e leggero, percepiva la precarietà 
                del volo, sentiva l’assurdità del vedere le cose 
                dall’alto ed aspettava il momento in cui sarebbe precipitato…
               Quando 
                arrivò al locale, il pomeriggio successivo erano le cinque. 
                Maria era sulla porta. Indossava una lunga gonna nera di lana 
                ed un maglione d’angora rosso vivo sul quale aveva avvolto 
                un grande scialle da gitana. Si era leggermente truccata e la 
                sua pelle era dolcemente ambrata mentre negli occhi, appena sottolineati 
                di grigio fumo, galleggiava una calda luminosità.
Quando 
                arrivò al locale, il pomeriggio successivo erano le cinque. 
                Maria era sulla porta. Indossava una lunga gonna nera di lana 
                ed un maglione d’angora rosso vivo sul quale aveva avvolto 
                un grande scialle da gitana. Si era leggermente truccata e la 
                sua pelle era dolcemente ambrata mentre negli occhi, appena sottolineati 
                di grigio fumo, galleggiava una calda luminosità. 
                - Ti stavo aspettando. Pensavo arrivassi prima.- Non lo stava 
                rimproverando. Ma tradiva una certa impazienza, ed era contenta, 
                contenta di vederlo. Era la stessa cosa che lui aveva provato 
                per tutto il giorno. Una grande impazienza di andarsene dal laboratorio 
                mobile, una continua voglia di simulare un mal di testa e correre 
                da lei. Ma non lo aveva fatto, non gli sembrava il caso, c’era 
                troppo da fare. E comunque non si sarebbe mai sognato di dirglielo. 
                Lei invece lo aveva appena fatto, senza dare peso alla cosa. – 
                Mi dispiace, abbiamo avuto dei problemi…ma non avevamo un 
                appuntamento!- Si giustificò. 
                - Vero. Ma nella mia testa pensavo che dovesse essere il prima 
                possibile. Vieni entra.- Si sedettero. Sentirla così vicina 
                e sapere addirittura che lo aveva aspettato gli provocò 
                un tale stato di alterazione, un tale desiderio che dovette imporsi 
                con la volontà all’istinto di baciarla e rimase qualche 
                secondo con lo sguardo fisso sulle labbra di lei, assaporandola 
                immobile. – perché mi aspettavi?- Le chiese pervaso 
                dall’ansia di ricevere una risposta che alimentasse la sua 
                eccitazione. Lei lo guardò negli occhi, sorrise in quel 
                suo modo leggero. – Ieri, quando ho capito che eri entrato 
                seguendo un capriccio improvviso, quando ho visto che posando 
                lo sguardo qua e là, me compresa, ti sei illuminato di 
                stupore e invogliato come un bimbo, ho pensato che forse saresti 
                stato capace di volare fino alla mia isola…- 
                - Quale isola?- Aveva paura di non capire. Voleva capire ad ogni 
                costo, ma non era sicuro che sarebbe riuscito a seguirla. 
                - Due anni fa mi sono trasferita qui da Roma. Lì non riuscivo 
                più a vivere. Non era per Roma in sè, era che dovevo 
                fuggire. Ho scelto questo posto perché venendo a Bolsena 
                qualche anno fa in pieno inverno avevo tanto desiderato sedermi 
                a bere un cioccolato, ma nessuno lo serviva…- Si fermò 
                un attimo a guardarlo, indecisa se continuare o meno. 
                Lui la incoraggiò – e così hai deciso di costruire 
                qui la tua isola…- 
                Lei riprese – Vendo cioccolato perché in qualche 
                modo, casualmente, mi ha ridato la voglia di vivere. Per anni 
                ho lottato contro il mondo reale finchè ho potuto, ho fatto 
                il possibile perché ciascuna persona accanto a me, ciascuna 
                situazione, mi desse materiale per vivere delle mie fantasie. 
                Ma ogni cosa, ogni persona mi ha delusa, con quella maledetta 
                idea fissa di riportarmi alla realtà, di chiedermi di essere 
                concreta. Soffrivo di attacchi di panico perché alle volte 
                non riconoscevo più nulla. Ho impiegato tre anni di terapia 
                per capire che nel dualismo tra realtà e fantasia, non 
                era alla realtà che dovevo avvicinarmi. Continuavo a prendere 
                dei maledetti psicofarmaci che mi toglievano l’appetito 
                e la voglia di volare. Un giorno mi sono alzata in volo ed ho 
                deciso di non scendere più. Di non scendere a compromessi 
                con la realtà. Quel giorno, per caso, comprai una tavoletta 
                di cioccolato. Mancavano pochi giorni al Natale, aveva una splendida 
                confezione dorata, sembrava di fattura artigianale e mi attirò. 
                Erano dodici cubetti di puro cioccolato nero, spessi un dito. 
                Ne misi in bocca uno, solo per fare un tentativo. Era duro e il 
                pezzo che avevo staccato a fatica con i denti mi si attaccò 
                al palato. Lo sentii sciogliersi lentamente e provai un piacere 
                intenso, una sensazione di perfezione che mi pervase. Un sapore 
                perfetto. Perfetta la consistenza. Perfetto il suo colore, così 
                intatto. Mangiai tutti i cubetti, uno dopo l’altro e mi 
                sentii felice. Quel cibo mi emozionava, mi faceva venire voglia 
                di ridere, di cercare. Decisi che avrei mangiato cioccolato. Come 
                si decide che si vuole fare l’attrice o il missionario, 
                con la stessa determinazione io decisi di mangiare cioccolato. 
                Gettai via le mie pillole. Tenevo pezzetti di cioccolata in un 
                vasetto. Imparai a fuggire gli attacchi di panico mettendone in 
                bocca uno ogni volta che il mondo mi diventava estraneo e, senza 
                lottare più, me ne staccavo, inseguendo le mie fantasie, 
                smettendo di cercare di ritrovare un equilibrio che non avrei 
                mai trovato. È come essere nati con una disfunzione: io 
                non riesco a vedere i colori della realtà. Vivevo una vita 
                in bianco e nero ma nella mia testa ne immaginavo una dai colori 
                vivaci.-
                - Ma come fai a non farti contaminare dalla realtà? Ci 
                assale ogni giorno, bella o brutta che sia, la incontri per strada, 
                la vedi alla TV. E come si fa a lavorare senza avere il senso 
                reale di quello che si fa?- Lo chiese desiderando con tutto se 
                stesso che lei avesse una risposta anche a questo.
                - Non sono in grado di superare l’incontro con la cattiveria 
                dell’uomo, non sono capace di aiutarlo perché non 
                sono particolarmente buona neanche io. Non ho mai davvero aiutato 
                qualcuno. Non ci voglio nemmeno provare perché so che non 
                è ciò che desidero. Per cui non mi curo del mondo 
                e lui non si cura di me. Vendo quel poco di cioccolato che mi 
                fa vivere dignitosamente e mi occupo personalmente di ogni parte 
                della gestione di questo posto giocando a fare la padrona. Mi 
                confeziono da sola le mie tavolette di cioccolato, giocando con 
                le polveri, le creme... -
                - E non ti senti sola?- Sembrava assurdo, ma Pietro sapeva che 
                non era così. Quella donna viveva di qualcosa che sfuggiva 
                a tutti gli altri.
                - Vieni con me- gli disse e lo prese per mano conducendolo sul 
                retro su per una scala a chiocciola che portava ad un piccolo 
                appartamento soppalcato. 
                C’era un saloncino arredato in modo essenziale, con un divano 
                color canapa ed una libreria di mogano. Al centro della sala c’era 
                un box, uno di quelli dove si mettono a giocare i bambini. Dentro 
                c’erano due bellissime bambole, vestite con cura, con abitini 
                veri da neonato e circondate da giochi.
                - Non mi sono mai sentita sola. Però ad un tratto ho sentito 
                che volevo avere una bambina. Doveva assolutamente essere femmina, 
                perché tale la vedevo nella mia testa e non sarei stata 
                capace di amare un maschio allo stesso modo. E non doveva crescere. 
                Non avevo desiderio di maternità in senso lato, volevo 
                avere tra le braccia una bambina piccola, bella, dalla pelle morbida, 
                gli occhi enormi, con le guance tonde ed un ciuccio in bocca. 
                Averla per me era diventata un’ossessione. Ma ho capito 
                per tempo che non sarei stata in grado di crescerla. O meglio, 
                che non ne avevo voglia. Angelica e Beatrice sono le mie bambine. 
                Non guardarmi così. Sono bambole lo so e non pretendo che 
                siano vere. Non sono pazza come dicono tutti, da quando la mia 
                aiutante le ha scoperte e lo ha raccontato in paese. Ma sono belle 
                ed hanno la pelle morbida e le guance tonde. Posso comprare loro 
                vestitini e scarpette, posso fare loro il bagno e profumarle. 
                E guardarle. I bambini sanno che i loro giochi non sono reali, 
                ma fingono e sono felici. Sono forse pazzi?- 
                Pietro non sapeva replicare. Questa donna che diceva di essere 
                completamente fuori dalla realtà era la persona più 
                lucida che avesse conosciuto nella sua vita. Sembrava aver carpito 
                un segreto che però non sarebbe potuto servire a nessuno. 
                Lei aveva deciso lucidamente di essere una cellula impazzita, 
                un male benigno che si diversifica dal tessuto cui appartiene 
                senza poterlo modificare. Era stordito, forse impaurito, ed il 
                suo desiderio per Maria continuava a crescere diventando desiderio 
                di possesso.
                - Perché mi aspettavi?- Pietro ripetè quella domanda 
                mentre cercava affannosamente di collocarsi in un qualsiasi cantuccio 
                di quella vita, di trovarsi uno spazio.
                Lei non rispose. Gli chiese di aspettarla. Scese e tornò 
                poco dopo con una tazza di cioccolato fuso. Lo prese ancora per 
                mano e lo portò nella sua camera. Gli si accosto, guardandolo 
                dritto negli occhi, chiedendo in silenzio. Lui la baciò, 
                finalmente, con tutto il desiderio che aveva nell’anima 
                e nel corpo. Nel letto, nudi e pazzi di gioia si dipinsero addosso, 
                con le dita, desideri di bollente cioccolato. Poi fecero l’amore, 
                sussultando ad ogni tocco, senza paura di dare o chiedere, mordendo 
                la vita come se avesse anche lei quel sapore perfetto, quell’aroma 
                intenso, senza contaminazioni, volando con il solo limite del 
                cielo…
              ….
              Quella foto 
                l’aveva scattata la mattina dopo. Lei aveva i capelli sciolti, 
                indossava una semplice camicia da notte di flanella ed era bella 
                da togliere il fiato. Aveva sulle labbra quel suo solito semplice 
                sorriso, quasi un rimprovero per averle rubato quell’immagine, 
                un rimprovero indulgente verso chi ha paura di non riuscire a 
                mantenere vivo un ricordo. 
                Poco prima di quello scatto, quella mattina, l’aveva circondata 
                con un braccio, nella penombra della camera. L’aveva sentita 
                sua, come mai aveva sentito sua una donna prima di allora. Aveva 
                dentro una smania indicibile di portarla via con se o di mollare 
                tutto e rimanere con lei. Ma non glielo disse mai. Non se ne sentì 
                all’altezza.
                Lei era eterea. Non era di passaggio su quell’isola, no. 
                Lei ne era la regina. Era una piccola fata, con un campanellino 
                che tintinnava per avvertire che stava entrando a far visita alla 
                tua vita. E tintinnava di nuovo quando in punta di ali se ne volava 
                via. Tentare di possedere anche un solo altro giorno della sua 
                vita avrebbe potuto renderlo pazzo. 
                La strinse forte a se e le chiese di nuovo, per l’ultima 
                volta – perché mi aspettavi?- 
                Lei si girò, lo guardò negli occhi e gli rispose, 
                finalmente – Avevo bisogno di amore sulla mia isola, di 
                passione. Mi serviva un volto, ma non uno qualsiasi. Mi serviva 
                il tuo. Mi hai seguita in volo. Sai bene che non puoi resistere 
                a lungo, ma sei riuscito a volarmi accanto. Sapevo che sarebbe 
                stato così, lo sapevo dai tuoi occhi. Ora scendi a terra. 
                Ma non dimenticare di cosa sei stato capace.-
              E lui non 
                lo aveva mai dimenticato. Si era riabituato, con un po’ 
                di fatica, all’assurda logica della vita che spesso non 
                aveva senso. Aveva cercato di non pensare a come lei avrebbe visto 
                ogni cosa che gli accadeva, aveva dovuto imparare di nuovo a vedere 
                il mondo con i suoi occhi per non vederlo troppo in basso. Soltanto 
                aveva continuato a mangiare cioccolato nero, facendolo sciogliere 
                lentamente sul palato. Non se ne era mai stancato. E quando si 
                sentiva pesante, quando la realtà lo assaliva, per strada, 
                sui giornali, o anche in casa sua, correva a prendere tra le mani 
                quella foto e, al suono del campanellino, sull’isola ci 
                volava di nuovo.